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venerdì 8 aprile 2011

DALLA PARTE DELLA RIVOLUZIONE LIBICA

(foto di Stefano Mangione)


- comunisti e neostalinisti a confronto -
di Marco Ferrando

Lo scenario della guerra civile in Libia, le ingerenze imperialiste, l’estrema incertezza informativa sui fatti in corso, sono diventati lo spunto d’occasione in alcuni ambienti della sinistra per mettere in discussione la stessa esistenza di una rivoluzione libica e abbellire la realtà del regime di Gheddafi.

È una guerra civile, non una rivolta, men che meno una rivoluzione”. “È stato tutto organizzato dall’imperialismo, non c’è nulla di spontaneo a differenza che in Tunisia e in Egitto” “Non vi sono rivendicazioni sociali nel movimento contro Gheddafi, ma solo politiche”. “Gheddafi ha retto un regime antimperialista, per questo si vuole cacciarlo”. A Bengasi si sventola la bandiera della vecchia monarchia di re Idris, sarebbe questa la rivoluzione?”. E via dicendo...

Queste posizioni – espresse in forme diverse da ambienti della vecchia guardia de Il Manifesto, dall’area stalinista della Fed, e dalla Rete dei Comunisti – sono emblematiche della totale confusione di merito e di metodo presente nel bagaglio teorico della tradizione stalinista. E soprattutto dei risvolti politici controrivoluzionari di questo bagaglio. È bene dunque provare a fare chiarezza. Tanto più in un momento storico in cui l' ascesa della rivoluzione araba scuote l'intero ordine internazionale e pone al movimento operaio e ai comunisti rivoluzionari una nuova frontiera di intervento politico e di battaglia strategica.


IL REGIME DI GHEDDAFI ALLE SUE ORIGINI:
UN BONAPARTISMO “ANTIMPERIALISTA


La prima considerazione è di carattere storico. Il colpo di stato degli Ufficiali liberi nel 1969 in Libia ebbe sicuramente un connotato “antimperialista”, per quanto distorto dal suo carattere militare. Ma si può ignorare la natura reale del regime e, oltretutto, la sua dinamica storica regressiva negli ultimi 20 anni?

Il rovesciamento militare della vecchia monarchia libica di re Idris nel ’69 si inserì nel movimento più generale di decolonizzazione sviluppatosi nel secondo dopoguerra: un movimento che trovò un varco nell’esistenza dell’Urss e nell’espansione internazionale della sua area di influenza all'interno della stessa nazione araba.

Al pari del regime di Ben Bellà e poi di Boumedienne in Algeria, e di Nasser in Egitto (cui peraltro Gheddafi si ispirava), il nuovo potere degli ufficiali libici realizzò misure sociali indubbiamente progressive: cancellò le vestigia del colonialismo italiano, chiuse le basi militari straniere, nazionalizzò in parte le banche estere (con l’acquisizione di pacchetti azionari maggioritari, prese possesso delle risorse petrolifere del paese, varò provvedimenti di protezione sociale. Era più che sufficiente per la condanna di Gheddafi da parte dell’imperialismo. Ma non si trattava né del “socialismo” - come affermavano i partiti stalinisti arabi per giustificare la propria capitolazione al nazionalismo - né del potere operaio e popolare. Al contrario.

Sul terreno sociale Gheddafi preservò un economia di mercato, sia pure con una forte presenza di controllo pubblico: peraltro la “terza teoria universale” come Gheddafi chiamò la propria dottrina sociale - con la tradizionale modestia - riconosceva apertamente il principio della proprietà privata (“sancito dal Corano”) in polemica col “comunismo totalitario”.

