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lunedì 3 dicembre 2018

A SINISTRA, MA CONTROMANO di Norberto Fragiacomo




A SINISTRA, MA CONTROMANO
Appunti sparsi su un testo, quello di Fabrizio Marchi, da leggere per capire e imparare qualcosa di utile
di
Norberto Fragiacomo


Confesso che mi sono accostato a CONTROMANOCritica dell’ideologia politicamente corretta con estrema curiosità e un tantino di diffidenza: la prima frutto della sincera stima che provo per l’autore, Fabrizio Marchi (uomo di vasta cultura oltre che piacevolissimo commensale), la seconda derivante dal fatto che sovente le raccolte di articoli o riflessioni mancano di unitarietà, sballottano il lettore a destra e a manca negandogli il legittimo piacere di raggiungere infine la meta.
Orbene, il testo ha fugato sin dalle pagine iniziali i miei timori, convincendomi e appassionandomi sempre più: nessuna frammentarietà, al contrario una lucida visione d’assieme che abbraccia ambiti apparentemente distanti ed estranei l’uno all’altro, svelando analogie spesso inquietanti, e riesce a tracciare grazie all’acutezza dell’osservatore un identikit realistico della società capitalista contemporanea. Un saggio vero e coerente, insomma, ma anche indigesto per chi seguita ad abbeverarsi alle fonti dell’informazione sistemica e, per credulità, superficialità o codardia intellettuale, persevera nel ritenere quest’obbrobrio quotidiano “il migliore dei mondi possibili”. Mi correggo: questa categoria di telespettatori giammai si confronterà con l’opera che ho davanti agli occhi e, se per puro caso vi s’imbattesse, la getterebbe lontano inorridita – meglio le favole che ci raccontano.
Su molte di quelle favole Marchi si sofferma, e lo fa affidandosi – oltre che a dati pubblici ma “invisibili” per una platea distratta – a un modo di ragionare rigoroso e serrato che non sente mai il bisogno di sbalordire il lettore con paroloni ed effetti speciali: “si accontenta” di prospettargli un’interpretazione controcorrente del reale. Per essere chiari: a parte la laurea in filosofia, l’unica cosa che l’autore e il Fusaro che innerva di avverbi impronunciabili (“heideggerianamente”) la sua prosa hanno in comune è il debito – riconosciuto da Fabrizio, che pur non rinuncia alla critica – nei confronti di quel geniale outsider che fu Costanzo Preve. Uno scomunicato, per l’appunto: e tale si sente (e definisce) pure Marchi. Ma si sa: l’accostamento al discusso Diego Fusaro - che comunque propone temi di assoluto rilievo - piuttosto che al purtroppo misconosciuto Preve serve a certa “sinistra” per squalificare i pensatori scomodi, bollandoli di “rossobrunismo” quando, anziché compiacersi di recitare stanche litanie di finta critica al sistema, provano ad indagare nel profondo: Fabrizio Marchi lo fa da annorum e, pertanto, va relegato ai margini. Non è forse del tutto condivisibile la sua ripetuta affermazione secondo cui oggidì esistono due tabù solamente, Israele e il femminismo: tabù è anche un’analisi critica del sistema nel suo complesso, che non si limiti a singoli aspetti – sia pur importanti – o non presenti un tasso di genericità tale da renderla innocua e digeribile. Non sparate sulla sovrastruttura, insomma, perché proprio la sua tenuta garantisce la sopravvivenza di un sistema che, pur ammettendo volentieri le proprie brutture, sa presentarsi come progressista e privo di alternative che non siano peggiori del “male”.

