di Lorenzo Mortara
♬
Arrenditi
Cimino
I t'hann ciapa…
I t'hann ciapa…
seet
circundàa ♬
Langue
il dibattito a sinistra del centro sinistra in vista delle prossime
elezioni. Sembra che per tirare l’acqua al proprio mulino, sia
meglio evitare discussioni e non rispondere alla critiche. Tra i
pochi che ci provano, senza ricorrere al metodo di dividere il campo,
già abbastanza ristretto, in settari e unitari, prendiamo in
considerazione il Compagno Sergio Cimino, sostenitore di Potere
al Popolo, perché
il suo articolo, Il
discorso sul potere,
pubblicato su La
Città futura,
ci sembra emblematico di un modo che non condividiamo di approcciare
la crisi di rappresentanza del mondo dei lavoratori. Cimino prova a
rispondere alle principali critiche mosse alla nuova lista,
imbastendo la difesa arroccandosi su tre parole: popolo,
riforma e potere.
Da
dove provengono tale critiche? Cimino non lo dice espressamente,
tocca quindi a chi scrive farlo, provengono sostanzialmente
dall’altra lista alternativa, Sinistra
Rivoluzionaria,
e da altri vari
gruppuscoli
trotskoidi che,
a questo giro, a quanto pare, si asterranno.
Chi scrive, lo dice a scanso di equivoci, il 4 Marzo appoggerà
Sinistra Rivoluzionaria.
Sinistra
Rivoluzionaria avrà grossa difficoltà a raggiungere le firme, per
lo meno in tutta Italia, il che non significa che non sarà perlopiù
presente o che addirittura non esista, come van dicendo Cremaschi e
altri che accreditano Potere al Popolo come l’unica forza di
sinistra presente alle elezioni. Per la verità dovrebbero esserci
pure i “comunisti” di Rizzo e forse pure altri. Non si tratta di
volerli ignorare, tanto più che alla base conosciamo parecchi
militanti devoti alla causa, al contrario si tratta proprio di
disprezzarli per gli impresentabili vertici che si ritrovano, già
complici, ai tempi dei governi Prodi, di innumerevoli schifezze ai
danni dei lavoratori,
vedi Legge Treu solo per fare un esempio. Perciò, possiamo far finta
che, di sinistra, alle prossime elezioni, esistano solo queste due
liste, e di queste, infatti, qui si discuterà.
Potere
al Popolo riuscirà sicuramente a raggiungere le firme necessarie. Di
qui a ottenere il 3% e approdare in Parlamento ce ne corre, certo è
che se fallirà, difficilmente sarà per i pochi voti di
testimonianza che
Sinistra Rivoluzionaria riuscirà a sottrargli. Perché allora
Sinistra Rivoluzionaria non può essere nominata nel dibattito che
ruota attorno a Potere al Popolo, rendendolo già di fatto un mezzo
dibattito, ridotto a mezza propaganda faziosa? Semplice: a torto o a
ragione, velleitaria o meno, Sinistra
Rivoluzionaria è il marxismo che si presenta alle elezioni borghesi.
E Potere al popolo sarà anche, forse, io ne dubito fortemente,
potere ai
lavoratori, ma
certo non sarà mai Potere
al Marxismo,
e questo già da solo dovrebbe mettere in guardia il militante
classista.
Accade
invece l’opposto. Anziché mettersi in guardia dall’addolcimento
della dottrina rivoluzionaria, il militante di Potere al Popolo
l’abbassa e si mette in guardia dai ganci del marxismo,
perché la Storia ci ha già insegnato mille volte che, di fronte al
marxismo, il resto della truppa
radicale precipita
nella sudditanza, perché si sa in difetto, perciò piuttosto che
affrontare il bisturi della sua critica tagliente e inesorabile,
preferisce girare più alla larga possibile. Il Compagno Cimino, col
suo articolo, sembra confermare questa storica regola.
IL POPOLO
Cosa dice la critica marxista di Potere al Popolo? Dice, tra le altre cose, che Potere al Popolo ha un programma riformista, nel senso più negativo del termine, e che tale aspetto si vede già nella parola “popolo” che annacqua il classismo in un generico e ambiguo amalgama interclassista. Personalmente credo che il vero problema di Potere al Popolo sia ben altro, e chiunque abbia alle spalle una lunga militanza, non può non vederlo, ma di questo parlerò nelle conclusioni, per ora voglio solo limitarmi a una semplice domanda: è giusta o sbagliata questa critica che viene mossa a Potere al Popolo? Cimino si limita a riportare la critica, suggerendo che a sua volta possa essere criticata o mitigata, ma si guarda bene dal prendere una posizione netta, quasi che il tutto fosse riconducibile a una semplice questione di opinioni più o meno legittime e, qui e là, più, o meno da smussare. Il marxismo non ama questo metodo empirico da pro & contro tipico del dibattito televisivo, e in quanto scienza pretende che si dia una risposta chiara alla domanda. E la risposta che dà, è che non solo è giusta, è tanto giusta che è addirittura sacrosanta. Potere al Popolo vuol riformare il capitalismo e il marxismo vuole la rivoluzione socialista, e per fare la rivoluzione socialista ci vuole la classe ristretta alla classe, giammai allargata al più generico popolo. E l’ultima riprova sta proprio nell’articolo di Cimino, che in fondo non è che l’ennesimo tentativo di difendere il riformismo. E non ci sarebbe bisogno di farlo se Potere al Popolo non fosse appunto riformista.
Come difende Cimino Potere al Popolo? Confermando e aggravando la critica. La parola “popolo” è meno ambigua di quel che si dice perché, dice il compagno napoletano, rimanda all’«aggettivo “popolare” [che] ha accompagnato il nome “Fronte” per identificare le alleanze elettorali di sinistra in Francia e Spagna durante gli anni ’30». È grazie ai fronti popolari che in Francia e in Ispagna come in Italia e un po’ dappertutto, la borghesia 80 anni fa riuscì a conservare il potere. Perché tali fronti non univano solo le sinistre come asserisce Cimino, ma pure pezzi di borghesia presunta progressista e che ovviamente progressista non era. Ed è così che tenendo buoni gli operai e “regredendo” le loro richieste per non scontentare la borghesia “progressista” del fronte popolare, in Ispagna al grido di «¡No pasarán! - ¡No pasarán!», abbiano avuto il Franchismo al posto della Repubblica, e negli altri paesi aborti di rivoluzioni. Tutta un’epoca di sconfitte o di disastri o di mezze vittorie mezzo mutilate, quindi foriere di futuri arretramenti, viene però riportata a galla da Cimino come un esempio virtuoso a cui rifarsi per sdoganare di nuovo la parola popolo e i suoi derivati. Ne segue che a Cimino le sconfitte di allora non sono bastate, le vuole rinverdire, oggi, con altre più cocenti batoste purché a loro volta “popolari”.
