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martedì 24 maggio 2011

Il socialismo africano: brevi spunti di riflessione, di Riccardo Achilli



Per socialismo africano si intende una serie di regimi e movimenti politici, che generalmente sono emersi o hanno preso il potere in occasione, o come risultato, della lotta di liberazione nazionale contro le potenze colonizzatrici. Tali movimenti, pur se accomunati dall'intento di costruire società socialiste, sono molto diversi tra loro, come risultato, in genere, di una forte personalizzazione attorno alla figura del leader carismatico che li ha ideati, delle specificità locali e e delle alleanze internazionali che tali leader realizzarono, o non realizzarono.
In questo brevissimo saggio, senza alcuna pretesa di dare una rappresentazione esaustiva di tutte queste esperienze (ciascuna delle quali meriterebbe un'analisi a sé, che peraltro chi scrive si ripromette di fare in futuro) si cerca di identificare, quando ci sono, le radici culturali e gli elementi generali comuni, nonché le specificità di alcune delle più significative esperienze storicamente realizzatesi.
Perché imbarcarsi in un simile argomento? Non per mera curiosità storica, ma per cercare di dare qualche elemento di ulteriore riflessione su come sistemi economici poverissimi e arretrati socialmente, dominati da logiche neo-imperialiste esterne, possano intraprendere strade socialiste pur in assenza di strutture produttive e sociali di tipo capitalista. E quali gli errori da evitare.
Vorrei subito delimitare il campo di questo breve saggio. Non parlerò dei regimi panarabisti dell'Egitto nasseriano o del Destour tunisino, né dell'Algeria o della Libia. In parte perché il discorso porterebbe troppo lontano, in parte perché è molto dibattuta la natura socialista di tali regimi. Con riferimento al nasserismo, l'ideologia panarabista adottata da Nasser fu, in effetti, associata a importanti tratti tipici di un regime socialista (nazionalizzazione – ma senza socializzazione – delle attività produttive, in una chiave anti imperialista, importanti programmi sociali a favore dei ceti meno agiati e delle donne, sostanziale rigetto di qualsiasi deriva teocratica, politica estera decisamente anti imperialista, ecc.).
Tuttavia, il panarabismo è una ideologia fondamentalmente innervata di nazionalismo (lo stesso Nasser, che non amava essere definito “socialista”, quanto piuttosto “nazionalista arabo”, strinse alleanze con movimenti nazionalisti arabi quali l'ANM), decisamente ostile al partito comunista egiziano (che sotto Nasser fu sottoposto a vere e proprie repressioni), e tendente a forme di compromessi opportunistici con l'economia capitalista (come mostra il caso algerino, ma anche quello tunisino, di politica delle porte aperte verso gli investimenti esteri). Inoltre, l'opportunismo si realizza anche nell'atteggiamento nei confronti della religione. Ad esempio, Nasser, pur da laico convinto, finanziò ricostruzioni di moschee. Bourguiba, altro esponente di spicco di questo “socialismo panarabo” mantenne l'islam come religione ufficiale dello Stato, e a partire dagli anni Settanta condusse politiche economiche decisamente liberiste, tramite il primo ministro Nouira.
Quanto alla Libia, a prescindere dalle belle parole del Libro Verde, la realtà è quella di un regime basato su una filosofia corporativistica nella sua cotruzione istituzionale e nei canali con i quali viene tenuta sotto controllo la società, e che non ha disdegnato avventure militari dal sapore imperialistico (attacco all'Egitto, lunga campagna militare in Ciad, per non parlare della sua partecipazione alla guerra del Congo). Analogamente, eviterò di parlare di regimi apertamente stalinisti, come quello di Siad Barre o quello di Menghistu (benché Palmeri inserisca Menghistu nel movimento socialista africano), o di leader che ad un certo punto del loro percorso politico adottarono il socialismo per mero opportunismo, come Sékou Touré o Nkrumah.