Sul terreno politico eresse sulle rovine della vecchia monarchia un proprio regime militare e dispotico, basato sulla mistica del Capo; sulla negazione delle libertà democratiche più elementari dei lavoratori e delle masse (niente libertà sindacale, niente libertà di sciopero, niente libero confronto delle opinioni politiche nello stesso campo antimperialista...); sulla irreggimentazione attiva della società libica attraverso specifiche strutture di controllo sociale e poliziesco (i cosiddetti “comitati popolari” strettamente subordinati a Gheddafi, come una sorta di sua milizia privata); sull’equilibrio con (e tra) i clan tribali (mai messi come tali in discussione, ma anzi assunti come interfaccia del potere di regime); sul sistematico annientamento militare di ogni forma, anche larvata o potenziale, di opposizione all’assolutismo (dal clero islamico tradizionale degli Ulema, alle debolissime componenti dell’opposizione politica interna). La stessa “nuova costituzione” solennemente promessa da Gheddafi al momento del rovesciamento della monarchia, è rimasta in 40 anni lettera morta: e rimpiazzata dal credo della Yamahiriyya (1976) e dalla religione messianica del Libro Verde, naturalmente scritto di pugno dal Capo.

È dunque del tutto evidente che già negli anni 70 e 80 i comunisti rivoluzionari dovevano sicuramente difendere la Libia di Gheddafi (come l’Egitto di Nasser, come l’Algeria di Boumedienne...) dalle minacce dell’imperialismo, ma non potevano in alcun modo né identificarsi nei regimi bonapartisti militari piccolo borghesi, né abbellire la realtà di quei regimi. Al contrario, dovevano porsi come opposizione proletaria al bonapartismo, attorno a un programma di rivoluzione sociale anticapitalista e di democrazia operaia e popolare: l’unica prospettiva capace di consolidare e portare sino in fondo la stessa rivoluzione democratica antimperialista. Questa era del resto la politica di rigorosa indipendenza di classe che Marx rivendicava nei confronti della democrazia rivoluzionaria piccolo borghese e di un suo possibile governo (cfr. Indirizzo alla Lega dei Comunisti del 1850) e che l’Internazionale Comunista di Lenin e di Trotsky applicarono verso il nazionalismo “antimperialista” dei paesi coloniali o semicoloniali (cfr. il 2° Congresso della 3° Internazionale sulla questione coloniale, del 1920). La burocrazia stalinista capovolgerà questa impostazione.

L’adattamento dello stalinismo, durante il secondo dopoguerra, al nazionalismo arabo di settori militari piccolo borghesi in Medio Oriente, fu un crimine nei confronti della rivoluzione araba e delle sue stesse aspirazioni antimperialiste. Tutti i regimi bonapartisti “antimperialisti” appoggiati da Mosca, e resi possibili dalla stessa esistenza dell'Urss, hanno finito uno dopo l'altro col ritornare nell'alveo dell'imperialismo, e col subordinarsi al sionismo. Un processo già iniziato negli anni ’70 e ’80 (svolta di Sadat e poi di Mubarak in Egitto), e ultimato dopo il crollo del Muro di Berlino e dello stalinismo internazionale.


LA PARABOLA DI GHEDDAFI: DA BONAPARTE “ANTINMPERIALISTA” A SOCIO D’AFFARI (E DI CRIMINI) DELL'IMPERIALISMO

Il regime di Gheddafi non ha fatto eccezione. Oggetto ancora nel 1986 di un’aggressione militare imperialista (col bombardamento di Tripoli e Bengasi da parte americana), e ancora internazionalmente isolato nei primi anni ’90 (con le pesanti sanzioni internazionali del 92-93), il regime ha lavorato per una propria integrazione nel nuovo ordine internazionale, sino alla propria “riabilitazione” ufficiale nel 2003.

La fine dell’ombrello protettivo del Cremlino, l’aggressione imperialista all’Irak del ’91, la crescente pressione minacciosa del fondamentalismo islamico ai confini (Algeria) col rischio di una sua penetrazione in Libia, spinsero Gheddafi in breve tempo ad una radicale ricollocazione politica.
Si intraprese un piano di liberalizzazioni interne, si riaprirono le porte alle banche straniere, si offrirono all’imperialismo laute concessioni nello stesso campo petrolifero, si donarono sontuose commesse in campo infrastrutturale ai capitali italiani e francesi, si assunse il ruolo di spietato gendarme delle politiche xenofobe della U.E., si aprì alla distensione con l'Egitto e lo stato Sionista. Chiedendo in cambio non solo la rinuncia dell’imperialismo a rovesciare il regime, ma uno spazio di inserimento attivo nel capitale finanziario d’occidente: la Libia prima azionista della principale banca italiana (Unicredit) si afferma in questo contesto.