Chi c’era dietro i fronti popolari? L’orrido baffone, lo sterminatore del bolscevismo russo e del marxismo internazionale. Per noi ricordiamo Pietro Tresso, colpito e abbattuto nel Maquis nel 1943, e Pietro Tresso basta e avanza come esempio per tutti gli altri marxisti uccisi a migliaia da Stalin. Non pago però della scelta infelice di richiamarsi ai fronti popolari, Cimino giustifica ulteriormente la parola popolo, perché il corrispettivo a Est dei Fronti stalinisti popolari a Ovest, erano le “Repubbliche democratiche”, dette appunto “popolari”, che «si ispiravano – addirittura! – ai principi del marxismo-leninismo». E qui siamo in pieno liberalismo, le Repubbliche popolari vengono giudicate non per quello che in effetti erano, dittature antipopolari di burocrazie staliniste, ma per quello che pensava e diceva di loro la propaganda sovietica. Le repubbliche popolari si ispiravano talmente tanto ai principi del marxismo-leninismo che alla fine di tanta ispirazione rivoluzionaria, si sono trasformate in dittature borghesi o in Repubbliche dei padroni. Cosa avessero di tanto popolare i burocrati di allora, per trasformarsi nei paladini della proprietà privata del capitalismo di oggi, Cimino non lo spiega, gli basta aver ritrovato la parola “popolare” nella Storia passata, per giustificare la parola “popolo” nel presente. Che quella Storia sia tutta da buttare e da campare nel cesso, non lo sfiora manco di striscio, ma se non sfiora lui, non può lasciare indifferenti noi. E se lo stalinismo non ci convinceva allora che era vivo e vegeto, meno ancora ci può convincere oggi che è la caricatura di sé stesso ed è storicamente morto e sepolto sotto la sua stessa merda. Se c’è bisogno di ricordare lo stalinismo per giustificare la parola “popolo”, significa che c’è un motivo in più per rifiutarla.
LA RIFORMA
Difesa la parola “popolo” con Stalin, Cimino passa ora a difendere la parola “riforma” con Kautsky e Bernstein. Cimino si rammarica che dopo la caduta del Muro, la socialdemocrazia si sia trasformata nel suo opposto, liberaldemocrazia, rimpiange l’età dell’oro, l’epoca in cui la socialdemocrazia si atteneva al suo significato originario di riformismo sostanzialmente a vantaggio dei salariati anziché dei capitalisti come è sfacciatamente oggi. Sfugge a Cimino che tale epoca era proprio un’età dell’oro, un’età cioè immaginaria, perché se è incontestabile che la socialdemocrazia abbia avuto una torsione di 180 gradi negli anni ’90, è pur vero che anche prima la sua Storia è stata tutt’altro che lineare rispetto a quello che Cimino chiama il «suo significato consolidato». Innanzitutto, quando si parla di significato consolidato, bisognerebbe sempre chiedersi: consolidato da chi? Perché qui, chi ha consolidato questo significato, sono i riformisti stessi, i meno indicati per giudicare il riformismo, proprio perché parte in causa e incoscienti del ruolo nefasto che hanno avuto nella Storia del movimento operaio. I marxisti non li hanno affatto codificati in tale maniera.
Cimino si attiene alla favoletta del sedicente riformismo:
«all’interno di uno schema più o meno valido dalla fine del XIX secolo con la nascita e lo sviluppo del movimento operaio, i partiti socialdemocratici hanno rappresentato l’istanza associata alla graduale transizione al socialismo, senza discontinuità rivoluzionarie. I gradini, le tappe, di questo processo, sono stati incarnati dalle riforme. Ignorare, nella considerazione della loro portata, una “freccia del tempo” disposta in una ben determinata direzione, equivarrebbe ad una palese distorsione storica».
Siamo ripiombati in pieno liberalismo: il riformismo è quello che i riformisti pensano e dicono di sé stessi. Che la loro pratica sia stata opposta e abbia portato a tutt’altri risultati non conta. Conta il pensiero, non l’azione. Per il pensiero, passo dopo passo, gradino dopo gradino, si arriverà al socialismo. Ma per l’azione la freccia del tempo è tutt’altro che una linea retta. Il pensiero ignora che anche prima degli anni ’90, la direzione ha avuto bruschi e repentini cambi. Si potrebbero citare infiniti casi ma non c’è bisogno di infierire, citiamo i due più clamorosi che la rappresentazione del riformismo ignora perché troppo impegnata a cercare falle nella memoria altrui: il 4 Agosto del 1914, il “gradone” del voto ai crediti di guerra con cui crolla la socialdemocrazia tedesca, si rimangia praticamente in un colpo solo tutti i gradini fin lì fatti; successivamente, non si può non registrare l’ascesa dei vari fascismi e nazismi con la socialdemocrazia nel ruolo di bella statuina alla finestra. Ben prima di questi mirabolanti passi graduali, qualcuna che vedeva un po’ più lontano, aveva consolidato ben altro significato, nella sua lapide scolpita su misura per il riformismo:
«Riforma
legislativa e rivoluzione non sono dunque metodi diversi del
progresso storico, che si possono scegliere al buffet della Storia,
come salsicce calde o fredde, ma sono momenti
diversi nello sviluppo della società classista, che si condizionano
e completano a vicenda ma nel medesimo tempo si escludono a vicenda,
come il polo nord e il polo sud, la borghesia e il proletariato…
Giacché
il lavoro di riforma sociale non ha in sé una propria forza di
propulsione, indipendente dalla rivoluzione, bensì, in ogni periodo
della storia, si muove solo nella direzione e per il tempo
corrispondente alla spinta che gli è stata impressa dall’ultima
rivoluzione, o, per parlare concretamente, solo nel quadro
di
quell’assetto della società che è stato posto in essere dalla più
recente rivoluzione…
È
fondamentalmente falso e del tutto antistorico vedere nel lavoro di
riforma legislativa solo una rivoluzione tirata per il lungo e nella
rivoluzione una riforma condensata. Una rivoluzione sociale e una
riforma legislativa sono momenti diversi, non per la loro durata
ma per la loro natura.
Tutto il segreto dei rivolgimenti storici ottenuti con l’uso del
potere politico consiste proprio nella trasformazione di pure
mutazioni quantitative in qualche cosa di qualitativamente nuovo; per
parlare concretamente, nel passaggio da un periodo storico, da un
ordinamento sociale, ad un altro.
Perciò,
chi si pronuncia favorevole alla via della riforma legislativa invece
e in contrapposto
alla conquista del potere politico e alla rivoluzione sociale,
sceglie in pratica non una via più tranquilla, più sicura, più
lenta, verso la stessa
meta, quanto piuttosto un’altra
meta, cioè, in luogo dell’instaurazione di un nuovo ordinamento
sociale, soltanto dei mutamenti, e non sostanziali, dell’antico».
(Rosa
Luxemburg,
Riforma
sociale o rivoluzione?)
Il
riformismo non vuole arrivare gradualmente al socialismo, ma solo
migliorare il capitalismo, ottimizzare la condizione di schiavitù
salariale del proletariato. Mi pare che oltre cent’anni dopo questa
perla
del marxismo, tale verità storica possa considerarsi acquisita da
qualunque militante mediamente preparato. Per noi marxisti era ovvio
ancora prima che Rosa Luxemburg lo mettesse nero su bianco con la
maestria e la genialità di quell’aquila che è sempre stata, ma se
è del tempo che i riformisti avevano bisogno per toccare con mano il
discorso di questa donna grandiosa, oggi se sono minimamente onesti,
possono tranquillamente ammettere che avevamo ragione. Tanto più
alla luce del fatto che, in tutti i momenti cruciali della Storia,
quando ai padroni non restavano altre carte da giocare, il riformismo
si è sempre trasformato nell’ultima stampella d’appoggio del
capitalismo. Così, quello che era l’ultimo gradino da salire prima
del socialismo, si è sempre trasformato nel primo gradino della
ridiscesa verso la restaurazione borghese. Di qui i ciclici
capitomboli dei profeti del gradualismo riformista, ultimo in ordine
cronologico, il ruzzolone di Tsipras e di quella chiavica riformista
di Syriza.
Essendo
il capitalismo, l’orizzonte invalicabile della riforma, ne deriva
che nella migliore delle ipotesi, un riformismo conseguente – che
per altro non è che una contraddizione in termini perché il
riformismo proprio per l’invalicabilità dell’ultimo gradino non
può essere sempre conseguente – miglioramento dopo miglioramento,
non conduce affatto per il proletariato, come pensa Cimino, a una
«parziale
emancipazione dal
sistema del capitale». È l’esatto opposto, un riformismo
conseguente porta a
una parziale integrazione del proletariato nel sistema del capitale.
