ALCUNI SPUNTI PER UN POSSIBILE PROGRAMMA DI SINISTRA
di Riccardo Achilli
Questa è la scaletta
della mia presentazione all’Assemblea annuale del Network per il
Socialismo Europeo, tenutasi a Fiuggi Terme il 5-6 maggio 2018.
Mi
è stato chiesto di presentare la piattaforma di un possibile
programma politico per un partito di Sinistra. Questo esercizio è
già stato fatto, tre anni fa. Sul sito “ricostruire.org”
troverete ancora oggi un elenco di proposte che ancora oggi, a mio
avviso, è attuale. E’ quindi inutile ripetere pedissequamente
l’esercizio, soprattutto perché non si guadagnano elettori
discettando di revisione del calcolo dell’output gap. Si guadagnano
ricostruendo due elementi fondamentali dell’egemonia che la
sinistra ha perso completamente: la connessione sentimentale ed
ideale e il radicamento di classe.
Ciò significa recuperare
un mito fondante, in grado di mobilitare, ed una capacità di
organizzazione in grado di sostenerlo dentro la società. La sinistra
era egemone nella società quando aveva un progetto di liberazione di
una intera comunità dall'alienazione dello sfruttamento
lavorativo. La caduta del Muro ha spazzato via questo mito, e per
sopravvivere la sinistra ha commesso l’errore di adottare il mito
del suo rivale, condendolo di contenuti progressisti.
Noi non abbiamo bisogno
di andare lontano per recuperare un orizzonte politico. Abbiamo da
recuperare quell’idea di liberazione collettiva dal bisogno, che
per molti versi è anticipatrice dei grandi sommovimenti di fondo del
sistema capitalista: la smaterializzazione del lavoro, la prospettiva
dell’integrazione fra robotica ed intelligenza artificiale con i
suoi effetti previsti su segmenti rilevanti del mercato del lavoro,
tutte queste cose sono già studiate (si pensi al Frammento sulle
Macchine, così come alla posizione complessa che Marx aveva
sull’immigrazione). C’è da adattare al contesto questo bagaglio
culturale. Allora, a mio parere, il primo punto programmatico è
quello di tornare ad esibire il nostro nome: siamo socialisti, non
siamo progressisti, non siamo di sinistra, non siamo riformisti.
Siamo socialisti. Il partito laburista di Corbyn riporta questo
termine nel suo Statuto, ed è un partito che potrebbe vincere e
governare un Paese grande, complesso e moderno. Ci richiamiamo ad una
visione democratica e progressiva di attuazione del marxismo. A chi
ci accuserà di essere obsoleti, risponderemo che le idee dei nostri
avversari sono sicuramente più antiche del marxismo.
Dall’ideologia, occorre
però proporre una posizione. Lo si fa riprendendo contatto con gli
interessi reali, quotidiani, dei ceti popolari. Questi interessi
sembrano essere l’Europa, il lavoro, l’immigrazione e la
sicurezza, l’ambiente, il welfare/previdenza, il Mezzogiorno. Su
cosa si propone su tali temi ci si gioca la sopravvivenza nei
prossimi anni. Non è che non ci siano altri temi fondamentali:
quello dei diritti civili, ad esempio, è un tema talmente esplorato
che non c’è molto da aggiungere. Mi limiterò a porre soltanto
alcuni temi di riflessione, attorno ai quali articolare una
discussione.
Per quanto riguarda
l’Europa, sarebbe forse auspicabile ragionare sulla sostenibilità
di un piano B. Un piano B è sostenibile soltanto se è realizzabile
nel caso in cui un piano A, ovvero un cambiamento di direzione delle
politica economiche imposte dalla Germania (in quanto leader in
termini di competitività di costo nell’area-euro) non sia
fattibile. Altrimenti una mera enunciazione di una prospettiva di
tale genere non impressiona nessuno. Non sembrano esserci, al
momento, condizioni interne di consenso, ed esterne di quadro
politico internazionale, per sostenere la possibilità di una uscita
ordinata dall’euro, sia pur come last resort. E d’altra parte, se
il piano A fallisse, probabilmente si creeranno condizioni politiche
di smantellamento dell’euro, forse imposte dalla stessa Germania.