Alle radici del socialismo africano

Si possono individuare sia fattori politici che culturali, alla radice del socialismo africano. Sul versante politico, i modelli già realizzati all'epoca dell'avvio delle lotte nazionali per la decolonializzazione sono, da un lato, costituiti dai Paesi del patto di Varsavia, dall'altro dai Paesi socialisti non allineati, guidati da Iugoslavia e Cina, che con il loro richiamo a vie nazionali e specifiche al socialismo esercitano un grande fascino sui leader dei Paesi africani, che guidano realtà connotate da forti specificità locali e caratterizzate dalla necessità di trovare una via autonoma di sviluppo sociale ed economico, diversa da quella imposta esogenamente dalle potenze colonizzatrici. Come dice Thomas Sankara, “il colonialismo culturale è molto più insidioso di quello militare. E' meno costoso, più flessibile, più efficace. Se vogliamo trovare una nostra strada allo sviluppo, dobbiamo decolonizzarci culturalmente”. Ecco perché il richiamo a vie nazionali e specifiche al socialismo riceve, nell'Africa del periodo della decolonizzazione, una attenzione così grande. Implica la possibilità di evitare la trappola di “importare” modelli economico-sociali dall'esterno, il che sarebbe un ostacolo alla decolonizzazione delle menti, come richiamata da Sankara, e la possibilità di valorizzare le potenzialità endogene.
Le radici culturali sono più complesse da individuare con correttezza e, soprattutto, in modo esaustivo. Un ruolo è giocato sicuramente dal movimento culturale della “négritude”. La négritude è stato un movimento letterario, culturale e politico sviluppatosi negli anni Trenta, con epicentro a Parigi, e che coinvolse scrittori africani e afroamericani. Gli esponenti di questo movimento (fra cui Léopold Sédar Senghor, Aimé Césaire e Guy Tirolien) si proponevano di affrancare i propri popoli dal complesso di inferiorità imposto dai colonizzatori attraverso l'orgogliosa rivendicazione delle qualità peculiari della cultura nera (Senghor arrivò a contrapporre la razionalità ellenistica del mondo occidentale al sentimentalismo istintivo tipico della cultura africana). Nel 1935, nel terzo numero della rivista L'Etudiant Noir, Césaire rivendicava l'identità e la cultura nera contro quella francese, percepita come strumento di oppressione da parte dell'amministrazione coloniale. Sartre, politicamente di fede comunista, paragona la négritude al tentativo, non solo culturale ma anche politico, da parte dell'uomo nero, di risalire alla sua identità e dunque alla sua libertà. Si tratta quindi di un tentativo culturale, che non può disgiungersi dalla volontà politica di affrancarsi dal dominio coloniale francese.
La négritude venne successivamente criticata, perché ritenuta un subdolo modo per relegare in un ghetto culturale le specificità della cultura africana. Ma ebbe l'impareggiabile merito di riunire le élite intellettuali di quelli che sarebbero stati poi i futuri Stati africani indipendenti, fornendo loro la consapevolezza del ruolo che avrebbero poi giocato nel processo di indipendenza dei loro Paesi, e quindi contribuì non poco alla creazione di una classe dirigente (Césaire fu promotore dell'autonomia della Martinica, Senghor fu leader politico del Senegal, solo per fare alcuni esempi).
Va anche evitato l'argomento secondo il quale la négritude, nella sua ricerca di una identità culturale africana, costruisse artificiosamente tale identità, che in realtà non esiste, perché l'Africa è composta da una grande varietà di identità etniche e tribali diverse fra loro. Tale argomento, in linea di principio, non è erroneo, ma dimentica che l'esercizio di tirare fuori delle direttrici culturali comuni ad un intero continente è la precondizione affinché questo continente possa contare qualcosa nello scenario mondiale. A prescindere dalle grandi differenze culturali che ci contraddistinguono, noi europei abbiamo il sentimento di possedere un patrimonio culturale comune, costitutivo di un modello socio economico che ha reso l'Europa forte politicamente, e competitiva economicamente (e che peraltro le ha consentito di realizzare imperi coloniali, giustificati, agli occhi delle opinioni pubbliche, proprio da una pretesa superiorità del “modello europeo”). Senza un modello africano da contrapporre ai modelli europeo, nordamericano e asiatico, l'Africa sarà sempre la cenerentola del mondo.

