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giovedì 26 marzo 2015

GUERRA ALLA CORRUZIONE? TUTTALPIU’ LA SOLITA PARATA di Norberto Fragiacomo





GUERRA ALLA CORRUZIONE? TUTTALPIU’ LA SOLITA PARATA
di
Norberto Fragiacomo




Dopo averne ascoltate tante, per giorni e giorni, anche il cuore più arido può farsi vincere dal desiderio (dal capriccio?) di narrare una storia.

Magari una favola nera, tutt’altro che a lieto fine: quella della corruzione in Italia. Capiamoci: il fenomeno esiste, è anzi diffusissimo e allarmante – ma il fatto che tutti ne parlino complica le cose, lo rende vago, indistinto, impalpabile. Manca una definizione che si imponga alla babele di voci dissonanti, non di rado prezzolate.

Quando frequentavo l’università, nel secolo scorso, per corruzione si intendeva un delitto - anzi, una coppia di delitti - contro la pubblica amministrazione: corruzione propria, se il patto delittuoso tra funzionario e privato aveva ad oggetto la violazione di un dovere d’ufficio, impropria se l’indebito compenso remunerava il compimento di atti dovuti (es. del dipendente che accetta del denaro per velocizzare una pratica).

Troppo semplice, ci fu confidato in seguito: la corruzione è ormai assurta a costume, a pratica dai contorni sfumati – è “fenomeno politico-amministrativo-sistemico”, scandì all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 il Presidente della Corte dei conti Giampaolino. Potremmo descriverla come un’alterazione fraudolenta delle regole del gioco, un intralcio alla concorrenza che, per i tecnocrati della UE, rappresenta il primo comandamento, e anche l’ultimo.

Il legislatore della 190/2012, denominata per l’appunto “legge anticorruzione”, fece propria questa nozione allargata, atecnica, e si propose ambiziosamente di prevenirla, anziché limitarsi a reprimerla penalmente. Come? Moltiplicando responsabilità, adempimenti e carte. C’è un’Autorità nazionale, che adotta un piano (il PNA), recepito e “personalizzato” da ogni singola amministrazione del variegato universo pubblico, società incluse. I contenuti sono legislativamente delineati: quattro aree di massimo rischio (autorizzazioni e concessioni, procedure concorsuali, evidenza pubblica, concessione di sovvenzioni e pubblici denari a privati), valutazioni di impatto, misure standard da adottare e, se del caso, potenziare (come la famigerata rotazione del personale). Si punta ad assicurare la piena (anzi: “totale”) accessibilità ai siti internet delle amministrazioni, ad escludere in radice la possibilità di conflitti di interesse (con il nuovo articolo 6-bis della 241, monco ma imperioso), ad inasprire i divieti in materia di incompatibilità, ad imporre ai lavoratori, a pena di licenziamento (per condotte gravi o reiterate), il rispetto di una pletora di minuziosissimi obblighi. Si prevede, in ogni singolo ente, la figura di un cerbero – il responsabile anticorruzione – che scriva, monitori, insegni e poi scriva ancora, ricevendo nei ritagli di tempo i rapporti dei suoi referenti d’area. Guai a chi sgarra: le sanzioni fioccano, si assommano, incutono terrore. Attenzione! – ci ammonisce l’autorevole esperto da talk show – il responsabile farebbe bene ad affidare il patrimonio ad un blind trust, se qualcosa va storto c’è pericolo che resti in mutande! In verità, la legge ci parla di responsabilità diffusa, e di un controllore principe che rischia meno di altri (va esente da conseguenze se redige il piano e veglia sulla sua attuazione), ma cos’è mai la banalità di una norma al cospetto di un aziendalista onnisciente? E poi le disposizioni si rincorrono, mutano di giorno in giorno, appaiono spariscono e ricompaiono come se a dettarle fosse uno schizofrenico – o il puro caso.

Se andiamo poi a valutarne la deterrenza scopriamo, con un sospiro di sollievo, che i pubblici dipendenti si sono fatti restii ad accettare prosciutti e bottiglie di spumante sotto Natale, che i segretari comunali anticorruzione, prossimi ad estinguersi, sgobbano come mai prima; che qualche gola profonda (poche, lamentano: ci vorrebbero le taglie!) manda dettagliate relazioni sui comportamenti “sospetti” del vicino di scrivania.