In condizioni di rifiuto
tedesco di condividere i rischi, le politiche economiche europee non
possono cambiare direzione. Occorrerà tuttavia esplorare la
possibilità che la Spd, oramai su livelli elettorali rischiosi per
la sua sopravvivenza, e preda di un dibattito interno molto critico,
imponga una agenda orientata a politiche economiche interne più
espansive in Germania, creando le condizioni per allentare il vincolo
esterno, che si alimenta dell’insostenibile surplus commerciale
tedesco. Anche se le prime mosse del neo segretario Nahles non
sembrano incoraggianti. Andrà esplorata la possibilità di fare
fronte comune in Parlamento Europeo con le altre sinistre europee per
proporre alcune idee di bandiera, che se al momento non sono
realizzabili, potrebbero avere ritorni in termini di consenso:
allentare i vincoli del 3% e del 60%, abolire il pareggio strutturale
di bilancio, un rafforzamento del fondo europeo di backstop per le
crisi bancarie, il varo di un pacchetto sociale europeo incentrato su
disincentivi alle delocalizzazioni ed al dumping fiscale e sociale,
ecc.
Sarebbe utile, a mio
parere, un recupero di margini nazionali di azione sulle politiche
industriali. Occorre trovare parole d’ordine unificanti nella lotta
contro questa Europa. Il lavoro lo è, e si difende se esiste una
industria nazionale. Significa continuare ad avere una industria di
base interna, avere la possibilità di nazionalizzare le imprese dei
settori strategici per consentire loro di investire in innovazione e
in marketing senza l’assillo del break even point. Significa
dotarsi di una banca pubblica per lo sviluppo.
La questione
dell’immigrazione si lega indissolubilmente sia a quella della
sicurezza, che non è un tema di destra, perché riguarda
preoccupazioni condivise dai nostri gruppi sociali di riferimento,
sia a quella della sostenibilità del welfare. Con riferimento al
primo aspetto, va detto con chiarezza che l’immigrazione NON è
collegata ad un aumento della microcriminalità. La ricerca
criminologica è andata più avanti della mente di Salvini, ed ha
raggiunto un certo consenso attorno al fatto che non c’è una
correlazione fra immigrazione e criminalità.
Così come dobbiamo dire
che è fondamentale promuovere forme di ricomposizione ed unitarietà
attorno alle lotte lavoristiche e sociali fra immigrati e autoctoni.
Il modello delle lotte sindacali nella filiera logistica emiliana va
replicato ovunque. Senza però aspettarsi troppo. Gli immigrati
lottano in primis lungo filiere etniche e comunitarie, la coscienza
di classe è secondaria.
Il tema del welfare è
più serio. Basti pensare che il numero delle pensioni sociali
erogate ad extracomunitari (che non richiedono un requisito
contributivo per coprirle) è cresciuto del 212% fra 2007 e 2016, e
che naturalmente tali persone insistono su tutti i servizi del
welfare senza offrire un contributo fiscale congruo, poiché si
concentrano nell’area del basso prelievo fiscale e contributivo.
Importare poveri non è il modo migliore per garantire la
sostenibilità finanziaria dei servizi pubblici per i poveri già
presenti.