Il socialismo africano: alcuni tratti

Proprio per la sua radice culturale di valorizzazione dell'identità africana, che risale agli anni parigini della négritude, il socialismo africano si distingue per avere al suo centro il rifiuto del sistema economico capitalistico portato dai colonizzatori, a favore del recupero di valori tradizionali africani, come il senso della comunità o della famiglia o la dignità del lavoro agricolo. In questo senso, il socialismo, in questi Paesi, venne spesso rappresentato come un elemento intrinseco dell'identità africana. Un documento che rappresenta in modo molto efficace la particolare natura del socialismo africano è la Dichiarazione di Arusha, scritta dal primo presidente della Tanzania indipendente, Julius Nyerere, nel 1967: “inerente nella Dichiarazione di Arusha c'è il rifiuto del concetto della grandezza di una nazione come cosa distinta dal benessere dei suoi cittadini; e il rifiuto, anche, del benessere materiale come fine. C'è l'impegno a credere che nella vita ci sono cose più importanti dell'ammassare ricchezza, e che se la ricerca della ricchezza entra in conflitto con cose come la dignità umana o l'uguaglianza sociale, queste ultime avranno la priorità”.
Il nucleo fondamentale del pensiero del socialismo africano, quindi, non risiede nella promessa di innalzare il tenore di vita degli strati oppressi della cittadinanza come obiettivo prioritario, o esclusivo. Piuttosto, assume rilevanza la creazione di un modello di vita comunitaria, dove, anche nell'assenza di tassi di crescita economica rapidissimi (priorità che era invece tipica dello stalinismo degli anni Trenta, e dei satelliti stalinisti dell'Europa dell'Est negli anni successivi alla seconda guerra mondiale), si esaltino ideali di eguaglianza, di relazionalità (ovvero ciò che Putnam chiamarebbe “capitale sociale”), di autonomia culturale. Ideali nei quali il singolo cittadino viene posto al centro dell'attenzione, evitando quindi approcci calati dall'alto, e valorizzando le istanze dei singoli. Si possono quindi enucleare quattro elementi distintitivi di fondo del socialismo africano:
- recupero di un modello culturale, sociale ed economico autonomo, e radicale rifiuto di schemi di sviluppo tipici dell'occidente, o comunque percepiti come esogeni;
- nella costruzione di modelli di sviluppo, valorizzazione degli aspetti, per così dire, di sovrastruttura, rispetto alle questioni più direttamente legate ai rapporti sociali di produzione;
- coinvolgimento dal basso delle popolazioni nella progettazione dello sviluppo;
- panafricanismo, ovvero una visione politica mirata a unire gli interessi politici delle varie nazioni africane, nel tentativo di superare quella balcanizzazione tribale ed etnica che è da sempre un tragico punto di debolezza dell'Africa.
Con riferimento ai primi due aspetti, si tratta, ovviamente, di differenze di non poco conto rispetto all'approccio marxista, che si basa su modelli e linee-guida precisamente descritti ed elaborati, e sulla prevalenza della struttura produttiva rispetto alla sovrastruttura. Con riferimento al terzo punto, invece, va sottolineato che il panafricanismo non è, in genere, innervato di nazionalismo come il panarabismo, poiché è concepito in chiave federalista e rispettosa delle autonomie di ciascun Paese e gruppo etnico. E' quindi un concetto strumentale a costruire una maggiore forza negoziale dell'Africa nell'agone politico ed economico mondiale. Analizziamo in estrema sintesi, e senza pretesa di esaustività rispetto alle numerosissime esperienze di socialismo condotte in quel grande laboratorio a cielo aperto che è l'Africa, alcuni casi di spicco, iniziando proprio da uno degli ispiratori culturali della négritude, ovvero Senghor.