Esattamente come – è sempre Rosa a spiegarcelo per
sempre –
un socialista al governo non introduce un granello di socialismo nel
programma borghese, ma trasforma semplicemente il militante
socialista, in un ministro borghese. E anche qui, l’appoggio di
Rifondazione
Comunista
ai Governi Prodi dovrebbe averlo mostrato a sufficienza anche ai
ciechi o agli increduli a cui, l’esempio di Millerand a cavallo del
Novecento, ancora non era bastato.
Questa
parziale integrazione, per altro, resterà sempre parziale perché
nel sistema del capitale, il proletariato nel suo complesso non potrà
mai diventare borghese. Gli mancheranno sempre i mezzi di produzione
per farlo. Non solo, questa parziale integrazione è destinata nel
lungo periodo a incepparsi e a trasformarsi nel suo opposto, in
repulsione dal sistema, perché il meccanismo di accumulazione del
capitale, in termini assoluti, solo per brevi periodi, di norma a
ridosso di vittorie epocali, può condurre al «generale
miglioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice».
In
termini relativi, cioè in proporzione, praticamente mai. Perché se
non elimini il capitalismo, compagno Cimino, la
legge del valore
inchioderà sempre la merce salariata al suo prezzo naturale (salario
che arriva a malapena alla fine del mese), mentre la tecnologia
incrementerà, innovazione dopo innovazione, il profitto. Il che
equivale a dire che la condizione di vita della classe lavoratrice
tenderà a peggiorare in rapporto al Capitale. E nessun articolo 18,
nemmeno quello del 1970, può impedire un simile peggioramento. E in
questa legge che è anche la legge dell’accumulazione
capitalistica, è già contenuta la capriola al contrario del
gradualismo, perché non potendo valicare il capitalismo, il
riformismo, nonostante i suoi gradini, è destinato ad accettarla,
cioè a spostare, volente o nolente, i rapporti di forza tra capitale
e forza-lavoro dalla parte del primo, fino a quando il
divario crescente creerà una pressione
così grande da piegare
il secondo
come un grissino e costringere le sue velleitarie idee di riforma
alla capitolazione. Per trent’anni, infatti, abbiamo dovuto
sorbirci le ciance superficiali dei soloni riformisti, che ci
spiegavano come, la legge marxiana della crescente miseria del
proletariato, non si fosse verificata grazie al loro intervento.
Questi luminari del nulla, al pari di tutti gli ignavi, attribuivano
ai riformisti, cioè a sé stessi, i successi della rivoluzione che
riequilibrava i rapporti di forza tra le classi. È bastato che la
rivoluzione crollasse, perché la legge della miseria crescente si
riprendesse la scena, a cominciare dalla miseria assoluta della loro
povertà intellettuale che è rimasta in mutande. Perché senza più
la spinta della rivoluzione, i riformisti non sono stati più in
grado di fare niente, così, grazie a loro, i lavoratori sono
ripiombati a livelli ottocenteschi, con la differenza che
nell’Ottocento i padroni non guadagnavano così tanto, il divario è
aumentato, i lavoratori di oggi sono cento volte più sfruttati e
stanno relativamente peggio. E se attendono i riformisti, ancora una
decina d’anni e staranno peggio anche in termini assoluti.
Siamo
all’epilogo del mistero, Cimino insiste sulla dicotomia
riforma/rivoluzione come se ci potesse essere riforma o rivoluzione.
Non comprende l’imperitura lezione impartita da Rosa Luxemburg a
quel somaro di Eduard Bernstein. Riforma e rivoluzione sono la stessa
cosa, più precisamente sono due momenti di un unico processo
rivoluzionario. La riforma è il sottoprodotto della lotta
rivoluzionaria, non del gradualismo lungimirante dei riformisti che
altro non sono che generali da due soldi che si appuntano sul petto
le medaglie al valore delle lotte combattute da altri. Al pari di
tutti i Bernstein e Kautsky, Cimino, si balocca tra Riforma o
Rivoluzione a seconda che si giudichi il momento rivoluzionario o non
rivoluzionario. È prerivoluzionario? Avanti col marxismo! Non è
rivoluzionario? Allora via il marxismo, avanti col gradualismo! Non
comprende che una cosa è la riforma, un’altra il riformismo. La
riforma è propria della rivoluzione, non del riformismo a cui Cimino
la attribuisce. Che cosa allora è proprio del riformismo? Il
freno
tanto alla rivoluzione quanto al suo sottoprodotto, la riforma. Il
riformismo è il programma di sinistra del Capitale, è lo spirito
reazionario e borghese che si insinua nella rivoluzione, è il germe
parassitario che si annida nella lotta per succhiarne la linfa e
vivere sulle sue spalle. E come il Capitale segue inevitabilmente
l’eterno suo ciclo, dall’espansione al boom alla recessione per
poi ricominciare, anche il riformismo, dopo un ciclo di riforme su
cui è campato, allo scoppiare della crisi capitalistica s’arresta,
va in recessione e torna regolarmente indietro riprendendosi le
riforme, scaricando sui lavoratori il peso della sua poltrona ormai
acquisita e che non vuol mollare.
Cimino
cita le nazionalizzazioni, l’istruzione e la sanità pubblica cioè
i principali successi di cui i riformisti si sono sempre vantati. Non
è difficile riconoscere i progressi di tali graduali riforme. Più
difficile comprendere il ruolo giocato dai riformisti in tutto ciò.
L’esempio di Allende e dell’Unidad
Popular
può valere per tutti, le eccezioni confermeranno soltanto la regola.
Mentre operai e contadini occupavano terre e fabbriche dei padroni,
Allende si precipitava a restituirgliele in parte o a indennizzarli.
In breve, quando non sono un modo per socializzare le perdite, le
nazionalizzazioni dei riformisti, fatte sempre sotto la pressione
delle masse, nazionalizzano meno di quanto si possa nazionalizzare.
Anche le riforme dell’epoca d’oro della socialdemocrazia sotto
Bismarck sono così. Se si studiano bene gli ultimi scritti di Marx
ed Engels, si vedrà come abbiano sempre dovuto scontrarsi con la
burocrazia
degli smorzatori di professione
che cominciava a prendere piede. E la Rivoluzione d’Ottobre non è
in fondo lo scontro tra i bolscevichi rivoluzionari che vogliono far
fare due passi in più alle masse che rischiano di incartarsi, e i
menscevichi che fanno di tutto per fargliene fare due in meno ed
incartarle definitivamente? Questa dinamica si ripete dovunque ci sia
una lotta per la riforma o la rivoluzione che son la stessa cosa. Non
solo, le nazionalizzazione e i successi di ieri, vanno visti in
maniera dinamica, non fermi e immobili, separati a compartimenti
stagni dal processo storico di cui fanno parte. E il progresso delle
nazionalizzazioni di ieri, in mancanza del
salto qualitativo nella rivoluzione, si è trasformato nel regresso
delle privatizzazioni di oggi, portate avanti dagli stessi riformisti
di sempre. Cimino pensa di cavarsela riportando indietro l’orologio
del riformismo. La socialdemocrazia deve tornare quella di prima,
dice, come se fosse solo un problema di idee. Perché torni quella di
una volta, la socialdemocrazia ha bisogno che anche il capitalismo
torni quello di un tempo. E questo è appunto il problema. Il
capitalismo vive di cicli. Non esiste la crisi finale del
capitalismo, ma ad ogni nuovo ciclo, il gioco si fa sempre più
difficile. Può il capitalismo tornare quello di una volta? È molto
difficile per non dire impossibile. Ne segue che anche il riformismo
difficilmente può tornare alle origini. Cimino vorrebbe che
riconoscessimo nel programma di Potere al Popolo il riformismo
primigenio. E noi glielo riconosciamo senz’altro. Ma mentre Cimino
si perde a definire quale riformismo rappresenti il programma di
Potere al Popolo, noi meno interessati alle questioni teoriche e più
pratici, vorremmo che lui o chi per lui ci spiegasse una cosa molto
più importante: perché Syriza, con un programma primigenio più o
meno simile, è capitolata in nemmeno tre giorni, non realizzandone
manco una virgola? Davvero ci stupisce l’ingenuità, questa sì
primigenia, con cui Cimino valuta il programma di Potere al Popolo.