Ma la questione
welfaristica è un aspetto di un discorso più generale, che attiene
al modello di accoglienza. Esso non si sostiene con la retorica della
generosità, né con analisi posticce in cui si cerca di riproporre
correlazioni fra la composizione anagrafica della popolazione ed il
tasso di crescita potenziale (altrimenti Paesi in transizione
demografica, come quelli nordafricani, sarebbero i più ricchi del
mondo – nel legame fra demografia e crescita entrano elementi quali
la capacità del sistema di far entrare i tanti giovani dentro un
mercato del lavoro basato su qualità ed innovazione, e non su
compressione delle competenze e dei costi). Il modello di accoglienza
si basa su selettività (per la componente economica della
migrazione, su professionalità utili e non sostitutive) rispetto
delle regole e delle tradizioni del Paese di accoglienza, che devono
prevalere sul multiculturalismo indifferenziato, corretta mescolanza
interetnica evitando, anche nelle politiche abitative,
pericolosissime ghettizzazioni.
Serve poi una politica
estera che guardi, da un lato, ad una necessaria solidarietà
europea, rivedendo gli accordi di Dublino e prevedendo sanzioni ai
Paesi che non collaborano, ma dall’altro, ai Paesi della sponda Sud
del Mediterraneo. Quei Paesi, che costituiscono i punti di partenza
dei flussi, devono essere messi in sicurezza sotto il profilo della
stabilità politica, anche rivalutando i vecchi regimi militari
laicisti troppo presto scaricati con le Primavere Arabe, e sotto il
profilo economico, legando l’assistenza economica (che deve
provenire da tutta l’Europa, i muri o le polizie ai confini alpini
prima o poi saranno travolti) a forme di controllo dei flussi “in
situ. Gli elementi dei gruppi criminali che fanno tratta di esseri
umani vanno allontanati dai Governi di quei Paesi, e le Ong che ci
trasportano masse di disperati vanno rigidamente disciplinate,
possibilmente limitando il loro raggio di azione alle sole operazioni
di soccorso, con obbligo di sbarco nel Paese di partenza . I luoghi
in cui i migranti vengono trattenuti nei Paesi di partenza devono
essere gestiti con criteri confacenti ai diritti umani.
E poi la questione del
lavoro, la vera bandiera di un partito di sinistra. Se si prova a
sondare l’opinione di elettori di sinistra (è stato fatto dal Nw
qualche mese fa con un panel di circa 1.000 persone) gli orientamenti
in tal senso oscillano fra una richiesta di ritorno alle tutele dello
Statuto dei Lavoratori e la predisposizione di un reddito di
inserimento più che un reddito di cittadinanza (due cose molto
diverse). Possiamo discutere in punta di teoria sul reddito di
inserimento o di cittadinanza, ma sta di fatto che per una quota
crescente di lavoratori la continuità reddituale fra un lavoro e
l’altro è un problema serio. Così come l’accesso ad una vita
autonoma da parte dei giovani inoccupati. C’è una rivoluzione
tecnologica che porrà una questione di competitività fra lavoro
umano e lavoro delle macchine su occupazioni più rutinarie. E’
possibile che la massa di ore lavorate necessarie, in futuro, tenderà
a flettere, e non possiamo non chiederci come attivare meccanismi
redistributivi che consentano ad una quota di persone crescente di
vivere dignitosamente lavorando in forma discontinua. Sotto il
profilo dell’articolo 18, si potrebbe riflettere su una sua
reintroduzione, in una prima fase, per i settori meno esposti alla
competizione internazionale, come ad esempio la pubblica
amministrazione ed i servizi localizzati territorialmente, per poi
riestendere tali tutele gradualmente, insieme a forme di contrasto,
anche in sede europea, a forme di dumping sociale da parte dei
concorrenti internazionali e di disincentivo alle delocalizzazioni
effettuate per meri calcoli di costo del lavoro (il famoso pacchetto
sociale europeo di cui parlavo prima). Nella consapevolezza che non
dobbiamo specializzarci nel segmento a minor valore aggiunto del
sistema produttivo, ma nelle eccellenze, oltre che nei settori ad
elevato assorbimento di occupazione, anche qualificata.