Questa svolta ha avuto ricadute importanti in Libia. Al carattere oppressivo della dittatura si è aggiunta la crescita sensibile delle disuguaglianze sociali, a fronte di stipendi fermi già da vent’anni. Da un lato liberalizzazioni e privatizzazioni, unite alle crescenti comunioni d’affari con i capitalisti europei, hanno accresciuto il privilegio sociale della casta di regime a partire dalla famiglia (larga) di Gheddafi, rendendo il sopruso politico ancora più odioso. Dall’altro il mantenimento dei sussidi sociali non ha potuto evitare l’aumento consistente della disoccupazione giovanile (specie intellettuale), caratteristica comune a tutti i paesi del Maghreb. Il reddito procapite in Libia è sicuramente più alto che in Tunisia e in Egitto, ma solo grazie alla tradizionale media del pollo. Infine il rimescolamento sociale innescato dalla crescente integrazione col capitale straniero ha corroso i vecchi equilibri tribali e territoriali, moltiplicando ataviche contraddizioni e tensioni (in particolare tra Cirenaica e Tripolitania), a tutto danno della stabilità del regime e dell’unità dell’esercito.

La verità è che la storia libica e la sua parabola è un ulteriore lezione per tutti i sostenitori, più o meno acritici, dei regimi militari “progressisti” (alla Chávez, per intenderci).
Non solo questi regimi non realizzano né possono realizzare, per definizione, il potere dei lavoratori e delle masse, ma la loro stessa autonomia dall’imperialismo è inevitabilmente parziale, fragile, transitoria, esposta prima o poi al riflusso della normalizzazione. Questa è la realtà attuale del regime di Gheddafi. Non vederlo, e continuare a riproporre ’40 anni dopo, pur con qualche comprensibile prudenza, la vecchia mitologia del Leone del deserto, significa non fare alcun bilancio degli errori passati e disarmare la politica rivoluzionaria di fronte allo scenario nuovo della rivoluzione araba.


LA SOLLEVAZIONE POPOLARE IN LIBIA: “GUERRA CIVILE” O “RIVOLUZIONE”? TANTA CONFUSIONE SOTTO IL CIELO

Ma c’è di più. Dopo aver rimosso in sede “logica” la base materiale di una possibile rivoluzione libica (se Gheddafi è antimperialista e le masse vivono bene grazie ai sussidi, perché dovrebbero fare una rivoluzione?) gli intellettuali neostaliniani negano in sede empirica l’evidenza stessa della rivoluzione in corso: si tratterebbe tuttalpiù di una “guerra civile”, ordita e preordinata dietro le quinte; e in ogni caso come si può chiamare “rivoluzione” l’innalzamento della bandiera monarchica?

Questa costruzione è un non senso. Che somma in sé l’assoluta incomprensione della realtà storica delle rivoluzioni, con l’assoluta incomprensione della concretezza degli avvenimenti in corso. Soffermiamoci su entrambi gli aspetti.

Non so come i compagni Burgio, Cararo o Dinucci immaginano una rivoluzione. Pare che la immaginino come un percorso rettilineo, segnato dalla coscienza di massa, illuminato da un chiaro programma, sorretto da un blocco sociale omogeneo. (E per questo... rinviabile alla notte dei tempi). Disgraziatamente una simile rivoluzione è sconosciuta alla storia dell’umanità. Le rivoluzioni reali, non quelle immaginarie, sono processi molto complessi. Non sono sospinte dalla coscienza ma dal bisogno e dall’odio contro l’oppressione. Proprio perché mobilitano grandi masse (altrimenti non sarebbero rivoluzioni) trascinano nell’arena della lotta i più diversi strati sociali, le più diverse culture e tradizioni, ragioni e interessi profondamente contraddittori. Così è stato sempre. E tanto più quando la rivoluzione si leva contro regimi dittatoriali pluridecennali, che per loro natura hanno bloccato per lungo tempo ogni forma di dialettica pubblica e di selezione delle rappresentanze politiche, unificando contro di sé un indistinto moto democratico per la “libertà”. È appena il caso di ricordare che la prima rivoluzione russa contro lo zarismo del 1905 iniziò sotto le insegne del prete Gapon (poi rivelatosi agente dello Zar)... Il compito dei comunisti non è quello di negare la rivoluzione perché non corrisponde ad una forma pura ideale (inesistente), ma di intervenire nelle rivoluzioni reali per sviluppare la loro coscienza, contrastare l’egemonia di forze politiche o culturali avverse (inevitabile nella prima fase), ricondurre le aspirazioni sociali e politiche progressive delle masse ad uno sbocco di classe anticapitalista.