Secondo lui:
«la
combinazione del rifiuto del Fiscal Compact e della costituzione di
un Audit sul debito pubblico,
in funzione della sua rinegoziazione e ristrutturazione, rappresenta
il fulcro di una qualsiasi strategia di reale destrutturazione del
potere del capitale internazionale».
Scusate
Signori riformisti, ma questo non era precisamente il progetto di
quella banderuola greca di Tsipras? E come è finita la
reale destrutturazione del potere del capitale?
Col capitale intatto, felice come una Pasqua, e la reale
destrutturazione di Tsipras, la totale destrutturazione del lavoro
salariato e la completa bancarotta di Syriza. E se già Syriza è
finita così, nonostante l’appoggio di massa, perché mai dovremmo
pensare che Potere al Popolo, che le masse al momento non le vede
manco di striscio, possa fare una fine migliore? Davvero si può
ripresentare lo stesso programma di riforme, senza dire una parola di
Tsipras e senza fare i conti col fallimento di Syriza? Perché il
Compagno Cimino non ne parla? Semplice: perché non saprebbe cosa
rispondere.
Il marxismo, invece, saccente com’è, non ha problemi a rispondere: perché il riformismo in Grecia è andato incontro all’ennesimo disastro? Perché il gradualismo frenante, tra le altre cose, ignora la dialettica. Quando il riformismo davanti all’ultimo gradino invalicabile ruzzola all’indietro precipitando di dieci gradini, immagina di poter rifare il percorso al giro successivo che è anche il giro successivo della sua boria. Ma come ad ogni ciclo del capitale, il gioco si fa sempre più difficile, alla stessa maniera i gradini che il riformismo può fare oggi non sono gli stessi di ieri. Quanti gradini può fare oggi il riformismo, ammesso che li voglia fare? È difficile rispondere con precisione a tale domanda. Di sicuro non può semplicemente recuperare quelli perduti, perché la dialettica non è un gioco aritmetico. Tuttavia, proprio perché non esiste una crisi finale del capitale, non esiste nemmeno una chiusura definitiva di spazio per le riforme. I trent’anni di social-capitalismo della socialdemocrazia e soprattutto l’esperienza greca, però, ci suggeriscono che per quanto il riformismo possa pensare di provare ad avanzare a passi magari ancora più piccoli e ancora più graduali, dal 2008 in avanti, ogni volta che ci prova si trova sostanzialmente davanti sempre e soltanto l’ultimo gradino. Ed è per questo che capitola e ruzzola indietro, perché l’ultimo gradino è invalicabile per il riformismo. Non ha quindi alcun senso riproporre il programma minimo come fa Cimino, perché presuppone ancora tanti gradini da risalire. La separazione tra programma minimo e massimo, non è la separazione tra la rivoluzione e un gradualismo onesto che non è mai esistito, ma la copertura con cui si sostituiva al programma di una classe dominata, quello dell’altra dominante. Ma se il programma di sinistra del Capitale, il riformismo graduale, non ha davanti che un ultimo gradino, allora l’alternativa si riduce alla scelta tra il capitalismo e il socialismo. E siccome o socialismo o barbarie, il riformismo che non ne vuol sapere di abbandonare il capitalismo, è la graduale scelta di campo della barbarie. Cimino nel 2018, fuori tempo massimo, vuol tornare alla separazione tra programma minimo e massimo di inizio Novecento, quando Trotsky, da 80 anni esatti, l’ha sostituita per sempre col Programma di Transizione del 1938. E perciò anche oggi, nel 2018, il programma o è di transizione o non è niente.
IL POTERE
Attraversato il fiume del popolo sul piroscafo di Stalin, affrontato il mare della riforma sulla bagnarola di Bernstein e Kautsky, non potevamo certo pretendere che l’ultimo capitolo del trittico, il potere, fosse affrontato sulle colonne del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels. Infatti, per inforcare l’ultimo palo, il Compagno Cimino, ripercorre più o meno gli errori di prima, affidandosi però al pensiero un po’ più radicale, per quanto sempre debole rispetto al marxismo, dell’operaismo di Panzieri e dei suoi Quaderni Rossi.
Panzieri discuteva con Momigliano il quale negava valore politico all’azione sindacale, in quanto finita la lotta anche più dura e vittoriosa, il sindacato era costretto a rientrare nell’ambito della contrattazione e quindi della normalità in cui il potere è in mano ai padroni e ai lavoratori tocca difendersi. Cimino trasla questo discorso anche a «una forza politica dichiaratamente e genuinamente rivoluzionaria», chiedendosi se anche a lei non tocchi il ritorno alla normalità dopo una lotta nel quadro parlamentare, democratico borghese. Da notare che dopo aver perorato in lungo e in largo la causa del riformismo e del programma minimo, ora scopriamo che Potere al Popolo – perché è a questa compagine che si riferisce – è un Partito Genuinamente Rivoluzionario. E perché deve tornare alla normalità, cioè al riformismo, un partito genuinamente rivoluzionario come Potere al Popolo? Semplice: perché il momento non è pre-rivoluzionario. Siamo al punto di prima, alla separazione artificiosa delle cose. Prima veniva separata la riforma dalla rivoluzione, ora si separa la lotta politica da quella sindacale. Lo scopo è sempre lo stesso, trovare tutte le scappatoie possibili, meglio se dotte e ricercate, per saltare sul carro del riformismo mantenendo, come per un bisogno di prestigio, l’insegna della rivoluzione. Nulla di nuovo sotto il sole: il riformismo, sventolando la bandiera rossa, non ha sempre chiamato realismo quello che noi chiamiamo opportunismo? Ed è per il genuino realismo dei suoi paraocchi che il Compagno Cimino vorrebbe saltare sul carro del nuovo riformismo senza mai accorgersi di restare solo sul vecchio carro dell’opportunismo. O meglio, probabilmente un po’ se ne accorge. Infatti, sente la rivoluzione fischiargli nelle orecchie:
«ma la rivoluzione è rottura, sembra quasi di sentire urlare. Quello che però dovremmo chiederci è: la rivoluzione è già rottura fin dal suo principio? Probabilmente può esserci di aiuto porre una adeguata enfasi sulla connotazione dinamica della rivoluzione, valorizzando il suo essere principalmente processo».