E qui veniamo al tema
ambientale: il ciclo dell’acqua e quello dei rifiuti, la difesa
degli assetti idrogeologici, l’adeguamento antisismico degli
edifici, le energie alternative, sono settori che assorbono
occupazione, anche molto qualificata. Diciamoci la verità: la
coscienza ambientale, in tutto l’Occidente, è ai minimi storici.
E’ più una preoccupazione delle élite che dei popoli. L’operaio
della Rust Belt vota per un Trump che riattiva l’industria
carbonifera. Il tema ambientale va quindi proposto con l’ottica
della capacità di attivare crescita e posti di lavoro. Ma anche
sotto il profilo informativo. Mi chiedo perché semplici strumenti
come le matrici dei flussi di materia o la contabilità verde siano
ristretti ad addetti ai lavori, anziché essere diffusi maggiormente
sotto il profilo comunicativo.
Per finire, il tema del
lavoro abbraccia anche la pensione. Abrogare l’automatismo fra
aumento della speranza di vita e allungamento della durata del lavoro
è il minimo sindacale. Stabilire una età massima variabile in
funzione del lavoro è fondamentale. Nel futuro avremo sempre più
titolari di pensioni sociali, e quindi l’assegno per tale tipologia
di pensione va incrementato. La copertura per tali riforme può
rinvenirsi in una lotta più efficace al sommerso, in una
armonizzazione dei contributi pagati dalla Gestione Separata e
Lavoratori Dipendenti ed in una contribuzione più alta per i redditi
medio-elevati, oltre che nell'azzeramento delle residue forme di
privilegio previdenziale. Occorre rivedere il campo di operatività
dell’Inps, per evitare che i deficit che registra nell'erogazione
di prestazioni assistenziali si riversi nella gestione previdenziale.
Ovviamente la strada maestra per trovare copertura ad una previdenza
più decente è l’allargamento della base occupazionale, cioè la
crescita. L’11% di disoccupati significa che c’è un 11% di
persone in età da lavoro che non contribuisce al sistema.
La crisi ha distorto la
curva dei redditi. In un recente lavoro della Uil sui redditi,
evidenzio come le diseguaglianze distributive agiscono su due fronti:
su quello del rapporto fra capitale e lavoro, con una crescita della
quota di valore aggiunto che va al primo a discapito del secondo, ed
all'interno del lavoro, fra settori e tipologie contrattuali. Da
qui sorge l’esigenza di una nuova politica dei redditi. Serve un
allargamento, anche progressivo, della contrattazione collettiva,
perché essa svolge una funzione anticiclica (il reddito da CCNL è
l’unico a non ridursi in termini reali durante gli anni della
crisi). Serve un salario minimo legale per le categorie che
strutturalmente non possono rientrarvi. Serve un riequilibrio della
deriva che attribuisce in forma crescente i guadagni della crescita
al capitale, ad esempio prevedendo adeguamenti automatici del salario
alla crescita del PIL.
Tutto quanto detto
incrocia trasversalmente la questione meridionale. La
meridionalizzazione del Paese negli ultimi vent'anni, con alcuni
mali tipici del Mezzogiorno esportati verso Nord (carenze
infrastrutturali, degrado urbano, infiltrazioni mafiose, povertà
nelle sue varie declinazioni, non solo quella monetaria) hanno fatto
pensare che le differenze si fossero omogeneizzate verso il basso.