Tutto bene allora? Purtroppo no, perché – prosciutti a parte – le ruberie non cessano, gli appalti sono più inquinati di un tempo e il protagonismo criminoso di politici e supermanager a chiamata non fa rimpiangere gli anni di Tangentopoli, ridotta oggi a serbatoio di soggetti per serie televisive.

Gli scandali dell’EXPO e del Mose si aggiungono alle denunce di Transparency International che – come già scritto in un’altra occasione – tanto trasparente non è, ma ci schiaffa dietro al Ghana nella classifica della corruzione “percepita” (da chi? dagli uomini d’affari e dagli esperti di economia, ovvio), e allora tocca correre ai ripari, inventandosi o riciclando norme e addossando ulteriori obblighi a chi sta in basso. La novità del giorno è che le norme anticorruzione saranno estese in toto – con atto amministrativo, parrebbe - alle società partecipate, con l’esclusione di quelle quotate in borsa e di quelle che emettono strumenti finanziari… ottimo, ma non era già previsto? Risulta di sì (in caso contrario, ci vorrebbe un ritocco legislativo), ma poco importa: l’effetto annuncio è assicurato, il Governo Renzi può bearsi del suo “fare” e promettere agli italiani che prima o dopo il DASPO salterà fuori, e saremo tutti virtuosi e contenti – incorrotti, come certe mummie.

E a chi prova a ribattere che, anche a tacer del fatto che l’aumento a dismisura di adempimenti formali “senza maggiori aggravi per le finanze pubbliche” intralcia l’azione amministrativa, la 190 è nata zoppa di suo, perché non sanziona i comportamenti dei politici e soprattutto perché appare pensata per combattere esclusivamente la corruzione “minima” (quella del salame all’impiegato, appunto), azzimati professoroni intimeranno virtuosamente il silenzio: siamo o non siamo un popolo di cialtroni, guastati nell’intimo dalla morale cattolica? Forse sì, lo riconosco… ma chi profitta maggiormente della situazione, il travet che s’inventa un secondo lavoro o il signore degli incarichi dinanzi al quale ogni porta si spalanca? Il concorsista sfigato che perde un lustro sui libri o il direttore generale che, di fronte a una platea di neoassunti a 1.300 euro al mese, sminuisce il suo stipendio da 220 mila annui sentenziando: “badate che io, a differenza vostra, sono un precario”? Chi si ficca in tasca un po’ di briciole o chi pretende per sé, il figlio e il nipote la garanzia di cariche e sinecure vita natural durante, considerando il proprio privilegio un diritto, e affievolendo il diritto del cittadino comune a impudente pretesa? Sul serio possiamo mettere sullo stesso piano il modello e i suoi imitatori in sedicesimo, fingendo che le colpe degli ultimi lavino quelle del primo?

Cos’è davvero la corruzione? Provo a rispondermi: è un ascensore irrimediabilmente fermo al piano terra, un cancello di cui il merito non fornisce la chiave; un premier laureato in legge che, secondo recente giurisprudenza, non è tenuto a conoscere il diritto e può distribuire prebende a piacimento; un legislatore che, in dispregio di ogni decenza, regala a se stesso l’impunità amministrativa; aggiungiamo pure un gran signore che, tra una comparsata tv e la successiva, pontifica con patriarcale spocchia su (presunte) corruttele concorsuali. Corruzione è proporre di donare un mese di vacanze scolastiche alle aziende, perché gli studenti si avvezzino alla schiavitù; corruzione è sostenere che “il figlio di un operaio non può mica avere le stesse opportunità del figlio di un professionista”, ci mancherebbe; corruzione è l’inclusione di pochissimi e l’esclusione dei molti, dileggiati e costretti a contendersi un osso rinsecchito.

Corruzione sono l’ingiustizia sociale, l’avidità esaltata e blandita, la spietata sopraffazione elevata dal capitalismo neoliberista a legge fondamentale. Guardiamo la terra, non l’italico dito: se il soldo è misura di tutte le cose, la corruzione non è più patologia - è fisiologia. Ce la presentano come incompatibile con la legalità, niente di più falso: anche la legge può essere corrotta, e purtroppo per noi lo è.

Batteranno magari la piccola corruzione con l’intimidazione e la minaccia; quella grande dormirà invece sonni tranquilli, perché chi dovrebbe debellarla è il primo a trarne profitto, non di rado con la benedizione del diritto (e di chi officia i suoi stanchi riti).






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