Mettendo apparentemente in marcia la rivoluzione, con domande retoriche e superflue – davvero ci crede così stolti d’aver bisogno di essere edotti sulla rivoluzione come processo? – Cimino pensa di aver aggiustato le cose. In realtà le ha solo aggravate, mettendo in moto la stessa retromarcia riformista di prima, perché qui lui afferma di fatto che il processo rivoluzionario va dal riformismo iniziale fino alla rivoluzione finale. Falso! La rivoluzione in effetti è sì un processo, questo lo sanno anche i riformisti, quello che ignorano è che il processo è di rottura dall’inizio alla fine, solo che non sempre, anzi raramente, la rottura coglie un successo completo, spesso deve accontentarsi di risultati parziali che prendono il nome di riforma. Esattamente come un colpo d’ascia che cerca la rottura del tronco, non sempre ci riesce al primo tentativo, ma sempre colpo d’ascia è. E i risultati parziali, la rivoluzione, li coglie proprio perché va alla rottura dall’inizio alla fine. Se andasse con la museruola riformista fin dall’inizio, perderebbe in due giorni senza ottenere nulla. Cimino ha forse visto il popolo parigino del 1789, e questa volta popolo va bene perché allora la classe operaia non era ancora ben delineata, prendere la Bastiglia dopo vent’anni di programma minimo di Robespierre? Ha visto forse il 1905 russo arato per 30 anni dai piccoli passi del populismo di Vera Zasulič? Crede forse che, nel 1919-20, il biennio rosso in Italia, sia stato preparato dal gradualismo in crescendo di quei minimalisti di Buozzi e Turati? E le recenti primavere arabe, appena rifiorite dopo che la superficialità degli stolti le aveva già liquidate, sono forse nate da un gradualismo saggio e prudente? Invece di far della teoria sbagliata, perché Cimino non ci illumina con qualche esempio pratico tratto dalla realtà? Ci faccia vedere un processo rivoluzionario che cominci col riformismo e si concluda con la rivoluzione, e davvero ci travestiremo da clown, pronti per essere iscritti anche noi al circo riformista.
La
rivoluzione quasi mai coglie in pieno sé stessa, perché nonostante
la sua intensità deve sempre fare i conti, oltreché con la
reazione, con l’altro aspetto che l’accompagna, e cioè il
riformismo
che, anch’esso dall’inizio alla fine, è il processo frenante
della rivoluzione e che tenta di deviarla nella riforma.
Se fosse come dice, un processo che comincia prudente e pian piano
accelera, Cimino avrebbe visto i riformisti menscevichi trasformarsi
in rivoluzionari nel momento rivoluzionario dell’Ottobre. Ma non
dicono i riformisti di tutte le razze ancora oggi che Lenin si è
spinto troppo avanti, perché nella Russia del 1917 non c’erano le
condizioni per una rivoluzione? E non dicono, forse, gli stalinisti
italiani che nel 1945 non si poteva fare la rivoluzione perché
c’erano gli americani e tante altre balle? E mille analoghe scuse
non si trovano nella bocca di tutti gli affossatori di momenti
rivoluzionari? Ma soprattutto, perché se i riformisti restano
riformisti controrivoluzionari anche in tempi di rivoluzione, i
sedicenti genuini rivoluzionari devono diventare riformisti appena le
condizioni smettono di essere rivoluzionarie? Risposta: perché
Cimino vuol far la rivoluzione con logica aritmetica, anziché con la
dialettica materialistica. Vuol fare cioè il riformista travestito
da rivoluzionario. Non capisce che il processo rivoluzionario è un
processo materialistico come un altro, fatto di azione e reazione.
Non sta a lui fare tutte due le parti, saltando ora nell’una ora
nell’altra a seconda del momento. Stia nel suo campo se vuole
davvero la rivoluzione.
Per
lui l’enfasi
dinamica della rivoluzione
consiste nell’addizionare i vari aspetti passo dopo passo. Ecco
quindi che ricompone Momigliano e Panzieri, cioè lotta sindacale e
politica, perché finita la lotta gli operai dovranno sì sottostare
ancora al comando, ma avendo po’ più di potere, ne avranno di
conseguenza meno i padroni, perché il potere non conosce il vuoto.
Di questo passo, pezzetto dopo pezzetto, gli operai avranno in mano
tutto il potere. Nel frattempo quel pezzo in più aprirà loro nuove
mirabolanti possibilità, che sempre a seconda del momento, saranno o
di «scontro o di tregua o – Udite!
Udite! –
di collaborazione tattica». E cosa sarebbe questa collaborazione
tattica tra le classi?
Il Fronte Popolare di prima, cioè la tattica sbagliata e
controrivoluzionaria nel momento giusto per la rivoluzione. Cimino la
ripropone perché non vuole la rottura ma la conciliazione, però con
sottofondo il rumore della rottura che tanto gli piace e fa scena.
Come se bastasse un programma di rottura per dare una carica
anticapitalista a una forza politica. Di norma è l’esatto opposto,
più cariche apparentemente di rottura ha un programma, e meno
anticapitalista è la forza politica che lo sostiene. Il bello è
che, anche stando a Cimino, Potere al Popolo, di cariche
anticapitaliste ne ha davvero poche. Per lui infatti, il richiamo
alla Costituzione e la sua difesa contro i padroni che la vogliono
smantellare, il rifiuto del fiscal
compact
con la rimodulazione del debito e infine il mutualismo con democrazia
diretta legalitaria, sono la quintessenza della rottura antisistema e
della presa progressiva del potere. Per noi ha più carica
anticapitalista quello che Cimino mette in secondo piano: ripristino
dell’articolo 18, riduzione d’orario a parità di salario,
eliminazione della Legge Fornero eccetera. Ma primo e secondo piano,
anche sommati, non danno una carica di rottura perché la rottura sta
nel metodo con cui si porta avanti un programma, non nella sua lista
della spesa. E il metodo del riformismo consiste nello smorzare la
lotta, e quindi anche il programma, nei punti nevralgici. Il metodo
della rivoluzione consiste all’opposto nell’evidenziarli. E
infatti cosa è sparito dal programma di Potere al Popolo come
evidenziano le cariche di rottura citate da Cimino? È sparito
precisamente quel discorso sulla presa del potere su cui Cimino non
ha fatto altro che girarci attorno. Forse così ha rimesso insieme i
Quaderni Rossi, ma non li metterà mai assieme coi quaderni marxisti,
perché non parlano la stessa lingua e non sono sovrapponibili. Per i
quaderni marxisti questione sindacale e politica non si ricompongo
per via addizionale. Sentiamo infatti ancora una volta un’aquila
che, con tutto il rispetto, ci poteva risparmiare Momigliano e
Panzieri:
«la
distinzione fra lotta politica e lotta economica e la loro
separazione sono il prodotto artificiale, ancorché storicamente
spiegabile, dei periodo del parlamentarismo. Per un verso, nel
procedere tranquillo e “normale” della società borghese, la
lotta economica è dispersa, frammentata in una quantità di lotte
parziali in ciascuna azienda, in ciascuno dei settori produttivi. Per
altro verso, la lotta politica è condotta non dalle masse stesse in
un’azione diretta, ma, in conformità alle forme dello Stato
borghese, per via rappresentativa, attraverso la pressione esercitata
sugli organismi legislativi…
Quando
invece si apre un periodo di lotte rivoluzionarie, vale a dire quando
le masse si presentano sul campo di battaglia, cessano tanto la
dispersione della lotta economica quanto la forma indiretta,
parlamentare, della lotta politica: in un’azione rivoluzionaria di
massa, lotta politica e lotta economica fanno tutt’uno, e il limite
artificioso segnato tra sindacati e partito socialista, quasi si
trattasse di forme separate, completamente diverse, del movimento
operaio, viene semplicemente soppresso.
Non
esistono due differenti lotte, una politica e una economica, della
classe operaia: esiste solo un’unica lotta di classe, che tende
contemporaneamente a limitare lo sfruttamento capitalistico in seno
alla società borghese e a sopprimere sfruttamento capitalistico e
società borghese al tempo stesso. Se questi due volti della lotta di
classe in periodo parlamentare si presentano separati, per ragioni
tecniche, non rappresentano però due azioni parallele ma solamente
due fasi, due livelli della lotta per l’affrancamento della classe
lavoratrice. La lotta sindacale comprende gli interessi immediati,
quella politica gli interessi futuri del movimento operaio.
