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sabato 24 marzo 2018

Lotte (e Autolesionismo) di classe di Norberto Fragiacomo





Lotte (e Autolesionismo) di classe
di
Norberto Fragiacomo


Sto pian piano leggendo, nei ritagli di tempo concessimi dal lavoro, un’opera di Domenico Losurdo dedicata alla lotta di classe[1].

Senza perdersi in convenevoli l’illustre cattedratico polemizza sin dalle primissime pagine con i pensatori (quasi tutti transfughi del marxismo convertiti all’idea liberale) che, per compiacere chi li foraggiava, già negli ultimi decenni del Novecento diedero per definitivamente morta la lotta di classe. L’autore ha buon gioco nel dimostrare il contrario, partendo da una frase del Manifesto del ’48 che del libro (e del ragionamento losurdiano) costituisce quasi l’architrave: “La storia di ogni società sinora esistita è la storia delle lotte di classe”.

Ciò che viene negato non è il fatto, evidentissimo, che la suddetta lotta alterna fasi acute ad altre di relativa stasi, né che il livello di consapevolezza diffuso fra i “combattenti” oscilla a seconda delle epoche storiche (l’ascesa è in genere lenta e contrastata, i crolli vertiginosi): si intende piuttosto contrastare la sicumera di quanti, per ragioni ideologico-propagandistiche, pretendono che assieme alla Storia il capitalismo trionfante abbia schiantato anche la lotta e le motivazioni oggettive e soggettive che ne stanno alla base. Quello dello scontro – aperto o latente - fra le classi è un fenomeno destinato a riprodursi fino a quando queste ultime esisteranno: onestamente la tesi di Losurdo mi sembra inconfutabile.

Ce n’è un’altra, ben più ardita, che valorizza il plurale contenuto nella frase marxiana. “Lotte di classe” anziché lotta: quali le ragioni di questa scelta? Potremmo agevolmente rispondere: lotte al plurale perché si sono svolte fra classi differenti in condizioni diverse le une dalle altre, e perché – come sottolinea il filosofo – sono state condotte sia dal basso verso l’alto che viceversa, talvolta risolvendosi persino in contrasti “intestini” tra sottoclassi. Losurdo non si accontenta di questa spiegazione, a prima vista soddisfacente: per lui le lotte di classe propriamente dette[2] sono soltanto una species del genus, che raccoglie anche i contrasti fra popoli e nazioni e la lotta delle donne per l’emancipazione. Non si spiegherebbe altrimenti – opina – l’ampio spazio che nei loro scritti Marx ed Engels assegnano alle lotte nazionali di polacchi e irlandesi, né la simpatia dimostrata nei confronti delle rivendicazioni femminili. Un sovrappiù di analisi è dedicato alla posizione (apertamente filo nordista) assunta da Marx a proposito della Guerra di Secessione americana: in questo caso è però evidente che sotto le uniformi blu si nascondono gli interessi progressisti della borghesia imprenditoriale unionista, determinata a spazzare via il ceto signorile schiavista vestito di grigio.

Sebbene una lettura in chiave classista si adatti maggiormente alla vicenda irlandese che a quella polacca[3], l’impostazione di Losurdo è ricca di suggestioni, perché offre una sponda a chi oggi si batte – oltre che al fianco dei palestinesi, delle repubbliche sudamericane ecc. – per il recupero di una sovranità nazionale annichilita da organizzazioni antidemocratiche come l’Unione Europea; purtuttavia, riservandoci di approfondire in altra occasione la tematica, appuntiamo piuttosto la nostra attenzione su quanto viene detto a proposito della lotta di classe in senso stretto. Memore dell’insegnamento di Lenin, che distingueva tra lotta economica – appannaggio dei sindacati – e lotta politica, privilegiando la seconda, l’autore dichiara che quella di classe, ove combattuta da chi sta più in basso, è innanzitutto una lotta per il riconoscimento di uno status[4], vale a dire uno sforzo di emancipazione. A parere di chi scrive è senz'altro così: dall'assunto possiamo trarre un logico corollario, cioè che la lotta portata avanti da chi sta più in alto è finalizzata – specularmente – al disconoscimento sociale degli antagonisti, alla loro degradazione a specie inferiore, subumana. Cerchiamo esempi di lotte “dall'alto” trascinate fino alle estreme conseguenze? Pensiamo allo sterminio degli indiani d’America… e, più di recente, alla crociata contro i greci “corrotti e spendaccioni”.