Le rivoluzioni arabe in corso contro regimi ventennali (Tunisia), trentennali (Egitto), quarantennali (Libia), pongono ai comunisti esattamente questo problema. I processi in corso hanno caratteristiche diverse a seconda dei diversi contesti nazionali. In particolare sono diversi i canali organizzatori e politici della sollevazione, e la dinamica delle forze sociali. Ma ovunque la vera bandiera immediatamente unificante dei moti rivoluzionari non è stata sociale ma politica: la cacciata dei regimi, il rovesciamento degli oppressori. Proprio per questo la bandiera politica ha aggregato attorno a sé ragioni sociali profondamente contraddittorie, che tendono a conquistare la scena subito dopo il rovesciamento dei tiranni. La grande ascesa degli scioperi operai in Egitto, dopo la caduta di Mubarak in aperta collisione col “nuovo” potere militare provvisorio (e la borghesia egiziana che lo sorregge) è al riguardo emblematico.

La rivoluzione libica si colloca, con le sue specificità, in questo quadro generale. La bandiera unificante di larga parte della società libica in rivolta è la caduta di Gheddafi, la punizione dei suoi crimini, il varo di una costituzione, libere elezioni. Sono le classiche rivendicazioni di una rivoluzione democratica.

La bandiera “monarchica”? È semplicemente la bandiera libica in contrapposizione alla bandiera verde della dittatura. Che prima di Gheddafi vi fosse in Libia una monarchia (giustamente rovesciata nel ’69) è un fatto. Ma la bandiera oggi impugnata dalle masse contro Gheddafi non esprime affatto la rivendicazione del ritorno della famiglia Idris. Oltretutto l’opposizione monarchica è quasi inesistente in Libia, e debolissima nell’emigrazione, come documenta lo stesso storico Del Boca. Quella bandiera rappresenta sul piano simbolico, nel deserto dei riferimenti culturali e politici, il punto di identificazione e aggregazione disponibile dopo '40 anni di regime contro il regime. Nella percezione di massa è il simbolo di una rivoluzione nazionale democratica, non di una controrivoluzione monarchica. Si può non vederlo?

Un fatto “preordinato e organizzato”, a differenza che in Tunisia e in Egitto, e dunque longa manus di “forze straniere”? È una sciocchezza dietrologica tipica della mentalità staliniana, che ignora la realtà dei fatti. La cronaca della insurrezione di Bengasi, guida della rivoluzione, è ormai di dominio pubblico, persino nei particolari, confermati peraltro dalle più disperate fonti documentali e testimonianze. Le prime manifestazioni anti regime del 15 febbraio, convocate via internet, a base prevalentemente giovanile e studentesca, sono state aggredite a fucilate da forze mercenarie direttamente guidate da Karmis, figlio di Gheddafi, che ordinava all’esercito di partecipare alla repressione. L’orrore per la carneficina compiuta, in una città già colpita ripetutamente dalla violenza criminale del regime, ha prodotto la sollevazione popolare. Gli stessi comandi dell’esercito hanno a quel punto disertato gli ordini di Gheddafi, si sono ammutinati, e hanno aperto le caserme e i depositi d’armi, consentendo l’armamento popolare. Il giorno 20 Bengasi è stata liberata: e la sua liberazione ha prodotto un effetto domino in tutto l’est della Libia, con una dinamica analoga (sollevazione popolare, ammutinamento di truppe, armamento popolare). Dov’è in tutto questo la regia occulta di un diavolo misterioso? Come si fa a non vedere che la rivoluzione libica è figlia della rivoluzione araba, sospinta dai fatti di Tunisia ed Egitto, animata dalla stessa volontà di libertà e di riscatto che sta attraversando, in forme diverse, tutti i popoli arabi? Dopo aver descritto il crollo dello stalinismo internazionale nell’89 come complotto dell’imperialismo, vogliamo rappresentare come complotto dell’imperialismo la stessa rivoluzione araba (contro regimi alleati... dell’imperialismo)?