Sfoglio il volume che ho dinanzi: praticamente ogni pagina presenta mie sottolineature e note a margine, che esprimono quasi tutte consenso pieno. Da dove cominciare allora questa benedetta recensione? Dal saggio di apertura “Destra e sinistra”, che opportunamente distingue due piani, sostenendo l’effettivo superamento della dicotomia a livello di politica operativa – visto che tanto i partiti di destra quanto quelli “di sinistra” si muovono all’interno del recinto ideologico liberalcapitalista – la sua persistenza dal punto di vista ideale? Da alcuni ritratti ben riusciti (la mandria di ragazzotti romani di “Una domenica bestiale” che, su una spiaggia proletaria, umilia quasi per gioco l’anziano vu cumprà, la professoressa “liberale di sinistra” che, in pieno ’68, permette agli studenti di fumare in aula ma umilia sistematicamente gli alunni a lei sgraditi invitandoli a cercarsi un lavoro, il figlio di milionari che, invitato al desco di una famiglia proletaria, si mette a mangiare come una bestia per ostentare la sua solidarietà al popolo lavoratore e riceve dall’ospite una splendida lezione di dignità e stile) che, se rivelano il talento descrittivo di Marchi, non sono mai fini a se stessi, perché introducono una riflessione più generale?
Mi decido alfine: toccherò soltanto alcuni punti, quasi di sfuggita, fra quelli che maggiormente hanno attratto la mia attenzione. C’è un passaggio chiave, a pagina 217: “La mia opinione è che siamo all’interno di grandi e complessi processi all’interno dei quali ci sono degli attori e anche dei registi (ciò che chiamiamo classi e gruppi dominanti) i quali operano appunto all’interno di un grande processo in un gioco continuo e costante di rimandi. Personalmente non credo affatto al carattere impersonale del capitalismo, come sostengono alcuni. Mi sembra una interpretazione parziale, così come altrettanto parziale sarebbe pensare che tutto sia determinato da una sorta di Spectre mondiale del capitalismo che ordisce e organizza complotti. A mio parere sono compresenti entrambi gli aspetti, proprio in virtù della complessità dei processi, all’interno dei quali ci sono i soggetti che agiscono e che gli danno vita e viceversa.” Non “complotti” caricaturali, dunque, bensì strategie di medio-lungo termine elaborate da gruppi di potere che non determinano la realtà, ma possono influenzarla: teniamo a mente questo passaggio quando i media di regime ci martellano con allarmi sul c.d. nervosismo dei mercati, presentandoceli come entità impalpabili o addirittura (ed è il massimo dell’impudenza!) come un insieme innocente e vulnerabile di piccolissimi risparmiatori[1].

I capitoli dedicati al c.d. pericolo fascista e all'immigrazione sono sobri e meditati: contrariamente a certa “sinistra” beghina, che scorge in gruppuscoli sparuti la principale minaccia alla nostra libertà (?), Marchi non usa i paraocchi ed individua un “fenomeno parzialmente nuovo, cioè una destra post neofascista che ha avuto però l’intelligenza di rinnovarsi profondamente” e sarebbe oggi incarnata da formazioni politiche con vasto seguito popolare, che si fingono anticapitaliste per perseguire gli interessi di ceti padronali messi fuori gioco dalla globalizzazione. Posso condividere, ma se questa destra – come suggerisce il saggista – costituisce la carta di riserva del Capitale (per ragioni storiche e non solo più in Sudamerica che in Europa, a parer mio) il nemico da battere resta quest’ultimo, e difatti Marchi riconosce che “Tutto ciò, ovviamente, non significa, per quanto mi riguarda, che il neofascismo, in tutte le sue variegate forme, sia oggi al top dell’agenda politica.” Concordo, specialmente se – in luogo di approfondire il tema come fece quasi mezzo secolo fa Pasolini – ci si riduce ad una battaglia identitaria contro CasaPound e Forza Nuova, prescelti (sospetto) perché a portata di corteo per le esigue ed esangui forze che ancora si richiamano ad un comunismo da stereotipo.

Sul tema immigrazione la mia distanza da Fabrizio Marchi è – credo – più apparente che effettiva. Confermo le opinioni più volte espresse: penso che in Italia il razzismo sia un fenomeno di nicchia, che in larghi strati della popolazione, in genere corrispondenti a quelli più disagiati, alligni piuttosto la paura di un diverso (=xenofobia) percepito qualche volta a torto, talora a ragione come non integrabile e capace[2], pur rimanendole sostanzialmente estraneo, di sconvolgere la vita sociale della comunità, di minarne quell'identità che, molto intelligentemente, l’autore riconosce come fattore positivo. Rimando ai miei scritti, non prima di aver osservato che il timore di un “deprezzamento dell’immobile di proprietà” causato da certe presenze straniere va preso sul serio e non ridicolizzato (Marchi non lo fa, intendiamoci): in tempi di crisi senza sbocchi e di svalutazione anche economica del lavoro la “casetta” acquistata coi sacrifici di una vita assurge a garanzia per figli mandati altrimenti allo sbaraglio – una polizza che lo spaccio all’angolo della strada o il campo rom a due passi riducono a carta straccia o, se preferiamo, a quattro muri scrostati. Premesso questo aggiungo che le ricette proposte a pagina 94-95 sono sagge e persuasive: porre fine a guerre ed occupazioni militari, interrompere il furto di risorse ai danni dell’ex Terzo mondo ed instaurare con quei Paesi un’equa collaborazione/cooperazione farebbe senz’altro rientrare il fenomeno migratorio “in una dimensione fisiologica e gestibile sotto ogni punto di vista”. Il principale ostacolo a questi progetti – verrebbe da chiosare – è l’esistenza stessa del sistema capitalista sovranazionale, che senza conflitti e sfruttamento esasperato a 360 gradi non avrebbe di che campare…