Il
rapporto dei sindacati rispetto al partito socialista è, quindi,
quello della parte rispetto al tutto»
(Rosa
Luxemburg,
Sciopero
di massa, partito e sindacati)
Come
si vede il dibattito tra Momigliano e Panzieri è uno dei tanti
discorsi di retroguardia. La lotta economica sindacale e la lotta
politica, non sono separate da compartimenti stagni e sono
sostanzialmente la stessa cosa: lotta
di classe.
Quando l’operaio rientra in fabbrica dopo una lotta vittoriosa,
porta con sé le conquiste che ha ottenuto. Se ha conquistato
l’art.18, che è una conquista politica, è evidente che se la
porta in fabbrica. Se Momigliano continua a non vederci un contenuto
politico perché l’operaio resta sempre subordinato al padrone,
significa che attribuisce valore politico soltanto all’atto finale
della lotta di classe: la presa rivoluzionaria del potere, con questo
mistificando e non comprendendo cosa sia in effetti una rivoluzione.
Cimino che gli va dietro, non ne comprende molto di più.
Una
rivoluzione non è solo la presa del potere politico, altrimenti la
classe operaia con Syriza al potere avrebbe fatto la rivoluzione. Non
è nemmeno una straordinaria vittoria economica. È anche e
soprattutto una conquista
strutturale e sociale
per l’esproprio di una classe. Questi tre aspetti, economico,
politico e sociale, perché una rivoluzione vinca, devono essere
risolti contemporaneamente e sostanzialmente
tutti
in un colpo. Ecco perché una rivoluzione è così difficile e rara,
perché puntando dritto verso la struttura sociale di classe e verso
l’abbattimento del modo di produzione capitalistico che nessun
padrone può concedere, nel 99% dei casi ottiene in cambio della sua
deviazione ad opera dei riformisti qualche riforma politica o
economica, che sono essenzialmente
cambiamenti sovrastrutturali,
che non intaccano la struttura di fondo.
Se
prendiamo come esempio l’art.18, vediamo bene questo aspetto. Gli
operai nel ’68 costituiscono in mezza Italia i consigli di
fabbrica, un contropotere
che non risponde a nessuno se non ai lavoratori. Attentano al comando
padronale. Sono lì lì per il salto successivo: la presa del
possesso delle fabbriche stesse. Strappano però la riforma nel 1970.
I padroni varano in fretta e furia uno Statuto
dei Lavoratori che
riconosce molte cose, tra cui il sindacato anche nell’altra mezza
Italia e l’art.18. La struttura capitalistica è intatta e salva,
ma la sovrastruttura ha ceduto un bel po’ di soldi e qualche
diritto storico. Non solo, la Rivoluzione paga anche un prezzo al
riformismo: l’art.19 dello Statuto, cioè la costituzione dall’alto
delle RSA, ovvero la rappresentanza nominata e controllata dalle
burocrazie di Cgil-Cisl-Uil. La forza della rivoluzione è così
grande che le RSA non son applicate in pieno nemmeno oggi, e fino al
1984 dovettero accettare lo stesso i consigli di fabbrica anche se
via via sempre più addomesticati. Il riformismo si appunterà sul
petto la medaglia, ma lo Statuto dei Lavoratori è proprio della
rivoluzione diretta contro la struttura capitalistica, del riformismo
è proprio l’art.19 e le altre piccole storture presenti nelle
conquiste di quel periodo. E qui per riformismo non intendiamo per
forza i socialisti Brodolini e Giugni, gli artefici dello Statuto, ma
tutto quello sciame umano di burocrati sindacali, ministri della DC,
deputati del PCI eccetera che per 10 anni corse dietro alla
rivoluzione solo per farla inciampare. I graffi di questa masnada di
filistei si vedono nell’art.19 dello Statuto.
Solo
puntando dritto
alla
rivoluzione strutturale si ottengono riforme sovrastrutturali. La
conquista pezzo per pezzo del potere, l’addizione di potere
proletario che sottrae pezzi di potere capitalista sono fantasie
aritmetiche che nella realtà non esistono. Perché anche la
conquista del potere è una questione dialettica. Cimino parla di
pezzi di potere, come se gli operai dovessero mettere assieme art.18,
pensione, riduzione d’orario, abolizione del Jobs act e altri
innumerevoli tessere per avere completo il quadro di comando del
potere. La verità è che anche li mettessero assieme tutti, il loro
potere sarebbe sempre uguale a zero. Perché non è quello il puzzle
che devono comporre. Tutti questi pezzi, modificano solo la testa
sovrastrutturale del sistema, è il cuore che deve essere preso e
strappato andando alla radice strutturale. Conquiste simili servono
solo come leva per quel salto qualitativo con cui gli operai
esproprieranno i padroni prendendo possesso dell’unica cosa che
nessuna riforma può dar loro: i mezzi di produzione per instaurarne
uno nuovo.
Quello
che cambia con le conquiste parziali sono i rapporti di forza, per
tentare l’assalto finale, non il potere della classe padronale che
resta saldo e indiviso nelle sue mani. Lo dimostra una delle più
ridicole e inconcludenti sconfitte dei riformisti: la
cogestione tedesca.
Solo l’ipocrisia più sfacciata del riformismo poteva pensare di
cogestire il capitalismo. Ma il suo interesse di casta veniva prima
di una verità che anche i sassi sapevano, così il riformismo
annidato nelle burocrazie sindacali, crollato il nazismo, deviò la
lotta
radicale
verso la cogestione, illudendo i lavoratori che in regime
capitalistico potesse mai esserci un rapporto paritetico tra loro e
il capitale proprietario. Risultato: ci vollero 7 anni per domare
questa illusoria pretesa, ma il 19 Luglio 1952 il Bundestag approvò
la legge sulle relazioni sindacali, e ai lavoratori nel consiglio di
amministrazione di una società spettavano solo un terzo dei
rappresentanti, cioè nessuno, con buona pace della cogestione. «Era
una delle più amare sconfitte sindacali del dopoguerra» sentenzia
Edmondo Montali, lo storico della cogestione tedesca. La struttura
era rimasta indenne, ma la sovrastruttura dovette sopportare un terzo
di parrucconi in più da mantenere a sbafo dei lavoratori.
Le
cariche anticapitaliste descritte da Cimino, sono cariche messe alla
testa del sistema. Né il ripristino della Costituzione del 1948, né
una valutazione indipendente, super-partes (sic!) del debito, né il
mutualismo, né la riduzione d’orario di lavoro, né tanto meno il
ripristino dell’articolo 18 o delle pensioni, possono di per sé
mutare di una virgola il modo di produzione capitalistico, perché
sono tutte riforme sovrastrutturali. Il fatto che il capitalismo
queste cose le abbia in fondo già sopportate una volta, dimostra che
di per sé potrebbe sopportarle ancora. Come potrebbe non sopportare
ad esempio una Costituzione borghese come quella repubblicana che
sancisce, nell’art.
41
la proprietà privata? E in effetti quello che i padroni vogliono
smantellare sono i suoi fronzoli “socialisteggianti”. E per noi
la difesa della Costituzione dovrebbe essere la difesa di quelli e
solo quelli, perché il resto va rovesciato, visto che il resto della
Costituzione, non si preoccupi il compagno Cimino, sarà sempre
difeso dai padroni. Non serve che ci mettiamo a guardia pure noi!