Ma in Libia c’è “una guerra civile, non una rivoluzione”, si afferma. Ma perché, una rivoluzione non può forse trascinare con sé una guerra civile? Le grandi rivoluzioni della storia non sono state anche guerre civili? La rivoluzione inglese del 1640, la rivoluzione francese del 1789-93, la stessa rivoluzione russa dell’ottobre ’17, non si sono risolte anche in guerre civili? La stessa guerra di liberazione in Italia nel 43-45 (tradita nelle sue aspirazioni rivoluzionarie dal PCI di Togliatti) non ha forse intrecciato sollevazione popolare e guerra civile? Si potrebbe continuare. È vero: in Tunisia e in Egitto il primo passaggio della rivoluzione, con la caduta di Ben Alì e Mubarak, non ha comportato la guerra civile, nonostante le centinaia di morti assassinati; per il semplice fatto che in entrambi i casi la forza popolare ha paralizzato l’esercito, la polizia si è disgregata, lo stesso imperialismo ha premuto dall’esterno su forze militari da sé finanziate e influenzate perché evitassero un bagno di sangue dalle conseguenze imprevedibili, e cercassero di riprendere il controllo politico della situazione (cosa come si vede non facile né a Tunisi né a Il Cairo).


In Libia è diverso, per un insieme di ragioni particolari: la famiglia Gheddafi non ha lo spazio di fuga disponibile per Ben Alì e Mubarak; il regime dispone, nella capitale, di uno spazio di arroccamento e tenuta militare superiore; Gheddafi controlla forze mercenarie consistenti; lo spazio di influenza e condizionamento politico dell’imperialismo su Gheddafi e il suo apparato militare è, per ragioni storiche, molto minore di quello esercitabile sul regime egiziano. In questo quadro la volontà di Gheddafi di resistere a Tripoli può trascinare una guerra civile (offrendo all’imperialismo uno spazio di possibile intervento esterno, proprio in assenza di una leva politica interna). Ma per quale ragione questa guerra civile annullerebbe il confine tra rivoluzione e controrivoluzione? Oppure si vuol suggerire, implicitamente, una linea politica di difesa del regime di Gheddafi contro la rivoluzione libica, in perfetta consonanza con la posizione assunta dal regime di Chávez e da Fidel Castro? In questo caso ne guadagnerebbe la chiarezza, e si avrebbe il coraggio di un'assunzione di responsabilità. Certamente molto impegnativa e rivelatrice.


PER LO SVILUPPO ANTICAPITALISTA DELLA RIVOLUZIONE DEMOCRATICA

Naturalmente il pieno sostegno alla rivoluzione libica non può affatto tradursi in un affidamento ingenuo agli eventi. Il rovesciamento rivoluzionario del regime di Gheddafi sarebbe un fatto assolutamente positivo ma non concluderebbe la rivoluzione: aprirebbe al contrario una sua nuova fase, ricca di incognite e di contraddizioni, e dunque una nuova agenda di problemi e di compiti.

Anche in Libia, come in Tunisia e in Egitto – seppur con una debolezza e dispersione molto maggiore – sono all’opera forze diverse interessate a subordinare la rivoluzione libica ad uno sbocco limitato e parziale o ad una piena riconciliazione storica con l’imperialismo. Il pericolo non viene oggi dal panislamismo, la cui presenza nella rivoluzione araba è oggi complessivamente molto limitata, e che è molto marginale nella stessa Libia (la tradizione Senussita della Cirenaica non è affatto integralista). Viene piuttosto dal lavorio degli ambienti tribali, interessati a riprendere il controllo della situazione dopo che la rivoluzione – specie tra i giovani – ha scosso il dominio dei clan travalicando i loro confini. Viene da settori militari del vecchio regime che hanno abbandonato la nave che affonda, ma che non sono disposti ad abbandonare i propri privilegi e il proprio status sociale. Viene dagli ambienti libici dei nuovi arricchiti, sviluppatisi nel decennio di apertura all'imperialismo, e spesso intrecciati col mondo degli affari occidentale. Queste forze non hanno oggi un asse di unificazione e un progetto univoco, anche in ragione dei loro interessi contrastanti. Ma hanno uno scopo comune: bloccare la rivoluzione popolare, ostacolare la piena realizzazione delle sue stesse rivendicazioni democratiche, impedire in ogni caso la sua trascrescenza in rivoluzione sociale, anticapitalista e antimperialista. Sono le stesse forze che possono essere interessate all'intervento dell'imperialismo in Libia, come fattore di stabilizzazione politica e restaurazione dell'ordine: un ordine senza Gheddafi – ormai fattore di guerra civile con tutti i suoi rischi – ma certo segnato dal pieno ristabilimento delle gerarchie dominanti.

