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lunedì 11 aprile 2011

GLI INTELLETTUALI E IL MARXISMO


di Amadeo Bordiga


Ieri


Nella diritta linea marxista stanno compiutamente insieme questi quattro punti a suo tempo e luogo tante volte sviluppati.

1. Il movimento proletario socialista non è in nessun modo un movimento di cultura e di educazione. Le possibilità di sviluppo del pensiero sono derivazione e conseguenza del migliore sviluppo di vita fisica e quindi verranno dopo la eliminazione dello sfruttamento economico. Gli appartenenti alle classi a basso tenore di vita per lottare non hanno bisogno di sapere, basta che si rivoltino all’affamamento. Capiranno dopo.

2. Il partito rivoluzionario di classe non rifiuta di accogliere nelle sue file come compagni e militanti qualificati individui delle classi economicamente superiori e di servirsi del loro migliore sviluppo intellettivo nella propria lotta, quando sono dei veri disertori del campo sociale avversario. In tutte le lotte di classe vittoriose, questa è stata una delle prime rotture del fronte controrivoluzionario, pur presentando inconvenienti crisi e ritorni nei casi singoli.

3. La classe proletaria, come ha bisogno per la sua vittoria della formazione del partito politico, ha necessità di chiarezza continuità e coerenza teoretica e dà alla difesa della dottrina di classe (non confondiamo con il termine coscienza, insidiosamente soggettivo e non collettivo, da regalare a posizioni conformiste e tradizionaliste con tanto altro ciarpame lessicale) un posto di primissimo ordine.

4. Il movimento comunista rivoluzionario annovera tra i suoi nemici peggiori, con i borghesi i capitalisti i padroni, e con i funzionari e giannizzeri delle varie gerarchie, i «pensatori» e gli «intellettuali» indiscriminati, esponenti della «scienza» e della «cultura», della «letteratura» o dell’ «arte» accampate come movimenti e processi generali al di fuori e al di sopra delle determinazioni sociali e della lotta storica delle classi. Qualunque sviamento da tali punti per evidenti ragioni viene in contrasto insanabile colle basi del marxismo e conduce alla degenerazione opportunista e alla disfatta della rivoluzione.

La deviazione dal primo punto conduce a ricadere nelle tendenze liberaldemocratiche col loro educazionismo del proletariato da parte della borghesia, che colla ricchezza monopolizza lo Stato la scuola la stampa e tutto il resto ai suoi fini di classe.

La deviazione dal secondo punto conduce al crudo operaismo, laburismo e sindacalismo puro, che condanna i proletari nei limiti di un economismo senza sbocchi e nega la lotta politica di partito, la conquista del potere rivoluzionaria, solo mezzo per superare il capitalismo.

La deviazione dal terzo punto conduce al revisionismo e al riformismo, all’opportunismo socialdemocratico, al politicantismo del giorno per giorno, al commercio dei principii, al cinismo del motto bernsteiniano: «il fine è nulla, il movimento è tutto» dove si sottintende la chiusa «per i bonzi».

La deviazione dal quarto punto conduce a tutte e tre le precedenti, ai saturnali del bloccardismo, conduce breviter al vomito anche uno stomaco d’acciaio.

Tali erano quelli di don Carlo e di don Federico che non potettero evitare, ai primordi del movimento operaio e negli sforzi iniziali per giungere a fondare partiti di proletari, al tempo della Lega dei Giusti e delle Alleanze universali, i contatti con alcuni di questi uomini di pensiero. Se ne rifecero largamente con eversioni critiche radicali fino ad essere feroci, e con sarcasmi spietati. Tra le cento citazioni che si potrebbero fare, in una lettera ad Engels, Marx, invidiandolo per non aver dovuto presenziare ad un convegno ove erano non pochi filosofi filantropi ed umanitari di tal risma, gli riferisce che, delegato ad estendere l’indirizzo finale, non aveva potuto sottrarsi a porvi le parole solite di Libertà, Umanità, Giustizia, Civiltà, Pensiero e via. Per scusarsi aggiunge: ho avuto cura di metterle nei passi ove, non significando assolutamente nulla, non potranno fare del male.