Persino
il controllo operaio può sopportare il capitalismo, purché non si
accompagni all’esproprio dei padroni e al potere sui mezzi di
produzione. Ma a chi resta in mano la proprietà dei mezzi di
produzione, è proprio quello che il programma di Potere al Popolo
elude. Il controllo operaio è quindi solo una chiacchiera sul
controllo operaio.
Un
programma è anticapitalista quando mette le cariche dritte
al
cuore del sistema, cioè quando attenta ai mezzi di produzione per
espropriarli e dominarli. Potere al Popolo nel programma mette tutte
le cariche alla testa, proprio per nascondere il fatto che al cuore
non ne mette manco mezza. Intuiamo la risposta di Cimino, la
immaginiamo più o meno così, come emerge qua e là nel suo
articolo: la coscienza è andata troppo indietro per un programma più
avanzato. Anche stavolta l’opportunismo è riuscito nella impresa
più strabiliante della sua ciclica Storia: dare la colpa alle masse
per l’arretramento causato dal suo riformismo. Che poi Cimino
proponga il riformismo, anche se d’antan, senza chiedersi per quale
motivo il riformismo, che è la principale causa dell’arretramento
più vistoso di tutti i tempi, quello degli ultimi trent’anni,
dovrebbe essere anche la soluzione, è davvero il colmo.
Il
colmo dei colmi, però, è che anche quando parla di arretramento e
di coscienza, non gli entra in testa la dialettica. Il pauroso
arretramento dell’ultimo trentennio, talmente inglorioso da essersi
ampiamente rimangiato il trentennio
glorioso,
lo fa subito scalare dalla rivoluzione al riformismo. Dimentica che
ogni arretramento è anche un avanzamento. Grazie alle continue
capriole del riformismo, l’accumulazione di capitale è continuata
praticamente indisturbata. E oggi, al mostruoso arretramento dei
lavoratori, corrisponde il più spaventoso avanzamento del capitale
mai registrato dalla Storia. Mai il divario tra Capitale e
Forza-Lavoro è stato più grande come dimostrano puntualmente ogni
anno le statistiche sui
miliardari.
Cimino non ne trae alcuna conseguenza, o meglio ne trae la
conseguenza sbagliata: minimizzare il programma per caricare alla
testa in vista di qualche briciola di
riforma.
All’esatto contrario si muove il programma della rivoluzione:
caricare alla
radice la
struttura per ottenere il massimo da un programma rivoluzionario.
Perché? Perché l’aumento del divario tra Capitale e Forza-lavoro,
è anche l’aumento dei rapporti di forza a favore del primo. La
potenza che abbiamo di fronte si è ingigantita come una montagna. E
Cimino vuol
affrontarla facendosi sempre più piccolo, come
uno che voglia perforarla passando dalla trivellatrice al martello
pneumatico, al martello a mani nude. Solo
una forza uguale e contraria a quella accumulata dal Capitale in
questi trent’anni, potrà dare qualche speranza di successo agli
operai. Solo mettendo alla radice del sistema tutte le cariche a
disposizione, avremo almeno qualche speranza di scalfire la
sovrastruttura con qualche riforma. La
potenza che abbiamo di fronte si è ingigantita come una montagna.
Nel
linguaggio della II Internazionale di
cui fa parte Cimino,
in breve del riformismo, magari
in versione due e mezzo, significa
che solo concentrando tutta la potenza di fuoco, nella forza di un
programma 10 volte più potente di quello massimo della
socialdemocrazia tedesca, 5 volte più potente delle Tesi di Aprile
di Lenin, e 3 volte più potente del Programma di Transizione di
Trotsky, si può portare a casa qualcuna della briciole da lui
citate. Naturalmente il programma da solo non basta, senza la massa
dei lavoratori resta sulla carta, ma proprio perché resta sulla
carta deve servire anzitutto a prendere bene la mira e a identificare
il bersaglio. Cimino, però, si esalta perché Potere al popolo fa il
contrario: disperde in un programma minimo tutte le cento cariche e
le punta tutte su un
bersaglio
non identificato. Ed è per questo che la presa del potere resterà
un discorso per Potere al Popolo, perché di questo passo sarà il
Capitale a prendersi le sue mutande. E
senza profferir parola.
CONCLUSIONI
Ci
siamo dilungati forse un po’ troppo per paura di non essere
abbastanza esaurienti. Ora però che abbiamo sistemato
il potere, il popolo e la riforma,
possiamo anche aggiungere che, se pure sian vere le nostre critiche,
e lo sono senza ombra di dubbio, restano pur sempre critiche
secondarie. Perché quelle primarie sono ben altre e i militanti più
agguerriti e preparati si sono concentrati su queste. Cimino ci ha
costretto alla critica secondaria perché oltre a tenersi alla larga
dal marxismo, ha fatto finta che questa fosse quella primaria rivolta
a Potere al Popolo.
Un
programma riformista, cioè le illusioni dei compagni alla Cimino,
può essere corretto in corsa se i compagni che ci credono sono buoni
e davvero devoti alla causa rivoluzionaria, specialmente se il
programma in questione è davvero robusto come in effetti è.
L’esperienza pratica darà loro una mano in tal senso. Se però i
compagni che prendono delle cantonate hanno solo interesse alla
poltrona, l’esperienza non servirà a niente, perché solo la
poltrona farà da esperienza. Ed è inutile chiedersi se il programma
sia riformista o rivoluzionario, se non si dice una parola su chi lo
porterà comunque avanti.
Il
programma riformista di Potere al Popolo sarà portato avanti dalle
principali forze che lo sostengono. E quali sono? Risponde Cimino:
«tra
i maggiori, Partito della Rifondazione
Comunista,
Partito
Comunista Italiano,
Sinistra
Anticapitalista,
Eurostop»
Null’altro
ha da dire Cimino, scena muta per tutto il resto dell’articolo. Una
forza genuinamente
rivoluzionaria
come Potere al Popolo sarà trainata da due forze, le prime che ha
richiamato, che non si possono nemmeno definire riformiste, perché
dopo 90 anni di spirito controrivoluzionario stalinista, ridotte
ormai a puro ed infimo ceto burocratico, sono in tutto e per tutto
forze schifosamente reazionarie. Si è tanto discusso
dell’infiltrazione di Rifondazione ed
ex
Comunisti Italiani, di un ceto burocratico che ha governato ben due
volte con Prodi rifilandoci e firmando Leggi Treu, controriforme da 6
anni in più di lavoro, missioni di guerra, sgravi alle imprese
eccetera eccetera. Rifondazione è solo un gruppo tra i tanti,
qualcuno diceva, poi abbiamo visto scegliere i portavoce col manuale
Cencelli, e quindi dall’alto e non dal basso, e di fatto
Rifondazione ne aveva due, l’unica, perché tutti gli altri ne
avevano uno. Abbiamo poi letto che i criteri con cui si sarebbero
scelti i candidati sarebbero stati in coerenza col programma. Il
Coordinamento
Organizzativo avrebbe
vigilato.
Come? Sentiamo:
«Il
Coordinamento
Organizzativo verifica, pena esclusione motivata ma
insindacabile, che i
candidati proposti abbiano un percorso civile, sociale e politico
coerente con il movimento e i suoi scopi,
che gli stessi non abbiano mai ricoperto per
più di una volta
il ruolo di parlamentari o di consiglieri regionali, che non abbiano
mai ricoperto ruoli di governo né a livello nazionale né a livello
regionale. (grassetto in corsivo nostro)».
