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venerdì 26 gennaio 2018

A PROPOSITO DI MIGRAZIONI di Norberto Fragiacomo




A PROPOSITO DI MIGRAZIONI 
di 
Norberto Fragiacomo

Non occorre risalire fino all’antica Roma o ai tempi di Genghis Khan per reperire esempi di migrazioni dagli effetti dirompenti se si tiene a mente che l’essenza di ogni fenomeno migratorio è l’abbandono (spesso forzato, sempre traumatico) da parte di un gruppo umano dello spazio vitale originario - in estrema sintesi: una perdita. 

Presupposto della c.d. Rivoluzione industriale è lo spietato sradicamento, avvenuto nei secoli immediatamente precedenti, di una larga fascia della popolazione inglese, formata da piccoli e piccolissimi coltivatori tendenzialmente autosufficienti (anche se a un livello di pura sussistenza). Con l’affermarsi delle “enclosures” essi vengono strappati non soltanto al campicello – cioè: smarriscono l’indipendenza economica – ma anche ai centri di aggregazione della vita comunitaria, che erano il pub, la chiesa, la fiera stagionale. In tal modo sono privati dell’identità, invisibile collante che rende tanti singoli esseri umani un collettivo, e vengono costretti a lasciarsi alle spalle villaggi destinati alla sparizione per migrare verso città-non città fra loro indistinguibili, dove finiranno alla mercé di ex fittavoli più lungimiranti di altri. Promiscuità, alcolismo, disperata abiezione e lavoro servile - oltre alle reprimende di “virtuosi” gentlemen - sono il destino di chi in quei non-luoghi trascina la propria miserabile (in)esistenza.


C’è un “complotto” dietro questa involuzione umana/evoluzione economica? Niente affatto: solamente una strategia che prende forma e si affina nel corso di due o tre secoli.
Qualcosa del genere rischia di accadere nell’Italia del dopoguerra, ma interviene allora un fatto nuovo e irripetibile: inaspettatamente le mutate, specialissime condizioni storiche permettono ai meridionali giunti al nord di acquisire temporaneamente, al pari dei loro “ospiti” proletari, la dignità di cittadini. Purtroppo una rondine non fa primavera, e la Storia umana ricorda più un rigido inverno.

Al di là delle apparenze (cifre non paragonabili, viaggi più lunghi, babele di lingue e religioni), le migrazioni odierne richiamano quelle interne all’Inghilterra del ‘500-‘600, e per le medesime ragioni sono “sponsorizzate” e/o favorite dai ceti dominanti, che non a caso si appellano alla “morale” come i lontani precursori. Questa volta però la perdita – già di per sé duplice, perché al contempo economica ed identitaria – riguarda sia gli effettivi migranti che quanti sono chiamati ad “accoglierli”: per accorgersi dello spaesamento dei primi è sufficiente osservarli mentre peregrinano lungo le arterie o in città per loro aliene, ma anche i secondi subiscono uno shock culturale quotidiano (e accuratamente programmato) che fa vacillare “solide”, consolanti certezze.
Veder recise in un’era di conclamata crisi economica (reale? ne dubito) le proprie radici porta gli esseri umani a chiudere gli occhi e la mente e, di conseguenza, a muoversi come sonnambuli in un mondo dove altri dettano le regole – e possono facilmente imporle a chi versa in uno stato di totale dipendenza economica, culturale e sociale.
L’esercito di riserva del prossimo futuro sarà sterminato ma indifeso, e composto da individui dispersi che farfugliando incomprensibili maledizioni si guarderanno in cagnesco l’un l’altro, fino a diluirsi in una massa di bruti ai quali, anziché il soma huxleyano, verrà servito quel formidabile strumento di controllo a distanza che è lo smartphone.





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