Non siamo mistici ed ammettiamo che per dovere di partito un marxista debba dire o scrivere una fesseria. Vi sono però due condizioni: la prima è che egli non vi creda, la seconda è che cerchi di non farvi credere gli altri. Pochi dei «leninisti» di oggi arrivano ancora alla prima condizione, ma essi e tutti gli altri sozii si schiaffano la seconda sotto i piedi venti volte al giorno.

Negli anni della grandissima Rivoluzione di Russia gli «intellettuali» naviganti nel cataclisma della guerra tra scuole filosofiche ed estetiche una più sciapa e decadente dell’altra, sentirono rumore, e facili come sono a girare sul loro asse si volsero ad Oriente. Sorse tra l’altro in Francia un movimento «Clarté» che raggruppava scrittori ed artisti simpatizzanti per il vittorioso (soprattutto perché vittorioso) bolscevismo. Era una chiarezza che non sapeva di dirittura nell’integrale adesione ad una dottrina e nella conversione radicale a nuovi principii, ma di vuoto «illuminismo» cerebrale riproducente dopo un secolo e mezzo quello borghese, che aveva però avuto il coraggio di precedere e di preparare, non di seguire col vago proposito di sfruttarla o sfuggirne i danni, una rivoluzione.

I compagni bolscevichi russi, marxisti dallo stomaco ma anche dalle teste di ferro, utilizzavano o si proposero di utilizzare anche questo sommuoversi nelle viscere di tutto un mondo nemico, ma non fecero di tutta quella gente, in parte sia pure brava gente ma nulla più, conto maggiore della loro indigena «intellighenzia» che conoscevano intus et in cute per averla vista a tutte le prove della storia e della lotta, volubile spesso, vile sempre, sfaldarsi successivamente nelle file di tutti gli antirivoluzionari in gamme più numerose dei colori dell’arcobaleno, liberali, populisti, contadinisti, anarcoidi e infine emigrati disfattisti oltre le varie frontiere.

Un ottimo compagno francese di non falsa coltura, Raymond Lefebvre, perito poi nel traversare l’Artico al ritorno, nel 1920 in Russia ricordava in molti comizi, a riprova del diffondersi del comunismo nel suo paese, che il partito nostro annoverava «les quatre plus forts tirages de France», i quattro scrittori le cui opere raggiungevano la più forte diffusione. Erano Henri Barbusse, George Duhamel, Anatole France (apriamo una eccezione per questo potente cervello che ha dato molte pagine veramente vibranti della eversione dai fondamenti di un mondo e delle sue dominanti ipocrisie), Romain Rolland. La cosa faceva effetto ed era detta in un bel francese, ma tra noi militanti marxisti non avevamo mai pensato di buttare giù la borghesia colla tiratura dei bouquins da centomila copie, ben altro occorre tirarle nelle corna. Sorridevamo: Raymond, forte e sincero, si arrabbiava.

Indescrivibile poi il sorriso e il lampo degli occhi di Lenin quando il discorso veniva su Massimo Gorki, che nella generale dégringolade degli intellettuali era rimasto coi bolscevichi, e a cui per la troppo grande notorietà mondiale, a parte la indiscussa buona fede, non si era potuta negare l’ospitalità la tessera e talvolta la parola, e si doveva rinunziare a fargli capire quando trattava i problemi sociali e politici quanto era fesso.





Oggi

Non vogliamo scrivere la storia dei movimenti politici provocati nel campo e con la accolta degli «intellettuali» delle varie attività e sponde. Troppo vi sarebbe da dire e sarebbe notevole trattare, a parte dal «mondo» artistico-letterario, quello non meno interessante della scienza e vedere come i contributi dei Gorki o dei Barbusse non siano gran che superati nel grado di sconsolante inconsistenza da quelli dei Joliot Curie e degli Einstein.