Léopold Senghor e la politica culturale

Grande uomo di cultura ed ambiguo politico, che alcuni stentano a definire socialista, Senghor fece del Senegal un caso di studio di uno sviluppo basato su una politica culturale di recupero e valorizzazione dell'identità locale. Léopold Sédar Senghor pone la cultura come fondamento della sua politica ed è un "intellettuale pubblico", come lo definisce Sidney Littlefield Kasfir. Per Senghor lo sviluppo dell’Africa è inscindibile dalla valorizzazione della arti africane; queste infatti possono sostenere la nascita di un forte sentimento nazionale e panafricano, permettere di esportare un’immagine positiva della ricchezza del continente e mostrare al mondo come l’Africa non sia stata solo influenzata dall’Europa, ma l’abbia a sua volta influenzata. In questo senso, quindi, egli si adopera per costruire quel modello africano da contrapporre al modello occidentale, che è la precondizione per un'Africa che conti qualcosa nello scenario globale.
Nonostante il budget destinato specificatamente alla cultura non sia mai stato particolarmente elevato, negli anni Sessanta e Settanta vengono create nuove strutture amministrative (il Servizio degli Archivi Culturali ed il Centro di Studi delle Civilizzazioni, la legge per la decorazione degli edifici pubblici nel 1968, l’Ufficio dei Diritti d’Autore nel 1972 e 1973, il Commissariato per le Esposizioni d’Arte nel 1977 , il fondo d’assistenza per gli artisti e per lo sviluppo della cultura nel 1978 e le borse di studio), vengono allestite numerose esposizioni (il Festival Mondial des Arts Nègres nel 1966, le esposizioni itineranti iniziate nel 1974, le esposizioni di grandi artisti occidentali in Senegal tra le quali la mostra di Pablo Picasso del 1972 e le esposizioni di artisti senegalesi), sono costruite infrastrutture (il Teatro Nazionale Daniel Sorano nel 1965, il Museo Dynamique nel 1966 e la Cité des Artistes Plasticiens a Colorane nel 1979) e sono fondate istituzioni (le Manufactures Sénégalaises des Arts Décoratifs (MSAD), la casa editrice Nouvelles Editions Africaines (NEA) nel 1972, l’Istituto Islamico di Dakar nel 1974, la Fondazione Léopold Sédar Senghor nel 1974, ed i Centri Culturali Regionali, scuole (Ecole des Arts du Sénégal nel 1961 e l’Université des Mutants de Gorée per il dialogo tra culture nel 1979), musei (il Museo Dynamique nel 1966 ed il Museo Regionale di Thiès nel 1975).
Accanto alla politica culturale, egli è tenace panafricanista. Promuove una federazione dell'Africa occidentale all'indomani della decolonializzazione, poi una federazione fra Senegal e Mali, che però si spezza nel 1960, anche a causa del carattere dispotico di Senghor.
Anche il tentativo di Senghor di creare un modello culturale senegalese che potesse essere esteso a tutta l'Africa fallisce per la sua innata propensione al dirigismo. Gli artisti sono infatti valutati e sostenuti in base alla loro aderenza ai principi del presidente e della Negritudine, non in base alla loro originalità o alla qualità delle loro opere. L’arte dell’Ecole de Dakar – con l’eccezione di alcuni protagonisti particolarmente creativi – diviene col tempo sempre più ripetitiva e sempre più sterile, cadendo nel decorativismo. Le stesse ambiguità di Senghor, che, mentre promuove lo sviluppo di un modello culturale africano autonomo, è anche sostenitore tenace dell'uso della francofonia, e della prosecuzione di un controllo post coloniale francese nell'Africa occidentale, contribuiscono ad impedire al Senegal, ed in generale all'Africa occidentale, di uscire realmente dal controllo culturale delle ex potenze colonizzatrici.