Ma è il concetto di riconoscimento che mi sta particolarmente a cuore, giacché consente di comprendere appieno alcune dinamiche che hanno caratterizzato il ventesimo secolo.

Nell'Otto e Novecento la lotta di classe ha vissuto la sua stagione d’oro, se così si può dire: sostenuti da una determinazione cosciente e incrollabile e “armati” di partiti devoti alla causa, i lavoratori europei conquistano, tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso, una sorta di piena cittadinanza. Da un lato, gli operai vedono migliorare enormemente le proprie condizioni materiali, accedendo al mercato dei beni di consumo, dall'altro la legislazione riconosce loro diritti mai sognati prima, che vanno dalle tutele giuslavoristiche alla sanità gratuita. Si afferma il Welfare State, vissuto come sinonimo di progresso, gaio destino ineluttabile; assieme alle protezioni sociali si diffonde la convinzione – in apparenza fondata – che le cose non possano che migliorare. La prospettiva (non irrealistica) di avere un figlio avvocato o dottore disarma l’operaio, che si affretta a rifugiarsi in quel ceto medio borghese che finalmente gli spalanca le porte.

Qualcosa del genere era capitato cent’anni prima agli impiegati che, indossando per la prima volta una giacca e un cappotto, s’erano creduti borghesi: in quel caso si era però trattato di un’illusione, visto che a venir effettivamente cooptati nella classe superiore (nei suoi strati più bassi) erano solamente i tecnici “infungibili” perché rari, come contabili ecc., mentre il copista – fungibile quasi quanto il manovale – seguitava a celare sotto il pastrano la sua miseria proletaria. Negli anni ’70 del Novecento la situazione è diversa: l’addetto alla catena di montaggio carica la famigliola sulla Fiat 128 comprata a rate e se la porta al mare, senza fare troppi calcoli – le ferie sono pagate. Non tiene conto però di due aspetti: il primo è che vincere una battaglia, per quanto importante, non equivale necessariamente a vincere la guerra. Il secondo è che neppure la battaglia probabilmente sarebbe stata vinta senza un decisivo appoggio esterno, che non si vede ma c’è. Per quanto combattivo si sia dimostrato il movimento operaio a sancire la vittoria di tappa è stato il timore serpeggiante fra le elite che le sue forze potessero saldarsi, in caso di confronto militare, con l’arcinemico comunista: a fianco dei lavoratori, negli scioperi, marciano le ombre rosse dei soldati sovietici.

Fatto sta che, ottenuto il bramato riconoscimento, la lotta dal basso perde slancio, si affloscia (riducendosi semmai a ricorrenti rivendicazioni salariali); il nemico di classe tuttavia non è affatto domo, tira un sospiro di sollievo quando i comunisti occidentali si accodano alla NATO e, al crollo dell’URSS, ridiscende baldanzoso in campo. Con gli anni ’90 la lotta di classe riprende, più intensa e spietata che mai – ma stavolta è unidirezionale, mira al disconoscimento sociale del proletario imborghesito. Erat facile vincere non repugnantes, ammoniva Cicerone: sparati in rapida successione, i colpi van tutti a segno, perché man mano che lo privano di garanzie e diritti il lavoratore non ridiventa “proletario” e combattivo, ma solo povero e inerme. Invischiato in una tela di blandizie, rimproveri (“abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità!”, lo rampognano tecnici con Rolex, Mercedes e villa al mare), presunte necessità e menzogne, l’ex proletariato dapprima subisce a capo chino, senza reagire – ma infine, quando una crisi artificiale rivela il volto autentico di chi gli sta sopra, comincia disordinatamente a scuotersi, a ribellarsi.

A riprova della correttezza del principio enunciato da Marx ed Engels quasi duecento anni orsono la lotta di classe si rimette in moto anche dal basso, ma sono pugni sferrati alla cieca, espressione più di disperata debolezza che di forza.