Manifesti di intellettuali ne fecero i guerraioli germanici nel 1914 per gridare con l'autorità di letterati musici poeti e pittori alla campagna antitedesca un famoso «es ist nicht wahr!». Ne fecero ahi di noi gli antifascisti italiani per fermare Mussolini e fu pensato come geniale ripiego per una riscossa dopo che non lo avevano fermato le Camere del Lavoro e i gruppi di operai armati. Il bilancio disastroso lo sappiamo tutti, alcuni dovettero ripiegare per non perdere cattedre e pagnotte, altri intristirono, inacidirono in una opposizione impotente e finirono politicamente di infessire. Caduto il fascismo sotto la non intellettuale pressione del tritolo e della melinite, vennero a galla, e si disse che finalmente l’Italia recuperava le forze della scienza del pensiero della tecnica più sane che la ganga fascista aveva buttato fuori. Come scienza pensiero lettere ed arte mai sono stati in circolazione tanti prodotti di scarto, e in questa epoca postfascista andiamo scendendo altre intiere rampe di scalini.

La ricetta della libertà di pensiero di scritto e di parola, e la menzogna della «imparzialità» di fronte alle varie opinioni del meccanismo pubblico, sono ulteriori condizioni di abbassamento, e siamo nel caso opposto della possanza anche dottrinale e scientifica che emanò dalla vittoria della rivoluzione totalitaria russa. Basti pensare a quelle pietose trasmissioni per radio della trattazione di problemi sociali o politici nel Convegno dei cinque in cui si esibiscono in enunciazioni timorose e in obiezioni castrate, sebbene acide di indigerita gelosia di mestiere, certi stenterelli che levati.

Ma dove si prepara e si inizia in pieno e grandissimo stile la mobilitazione mondiale delle forze del Pensiero è nel movimento contro il Patto Atlantico e nei Congressi della Pace.

Chiamando in soccorso gli artisti, il simbolismo viene in primo piano, e quello strano animale disegnato da Picasso offusca gravemente l’occhio incorporeo del vecchio Noè, che stropicciandoselo vigorosamente dall’altro mondo si chiede se non ha fatta una fotta grossa imbarcando nell’arca e poi avviando per i cieli placati l’originario, volgare, zoologico piccione.

Arte avvenirista. A suo tempo ci dettero addosso perché negavamo valore rivoluzionario al movimento futurista. Una forza del pensiero, affianchiamoli, dicevano i soliti abilissimi, che non sono certo stati inventati in Russia, brevetto Cominform. Sono sovvertitori come noi delle forme del passato; Lacerba di Papini osa persino definire il monumento al gran Re «un gran pisciatoio sormontato da un pompiere dorato»! Marinetti esalta la forza fisica e fa a botte coi contraddittori nei teatri e in piazza! Uniamoci a costoro! Non occorre ricordare come Papini tra frati e Marinetti tra camicie nere abbiano dato la misura dell’avanzatismo delle loro posizioni. Non hanno buttato giù nemmeno il monumento, sacro alla presente repubblica e alle sovrintendenze all’arte moderna.

Questo indirizzo di subordinamento e di insufflamento alla vanità degli intellettuali del mondo borghese, riassume e sintetizza spingendola al suo stadio più acuto la prostituzione della lotta di classe nell’aspetto teorico organizzativo e di azione.

Il manifesto o dichiarazione per le firme per la Pace, a parte il ricorso alla forma scioccamente legalitaria, viene vantato come opera di uno scrittore cattolico; e contiene la invocazione alla divinità. La stessa borghesia aveva posto un’antitesi fra l’attendere la salvezza da Dio o da liberali emanazioni della volontà dei popoli...

I brandelli della teoria e della coerenza si gettano fuori uno dopo l’altro come zavorra per salvarsi dal precipitare. Evidentemente, con questi ultimi lanci la zavorra è finita, e la navicella dell’opportunismo dovrà finire nella vergogna del naufragio. Una fine prossima più che non si potesse sperare sarebbe la non improbabile proclamazione del patto di amicizia internazionale e sociale colle forze della plutocrazia di Occidente, il degno amplesso dello sparviero imperialista colla colomba puttanella.

da «Battaglia Comunista», n.

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