Le masse libiche insorte hanno un interesse esattamente opposto, al pari delle masse tunisine ed egiziane: impedire il tradimento della propria rivoluzione. Da qui un programma d’azione conseguente: sviluppare sino in fondo le proprie rivendicazioni democratiche, a partire dalla rivendicazione di una Assemblea Costituente realmente libera e sovrana che sottragga a capi clan, generali, uomini d’affari la definizione del nuovo ordine politico; sviluppare i liberi comitati popolari che sono nati a Bengasi e Tabruk, allargare la loro base sociale, dar loro un carattere elettivo, coordinarli progressivamente su scala locale e nazionale, a partire dalla Libia già liberata: per farne gli strumenti dell’autorganizzazione democratica dei lavoratori e del popolo; rifiutarsi di consegnare le armi ai nuovi generali, come pretendono i comandanti militari a Bengasi: ed anzi estendere l'armamento popolare, integrare parallelamente rappresentanze militari elette dai soldati nelle strutture dei comitati popolari, organizzare ovunque la propria forza indipendente. Contemporaneamente, sul piano sociale, si tratta di affermare un programma autonomo e complementare: respingere ogni apertura alle liberalizzazioni di mercato, revocare le liberalizzazioni già effettuate, nazionalizzare sotto il controllo dei lavoratori e senza indennizzo tutte le leve vitali dell'economia del paese, annullare tutti i patti subalterni realizzati dal regime con l’imperialismo (a partire dalla chiusura immediata dei campi di concentramento dei migranti d’Africa).

La lotta per questo programma non solo sancirebbe l’autonomia politica del movimento operaio e popolare da tutte le forze della borghesia libica, ma darebbe un importante contributo al dispiegamento in avanti della rivoluzione egiziana e tunisina, in un passaggio cruciale.

CONTRO OGNI INTERVENTO DELL’IMPERIALISMO IN LIBIA. MA IN NOME DELLA RIVOLUZIONE NON DI GHEDDAFI

È da questo punto di vista rivoluzionario, e non da quello opposto filo-Gheddafi, che va denunciata e respinta nel modo più netto ogni ipotesi di intervento imperialista in Libia. Se l’imperialismo oggi ha allo studio un possibile intervento in Libia, non è perché vuole rimuovere Gheddafi (già peraltro dato per spacciato). Ma perché vuole bloccare la rivoluzione libica e l’estensione ulteriore della rivoluzione araba. Questo è il suo problema.