Diluitasi in un ceto medio raccogliticcio e smarrita la consapevolezza di sé, la fu classe lavoratrice manca oggi degli strumenti (innanzitutto concettuali) per contrastare efficacemente gli sconvolgimenti in atto a suo danno – questo vale tanto per l’Italia quanto per il resto d’Europa.

Se decidiamo tuttavia di condividere la proposizione marxiana “La storia di ogni società sinora esistita è la storia delle lotte di classe” e recepiamo la lettura suggerita da Losurdo, secondo cui quella di chi sta in basso è in primis una battaglia per il “riconoscimento”, troveremo che le recenti elezioni italiane offrono spunti sorprendenti. Non è forse un’istanza di riconoscimento quella presentata dalle masse di disoccupati del Meridione che hanno scelto i 5Stelle? Nella formula “reddito di cittadinanza” centrale sarebbe il secondo termine piuttosto che il primo: chi non ha un lavoro né la prospettiva di ottenerne uno dignitoso domanda comunque uno status di cittadino acquisibile tramite un assegno che, sottraendolo alla miseria estrema, gli restituisca un minimo di rispettabilità. Lo scopo non è vivere a sbafo, bensì vivere decorosamente, come esseri umani e non come bestie.

Si spiega così anche il massiccio voto degli operai settentrionali alla Lega, fenomeno nient’affatto nuovo: in questo caso siamo di fronte a una rivendicazione di appartenenza ad una comunità locale e/o nazionale, senz'altro interclassista, opposta a un potere esterno inafferrabile e pervasivo, una sorta di entità aliena che si manifesta nei diktat europei e nelle turbe di migranti in marcia dal Sud del mondo.

Reazioni istintive e prepolitiche, lotte confuse e male organizzate ma “di classe”, che scontano tuttavia un errore di prospettiva che ne determinerà l’inefficacia sia sotto il profilo economico che sotto quello sociale.

Tra reddito di cittadinanza e flat tax la misura più progressista sembra la prima, che si risolverà però nel classico specchietto per le allodole. 780 euro netti al mese fanno gola a qualunque disoccupato, ma è facile pronosticare che, una volta al governo (se mai ci dovessero andare), i pentastellati finiranno per ridurre significativamente gli importi, al fine di rispettare le regole UE e non contrariare troppo i c.d. mercati; sarà invece di sicuro confermato – per i fruitori – l’obbligo di accettare un qualsivoglia impiego, anche a condizioni peggiorative rispetto al precedente (http://www.today.it/economia/reddito-di-cittadinanza-m5s-come-funziona.html)

Al posto dell’agognata cittadinanza i beneficiari riceverebbero un modesto introito - sempre revocabile, proprio per la sua natura di benevola concessione condizionata, non di diritto. Il messaggio è che tocca accontentarsi di qualsiasi lavoro, anche se la sua retribuzione è inferiore a quella prevista dai contratti collettivi e l’attività si svolge a una cinquantina di chilometri da casa.

Quanto alla flat tax, si tratta di un regalo ai benestanti pagato con i diritti dei poveracci, che vengono brutalmente turlupinati. Il vantaggio non sarà tanto per i ricchissimi – che già dispongono di sofisticati strumenti di elusione tributaria – quanto per il ceto medio-alto (professionisti, manager, medi imprenditori… cioè chi vota Lega a ragion veduta!), che vedrà dimezzarsi il carico fiscale. Impiegati e operai si troveranno con qualche euro di più in tasca, destinato però a volatilizzarsi presto - assieme al resto dei risparmi - per il banale motivo che c’è una sola strada per finanziare un simile imbroglio, non a caso caldeggiato dalle destre economiche sin dai tempi di Reagan, ed è quella che passa per l’azzeramento della spesa sociale. Sanità, trasporti, servizi pubblici ecc.: il padrone può serenamente rinunciarvi, il dipendente no – ma sarebbe comunque costretto a farlo, ove questa insidiosa misura venisse infine adottata.