Vengo rapidamente alle questioni centrali, cioè ai tabù. Su Israele sottoscrivo ogni singola parola dell’autore: mi ha sempre stomacato l’uso strumentale delle Shoah (un evento tragico, ma niente affatto unico nella Storia umana) al fine di giustificare una politica da “Stato canaglia”, e sono dell’avviso che detta strumentalizzazione sia un oltraggio postumo ad una parte, cospicua ma non maggioritaria, delle vittime del nazismo. Sul femminismo mi concedo qualche riflessione in più, se non altro perché il nostro lo eleva a questione capitale, e il centinaio di pagine che gli dedica costituisce il fulcro del suo lavoro oltre che, per molti versi, il contributo più personale ad una discussione che vorremmo vivace.

Marchi è tra i fondatori di un’associazione, denominata “Uomini beta”: sono i maschi non privilegiati, costretti a misurarsi con una realtà in cui le donne – oltre naturalmente ai capitalisti - avrebbero il coltello dalla parte del manico. Non essendomi mai occupato approfonditamente della questione (anche se mi interrogo su queste tematiche sin da un’adolescenza “sfigata”), ho trovato molti passaggi del libro per così dire nuovi e illuminanti: alludo in primis alla questione del reddito femminile, che ci assicurano sarebbe inferiore a quello maschile per via di una perdurante discriminazione sessuale (anzi no: di genere, come ci si compiace di dire storpiando il significato dei termini). Fabrizio Marchi scopre forse l’acqua calda, ma ben nascosta in una pentola sigillata: il reddito medio femminile è più modesto semplicemente perché molti detentori del Capitale sono uomini e perché, su un piano più basso, parecchie cittadine preferiscono il part time al tempo pieno. Da dipendente pubblico, in effetti, mai mi sono imbattuto in buste paga maschiliste, e i concorsi statali son talmente poco sessisti da assicurare una prevalenza fra i vincitori (dovremmo parlare di vincitrici?) delle femmine sui maschi. L’autore smonta anche la bolla mediatica del “femminicidio” (vocabolo lessicalmente e giuridicamente inutile, ma di grande impatto propagandistico!), cui modestamente ho dedicato qualche riflessione critica: già il nome indica che si tratta di enfatizzazione - se non invenzione - giornalistica, e i dati statistici chiariscono che, per fortuna, il fenomeno è in costante calo, a differenza (ci ammonisce Marchi) delle morti sul lavoro, quasi tutte ascrivibile al “genere” mio e suo. Molto persuasiva è anche la tesi secondo cui il maschio è, per sua natura, in una posizione di fisiologica sudditanza rispetto alla femmina: la prova ci viene dal mondo degli animali, ove assistiamo a tremendi duelli “virili” il cui premio è per l’appunto la procreazione. Quanto all'asserzione femminista secondo cui la violenza sarebbe prerogativa maschile non occorrono le statistiche per smontarla: è fatta notorio, per dirla in giuridichese, che l’aggressività è una componente della natura umana, egualmente diffusa sia tra gli uomini che tra le donne. In certi passaggi – non in tutti – Marchi sembra però adombrare che la condizione femminile sia preferibile da sempre, e che l’uomo sia in qualche misura superiore, avendo plasmato la Storia, sviluppato le arti, creato il pensiero filosofico ecc. Mi tornano alla mente allora certe riflessioni del compianto professor Losurdo sulla lotta di classe in Marx ed Engels. Sarebbero ascrivibili alla categoria anche quelle protofemministe, dal momento che – ci viene spiegato – la proletaria dell’Ottocento è soggetta due volte: al sistema che la sfrutta e al marito che, pur non essendo affatto un “privilegiato” (è anzi uno schiavo votato a morte prematura), dispone di lei a piacimento. Un tanto vale anche per le appartenenti alle classi agiate, la cui esistenza è quella di mantenute di lusso, prive come sono di diritti basilari quali il voto, il divorzio, la capacità di disporre delle proprie sostanze, l’autodeterminazione ecc. Pretendiamo prove? Tolstoj, Flaubert, i massimi scrittori del diciannovesimo secolo possono fornircene a iosa. La società occidentale è stata maschilista, se non altro a partire dal giorno in cui Achille uccide Pentesilea, la regina delle Amazzoni, e amoreggia col suo cadavere. Quanto alla creatività, può darsi che il maschio abbia mediamente più fantasia (sono propenso a crederlo, e datemi pure del misogino!), ma è un fatto che così come le condizioni materiali mai hanno favorito l’emergere di individualità geniali fra gli ultimi egualmente hanno ostacolato l’emancipazione anche artistica di chi nasceva “condannata” al focolare, misero o lussuoso che fosse. Saffo, Ipazia, Artemisia Gentileschi sono eccezioni tanto più ammirevoli in quanto hanno dovuto superare ostacoli ulteriori rispetto ai loro contemporanei di sesso (non genere!) maschile.