Salvo riscoprire, ad esempio tramite queste elezioni, che la risposta
popolare alla crisi, seppur accomunata da rabbia e voglia di
cambiamento, è diversa. Se i differenziali di sviluppo sembrano
addirittura allargarsi, e la chiusura del gap Nord/Sud si è
invertita da circa vent'anni c’è da interrogarsi sull'efficacia
degli strumenti messi in campo. La programmazione dei fondi
strutturali ha diverse carenze di tipo culturale: troppo rigida e
insufficientemente differenziata per territorio, troppo influenzata
da una impostazione supply side, fondata sul rafforzamento dei
fattori di competitività dal lato dell’offerta, e troppo poco
basata sul sostegno alla domanda, insufficientemente imperniata sulla
qualità della spesa, essendo troppo concentrata sulla quantità,
troppo frazionata in termini di numero di punti di governance, quindi
farraginosa ed a rischio di duplicazioni e sovrapposizioni (con le
Regioni che hanno dimostrato di non saper svolgere il ruolo di centro
di programmazione, troppo vicine ai territori per non risentire di
micro lobby, e troppo concorrenziali rispetto al Centro per riuscire
a ritagliarsi un ruolo autonomo). Ed occorre ripensare al
finanziamento dello sviluppo del Mezzogiorno. Contrariamente a ciò
che si pensa, negli ultimi anni c’è stata una crescente
distorsione dei flussi finanziari in conto capitale verso il Nord.
Riforme come il federalismo fiscale e i costi standard in ambito
sanitario hanno contribuito a tale distorsione. La spesa pubblica in
conto capitale pro capite, nel Mezzogiorno, è pari a 590 euro nel
2017, praticamente lo stesso valore del Centro Nord (570). Era di
1.100 euro nel 2000. Occorre che il criterio dell’80% di spesa in
conto capitale verso il Sud sia realmente rispettato.
Non c’è però
programma socialmente efficace senza organizzazione politica. Non c’è
contenuto senza contenitore, come non c’è teoria senza prassi. Non
avremo un programma in grado di radicarsi nuovamente nelle nostre
classi sociali di riferimento senza una capacità di analisi della
domanda sociale, di filtraggio di questa domanda in linee di azione e
di costruzione di un compromesso politico. Tutto ciò richiede una
organizzazione, non bisogna troppo fidarsi della moda del
partito-nuvola. Tale partito o propone un ascolto fittizio per poi
imporre una linea decisa ai vertici, come il M5s, oppure ha, in
realtà, una organizzazione intera, seppur snella, come Podemos.
Inutile dire che il partito-massa funzionariale non è più
riproponibile, non è sostenibile finanziariamente e non incontra la
voglia di protagonismo dal basso che si esprime nel fenomeno dei
social. Non voglio invadere un tema che sarà trattato da altri
domani, però, tornando all'inizio della mia esposizione, un
programma politicamente efficace vive dentro una comunità. Per farlo
vivere, occorre un organismo in grado di mobilitare energie
progettuali ed ideative dal basso, convogliandole dentro un progetto
che ne faccia sintesi. Tornando a Podemos, ad esempio, sono
interessanti le forme di coinvolgimento democratico dei circoli
territoriali, spinti ad elaborare micro-programmi locali, che poi
vengono analizzati e portati ad una sintesi nazionale da una
Segreteria di Programma autonoma rispetto alla Segreteria politica.
Dirsi socialisti è giusto. Però visto che non si può certo riapplicare meccanicamente ciò che il socialismo fu e nell'attesa che un nuovo senso venga riformulato occorre dare un significato minimo a questa parola altrimenti resta una declamazione bella ma vuota.
RispondiEliminaQuesto significa stabilire che ci sono alcuni obiettivi sui quali vi deve essere una netta discontinuità con la sinistra che fu e sui quali occorre essere radicali, obiettivi sui quali non si può accettare nessuna progressività. Altrimenti il minimalismo delle vecchie sinistre buttato fuori dalla porta rientra dalla finestra. Sui restanti obiettivi si potrà anche essere progressivi.
Progressività significa risolvere i problemi parzialmente facendo parecchi esclusi. Se la disoccupazione (di Trilussa) passa dall'11% al 6% ma io resto disoccupato per me cambia davvero poco.
O si delinea in maniera netta quali sono questi obiettivi su cui non è accettabile nessuna progressività oppure dirsi socialisti sara solo una sterile petizione di principio.
Giovanni