L’imperialismo non ha mai avuto scrupoli democratici e scopi umanitari. Tutta la sua storia ha militato contro la democrazia e contro l’umanità. La sua unica vocazione è il dominio sui popoli e il controllo sul pianeta. Non sono oggi le crudeltà del regime di Gheddafi a colpire la sensibilità di chi bombarda l’Afghanistan ed appoggia le barbarie del sionismo. Ma piuttosto l’instabilità politica della Libia, la messa a rischio delle sue riserve petrolifere, la possibilità di un ulteriore espansione del contagio rivoluzionario in Medio Oriente a tutto danno degli interessi strategici dell’imperialismo e dello Stato sionista, in uno scacchiere decisivo degli equilibri mondiali, presenti e futuri. Intervenire in Libia, dietro il pretesto ipocrita del soccorso umanitario, potrebbe voler dire riconquistare una leva di manovra nell'intero Maghreb, condizionare sviluppi e sbocchi dei processi politici in atto nella regione, far pesare sino in fondo la propria forza deterrente. Peraltro le stesse contraddizioni interimperialistiche spingono nelle stessa direzione. Stati Uniti e Gran Bretagna sono i più attivi nell'ipotizzare un intervento, perché pensano a rimpiazzare gli interessi imperialistici europei maggiormente colpiti (Italia e Francia), e ad aprire un più vasto canale di intervento diretto in Africa in funzione anticinese. La Francia vorrebbe evitare questa manovra, a difesa della propria vecchia area d'influenza in Africa. Ma non sa bene come fare. L'imperialismo italiano, principale vittima della caduta di Gheddafi (e non solo per la questione profughi) cerca di recuperare in extremis il ritardo accumulato per non restare tagliato fuori da un eventuale ripartizione delle zone d'influenza. Qual è l'unico vero elemento unificante dell'imperialismo, in questo “sgomitamento” di tutti contro tutti? La liquidazione della rivoluzione araba. Per questa stessa ragione la difesa e lo sviluppo della rivoluzione araba, senza defilamenti, deve costituire l’elemento unificante di tutte le forze coerentemente antimperialiste.

Sia il popolo libico insorto a regolare i conti con Gheddafi, non le vecchie potenze coloniali contro il popolo libico ed arabo!”

Questa parola d'ordine è tanto più importante in Italia, vecchia potenza dominatrice sulla Libia: che oggi celebra il centenario esatto dell’invasione coloniale italiana da parte del governo liberale “progressista” di Giolitti (1911), sotto la pressione del Banco di Roma. “Giù le mani dalla Libia, pieno sostegno alla rivoluzione libica contro Gheddafi e l’imperialismo italiano”, è la rivendicazione doverosa del movimento operaio del nostro Paese. In continuità con l’opposizione all’invasione della Libia che il Partito Socialista Italiano sostenne nel 1911. E come vero atto di riparazione contro la barbara oppressione italiana sul popolo libico per quasi mezzo secolo (sterminio della resistenza libica, uso dei gas asfissianti, varo dei campi di concentramento..., già all’epoca del “democratico” Giolitti).

Ma questa posizione ha un senso progressivo se muove dal sostegno alla rivoluzione, non alla controrivoluzione (o a un insostenibile neutralismo tra regime libico e popolo insorto).


COMUNISTI E STALINISTI DI FRONTE ALLA LIBIA: UNA DISCUSSIONE RIVELATRICE

In conclusione. Questo confronto sulla questione libica tra rivoluzionari e forze neostaliniste, non rappresenta affatto la semplice manifestazione di una divergenza occasionale, seppur importante, di “politica estera”. Al contrario: rappresenta, da un angolazione particolare, la cartina di tornasole di orientamenti programmatici contrapposti.

Un partito rivoluzionario che assume il comunismo non come etichetta ideologica, ma come programma per la conquista del potere da parte dei lavoratori e delle masse - in Italia come su scala internazionale - è portato da questo stesso programma a riconoscere i processi rivoluzionari ovunque si manifestino, a difenderli, a intervenire sulle loro inevitabili contraddizioni, a cercare di sviluppare una loro direzione politica alternativa nella prospettiva del governo dei lavoratori e delle masse povere.

Gruppi o partiti che invece si richiamano al comunismo come eredità ideologica dello stalinismo, senza programma rivoluzionario, senza lotta reale per il potere, sono portati ad assumere come riferimento internazionale centrale non la dinamica reale della lotta di classe e delle rivoluzioni, ma il posizionamento politico e diplomatico del proprio “campo” statuale di riferimento: una volta l’Urss, anche quando nel nome degli interessi della burocrazia sovietica si trattava di tradire la rivoluzione spagnola o la resistenza italiana; oggi, più modestamente, la Cina o il Venezuela di Chávez, anche quando questo significa tradire (in questo caso fortunatamente senza conseguenze dirette) la rivoluzione libica ed araba.

È la riprova, una volta di più, che la rottura con lo stalinismo e la sua scuola è la condizione necessaria per orientare la politica rivoluzionaria nel passaggio d’epoca che stiamo vivendo.

Marco Ferrando

27 febbraio 2011



Dal Sito del PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI


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