Passi
la differenza sottile tra l’aver ricoperto ruoli di governo ed
averlo appoggiato nonostante questo fosse un governo padronale e
imperialista, ma ci spiega Cimino che storia politica coerente col
programma di Potere al Popolo può avere la “pacifista”
neo-candidata Lidia Menapace che ha massacrato i lavoratori votando
tutto quello che c’era da votare nell’ultimo Governo Prodi,
meritandosi il soprannome di Lidia
Pacifinta Menaguerra,
per le missioni di guerra in Afghanistan sostenute e approvate come
se niente fosse? E non si creda che il caso Menaguerra sia un caso
isolato. No, dovunque Potere al Popolo si sta riempiendo di candidati
impresentabili provenienti dalla vecchia burocrazia riciclatasi, come
Acerbo, il capo di Rifondazione. Cosa è successo? Perché i vigili
non hanno vigilato? Perché i vigili sono in fondo gli stessi
candidati, perché si è demandato tutto alle assemblee. E nei centri
più grossi, dove c’era concorrenza, si è riusciti a candidare
anche gente come Cremaschi di EuroStop, che per quanto malato di
sovranismo monetario e altre fole piccole borghesi, resta pur sempre
un candidato di tutto rispetto a cui auguriamo di essere eletto, ma
in periferia dove la burocrazia rifondarola la fa da padrona, anche
Annibal
Lecter
sarebbe riuscito a passare come coerente con la linea di Potere al
Popolo.
E
Sinistra Anticapitalista? Passi chiamarsi così e finire in una lista
riformista. Sappiamo anche bene il ruolo del suo leader Turigliatto,
anche lui al Governo con Prodi e falsamente oppositore. 23
volte lo sostenne prima di astenersi, votando tutto quello che
c’era da votare per non mandare a casa i padroni, compresi i 12
punti con cui Prodi, caduto una volta, si rialzò. Conosciamo però
anche i militanti di base, perlopiù tutti impegnati seriamente a
dare battaglia in Cgil a Camusso e Landini senza fare loro sconti.
Mentre non ne conosciamo praticamente uno, in orbita Rifondazione,
che non accompagni i suoi strali contro il neoliberismo abbracciato a
Camusso o a Landini e a tutte le capitolazioni da loro firmate in
Cgil. Inoltre, per una volta, ci sembra di poter dire che non è
Turigliatto l’opportunista che ha spinto Sinistra Anticapitalista
tra le braccia dei riformisti. Perché ancora il 22 Settembre 2017,
in Listone
guazzabuglio o alternativa di classe?,
prendeva posizione contro un calderone come quello venuto poi fuori
con Potere al Popolo. È qualcun altro che al momento ci sfugge
perché non siamo dentro Sinistra Anticapitalista, ma che non cambia
la sostanza. Il principale problema di Potere al Popolo non è il
programma riformista o rivoluzionario, ma il rischio di non portare
avanti nessuno dei due, perché il primo, l’unico che esista,
servirà per riportare in Parlamento i forchettoni
rossi.
Ed è
di
questo che Cimino dovrebbe parlare per prima cosa. Poi parliamo anche
del resto, altrimenti è inutile.
Forse
il povero lettore che si è sorbito tutta questa pappardella –
fortunato, perché non esiste pappardella più gustosa e saporita del
marxismo! – si chiederà per quale motivo il compagno Cimino, col
suo inno sperticato al riformismo, debba meritare la nostra fiducia,
anziché gli stessi dubbi e sospetti che riversiamo agli strani
accompagnatori del centro sociale Je
So’ Pazzo.
Non immagina questo mio povero lettore, che dietro tutto questo
minimalismo riformista, ci stia un compagno, Cimino appunto, che sta
all’ultra sinistra. Già perché il Compagno Cimino, con un
discorso così riformista, non poteva mica starsene in Cgil. Aveva
bisogno di ben altre barricate. Così ha stracciato la tessera e si è
iscritto al CUB, uno tra i tanti nella miriade dei sindacatini di
base. Non ha quindi grave colpe né cadaveri nell’armadio, a parte
crediamo una laurea o un titolo di studio, insomma un vizio
accademico che gli mina continuamente gli articoli. E la Storia anche
qua insegna: ci sono solo i bordighisti o similari che sono capaci di
stare per tutta la vita all’estrema sinistra senza mai derogare
dall’estremismo. Tutti gli altri, e Cimino non fa eccezione,
faranno discorsi ancora più estremi, alcuni al limite della
propaganda del fatto, ma al momento delle grandi scelte, poveri di
teoria come sono, li vedrai immancabilmente precipitare dall’ultra
sinistra verso il loro luogo naturale: il centro.
Stazione
dei Celti
24
Gennaio 2018
Bibliografia
minima
Per comodità del lettore offriamo a nostro gusto, un elenco di approfondimenti che costituiscono l’ossatura di documenti necessaria per comprovare quanto scritto sopra.
Per
la storia
dei Fronti
Popolari
suggeriamo, Il
Fronte Popolare in Francia
di Giorgio Caredda, Einaudi 1977, anche se lo storico dopo avercene
narrato tutta la sciagura, conclude che tale bella iniziativa «lascia
una ricca eredità politica».
Il che significa solo che come rivoluzionario e men che meno come
storico, lui non è in grado di coglierla;
Per
il Fronte
Popolare
in Spagna, possiamo fare a meno della
stupidità accademica,
visto che da poco è stata pubblicata la migliore edizione di
Rivoluzione
e controrivoluzione in Spagna
di Felix Morrow, A.C. Editoriale e Lucha de Clases, 2016. Non serve
altro per capire il disastro spagnolo,
tanto più che di meglio non c’è;
Per
lo sterminio dei bolscevichi in Russia è da
pochissimo
uscito, sempre
per i tipi della A.C. Editoriale (2016), Comunisti
Contro Stalin – il
massacro di una generazione,
del più
grande storico del Novecento che è Pierre Broué;
Sempre
del Broué, in collaborazione con Raymond Vacheron, suggeriamo
Assassini
nel Maquis – la tragica morte di Pietro Tresso,
Prospettiva
Edizioni
1996, indispensabile per apprezzare ancora meglio e più a fondo le
inesauribili peripezie criminali di quell’orrido
sgherro
stalinista che fu Togliatti;
Di
Rosa Luxemburg suggeriamo gli Scritti
Politici
a cura di Lelio Basso, Editori Riuniti, 1967. Naturalmente suggeriamo
anche il resto, ma non per necessariamente per questo scritto;
Per
il disastro di Allende, consigliamo questo ineguagliabile testo del
grande e mai compianto abbastanza Compagno
Tiziano Bagarolo, Cile,
11 settembre 1973 - la tragedia del riformismo;
di
obbiettivo c’è poco altro.
Per
quello di Tsipras, c’è invece questa recente
meraviglia del Compagno Marco Ferrando del Partito Comunista dei
Lavoratori che è, La
lezione storica di un fallimento riformista;
Il
Programma
di Transizione
di Trotsky del 1938, ci piace nella versione della Massari Editore,
2008,
la
prima completa,
specie per la bella introduzione Di
Francesco Ricci del Partito di Alternativa Comunista che
riassume
il massacro descritto
dal Broué, e la traduzione della Compagna Fabiana Stefanoni. In
appendice, inoltre, è presente Classe,
Partito e Direzione – Perché il proletariato spagnolo è stato
sconfitto? Un
testo che in sole 10 pagine chiarisce tutto quello che c’è da
chiarire sulla tragedia spagnola del 1936;
Per comprendere la farsa della cogestione tedesca, buono ci sembra Il
sindacato, lo Stato nazionale e l’Europa di Edmondo Montali,
Ediesse, 2008.
Infine
per comprendere il ruolo delle burocrazie comuniste in Italia,
fondamentale è I
Forchettoni rossi,
a cura di Roberto Massari, con testi dello stesso e di Massimo
Bontempelli, Michele Nobile, Marino Badiale, Antonella Marazzi,
Andrea Furlan (Massari Editore, 2007)
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