La sconsolante conclusione è che i lavoratori, senza neppure rendersene conto, una lotta di classe la stanno combattendo – solo che la stanno combattendo dalla parte sbagliata, quella dei dominatori e del Capitale sovranazionale, che otterrà risorse umane ancor più flessibili delle attuali e/o lautissimi guadagni dalla prossima privatizzazione di quel poco che resta dello Stato sociale.

In mancanza di alternative, il 4 marzo la classe lavoratrice è scesa in campo contro se stessa.

Ho scritto “mancanza di alternative” perché semplicemente non ve ne erano (rimando al mio precedente articolo sugli esiti elettorali), se non quella di impugnare una bandiera nostalgicamente sgualcita. A differenza di M5S e Lega la c.d. sinistra (LeU e PaP) non ha mostrato alcuna empatia nei confronti delle esigenze dei diseredati, mantenendosi fedele ad una visione ideale-astratta della società, ad un teorico “giusto” che non coincide con il sentire comune. I cittadini sono in ansia per le incessanti ondate migratorie? Peggio per loro: esiste un “diritto di migrare” (così Leoluca Orlando), l’accoglienza è un dovere assoluto e incontestabile – si adattino. Alla crescente domanda di sicurezza si risponde invece con la proposta di abolire ergastolo e 41-bis, negando cioè che il problema esista ovvero affermando che chi lo pone è disinformato o fascista. Potrei continuare, ma non ne vale la pena. L’assenza di sintonia con chi si pretende di rappresentare costituisce un sicuro viatico per la sconfitta (cui abbiamo puntualmente assistito) e, nel caso di specie, dà ragione del fatto che a preferire le “sinistre” sono stati soprattutto pii borghesi politicamente corretti e intellettuali sedotti dalle astrazioni.

Esiste una via d’uscita dal pantano? Al momento non ne scorgo una che sia percorribile: come scrissi la volta scorsa toccherà armarsi di pazienza e attendere che il futuro sveli i bluff di 5 Stelle e Lega (meglio se in un colpo solo!), in cui le fasce più sofferenti dell’elettorato hanno riposto – temporaneamente - la loro fiducia. A inganno svelato riproporre il modello sinistra postmoderna non avrebbe comunque senso: una massa tradita e buggerata non si rivolgerebbe, solo per questo, a chi manco ci prova a comprenderne psicologia e bisogni, limitandosi a dare opinabili ”lezioni di vita” (o di stile). La gran parte degli slogan attuali sono inutilizzabili, e vanno perciò spediti al macero: occorrerà ripartire dai timori avvertiti (ed espressi, anche nei bar e in piazza) dai ceti deboli e, sulla base di essi, costruire una proposta politico-sociale che – senza essere rozza e ingannevole – tenga conto dello stato delle cose. Urge una ricognizione sul campo (cioè tra la c.d. gente), cui segua un taglio dei “temi secchi” da effettuare senza spocchia né furbizie. Non sapremo più offrire all’elettorato la prospettiva di un mondo idilliaco? Pazienza, tanto l’Arcadia non è mai esistita, e in ogni caso certe utopie alla moda puzzano di interessi padronali.

Lavoro, diritti sociali ed economici, servizi garantiti, comunità, autodeterminazione, uguaglianza (perlomeno tendenziale): queste le questioni da affrontare, possibilmente tralasciando inezie e masochismi.

Risvegliatasi da un lungo sonno tormentato, la lotta di classe si guarda attorno spaesata: non farà molta strada se non si imbatte presto in qualcuno disposto a indicarle quella giusta.




[1] D. LOSURDO, La lotta di classe - una storia politica e filosofica, Ed. Laterza, 2013.

[2] Cioè quelle degli schiavi contro l’elite romana, dei contadini medievali contro i feudatari, dei borghesi contro l’aristocrazia ecc.

[3] Poiché quella irlandese era soprattutto una lotta di gente povera (contadini, pochi operai, qualche intellettuale), mentre nel caso polacco il nerbo della resistenza antirussa era formato dalla piccola nobiltà, che raccoglieva intorno a sé gli altri ceti.

[4] Di egemone, se è lotta offensiva, di non (troppo) subordinato, se difensiva – aggiungo io.






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