Certo: sul presente Marchi ha ragione da vendere. Ma cui prodest, viene da dire, questa crociata ultrafemminista che ha prodotto la sconcia ipocrisia di MeToo (donne di classe alta che, a distanza di decenni, equiparano il corteggiamento all’odioso stupro) e trascende nella ripugnante teoria gender, volta a derubare gli esseri umani persino dell’identità sessuale per farne, più che dei beta, degli epsilon spiritualmente ermafroditi?
Non alle donne, direi, perché l’esperienza non suffraga una loro predilezione per gli eunuchi[3]: piuttosto al sistema capitalista, che per dar vita al “consumatore abulico[4]” ha necessità di togliere all’essere umano qualsiasi rimasuglio di identità, che sia l’appartenenza a una comunità linguistica, un gusto particolare o una sessualità ben definita. Se è vero, ed è vero, che le rivoluzioni le hanno sempre guidate i maschi tagliar loro (metaforicamente?) le palle è un ottimo affare per il sistema imperante, gestito da uomini e donne impermeabili al romanticismo. Marchi, d’altra parte, ne è consapevole: “E sono convinto che questa sia un’operazione di manipolazione che rientra in quel grande processo di distruzione sistematica di ogni istanza sociale, etica, politica e addirittura antropologica che viene perseguita dal sistema capitalistico globale e che ha come obiettivo quello di omogeneizzare e uniformare le persone spogliandole di qualsiasi identità (persino quelle sessuale), riducendole ad una massa di consumatori passivi” (pag. 1879.
Mi fermo qua, perché le ore scorrono e perché cose da dire ce ne sarebbero a bizzeffe: ogni capitolo del libro meriterebbe un approfondimento ben più corposo di queste scarne mie paginette. Il Capitale, controllando il tempo, ci abitua a disporne con parsimonia: forse è proprio la sua cronica mancanza a disincentivare il pensiero critico, che nasce dall’otium. Per questo – ribadisco la mia convenzione espressa ne L’ultima Carta contro la barbarie (2016) – noi lavoratori (pseudo)intellettuali non saremo nel medio periodo soppiantati dai robot e compensati con elemosine di reddito che ci consentano di consumare: avessimo troppo tempo libero potremmo sviluppare un pensiero critico, diverremmo pericolosi. No, meglio il badge della macchina intelligente: è uno strumento di controllo più sicuro.
In ogni caso, CONTROMANO è un testo da leggere e meditare, perlomeno nei pochi momenti liberi che gli orari giornalieri dettati dal Capitale ci prestano a strozzo.



[1] Che vulnerabili sono di sicuro, visto che i signori dei fondi ne dispongono a piacere (rammentate la vecchia definizione “parco buoi” riferita ai piccoli azionisti?)!
[2] La giovane età di immigrati maschi e spesse volte “in forma” rafforza evidentemente quest’impressione, che non derubricherei a fantasia.
[3] Asserire poi che tutte loro (o buona parte) mercifichino la loro sessualità mi pare un’esagerazione ingenerosa, poco veritiera e vagamente sessista: non sono né migliori né peggiori di noi maschi.
[4] Mi si consenta un’autocitazione: costui è il protagonista del mio “invito al Socialismo”, risalente al 2009.



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