Julius Nyerere ed il socialismo rurale

In Tanzania, Nyerere intraprese un progetto di sviluppo di stampo socialista, annunciato con la Dichiarazione di Arusha del 1967: elemento caratterizzante di questo documento che rappresenta il fondamento del socialismo africano fu il processo di collettivizzazione del sistema agricolo del paese, cosiddetto Ujamaa. Nyerere riponeva completa fiducia nelle popolazioni contadine dell'Africa, nei loro valori e modi di vita tradizionali. Riteneva che la vita del paese dovesse organizzarsi intorno all'Ujamaa, o "famiglia estesa", fondata proprio su quei valori tradizionali già presenti nei villaggi originari esistenti prima della colonizzazione imperialista. Il ritorno ai costumi e ai metodi di vita e di economia preesistenti all'ingresso del capitalismo nel paese avrebbe condotto, secondo Nyerere, allo stato ideale.
Ecco cosa dice Nyerere a tal proposito: “il villaggio ujamaa è una nuova concezione, basata sulla comprensione del fatto che dobbiamo sviluppare le persone, e non le cose, e che le persone possono soltanto svilupparsi da sè...I villaggi ujamaa sono concepiti come organizzazioni socialiste create dalla gente, e governate da coloro che vivono e lavorano al loro interno. Non possono essere creati dall'esterno, né governati dall'esterno. Nessuno può essere costretto a partecipare ad un ujamaa, e nessun funzionario – a nessun livello – può andare a dire ai componenti di un ujamaa cosa dovrebbero fare insieme...Un gruppo di persone deve decidere autonomamente se avviare un villaggio ujamaa perché ha capito che solo tramite questo metodo possono vivere e svilupparsi con dignità e libertà, ricevendo pieni benefici dal loro comportamento cooperativo”.
In questo progetto è condensata l'essenza stessa della concezione socialista africana:
il capitale sociale (nella definizione di Putnam, ovvero un reticolo di relazioni cooperative e di fiducia nell'ambito degli individui che compongono una comunità locale) è visto come elemento centrale, prioritario anche rispetto alle considerazioni di carattere tecnico-produttivistico ed economico (anche se naturalmente il progetto delle ujamaa era legato alla necessità di raggiungere l'autosufficienza alimentare nelle comunità rurali del Paese);
lo sviluppo parte dal basso, valorizzando identità e tradizioni culturali preesistenti al colonialismo, di cui vengono respinti i modelli e le “terapie” convenzionali, perché non radicati nelle specificità locali;
i modelli non vengono imposti, ma si fa leva sulla volontarietà degli individui.
Il progetto fallì, soprattutto per cause esterne (l'esplosione della crisi petrolifera dei primi anni Settanta, la feroce politica di boicottaggio condotta da FMI e Banca Mondiale, l'esplosione della guerra con l'Uganda, probabilmente provocata proprio per far fallire l'esperimento), ma anche per le resistenze dei piccoli proprietari ad associarsi, e per l'imperizia nella gestione delle cooperative agricole: nel 1979, gli ujamaa contenevano il 90% della popolazione rurale del Paese, ma producevano solo il 5% dell'output agricolo nazionale. Parte di tale inefficienza è da attribuirsi ad un atteggiamento sempre più autoritario di Nyerere, che finì per costringere la gente a andare nelle ujamaa, abbandonando gli intenti volontaristici iniziali. Ciò però pregiudicò quello spirito volontaristico e cooperativo che avrebbe dovuto assicurare il successo, anche produttivo, delle comuni rurali.

Thomas Sankara e la lotta alla povertà

Leader politico di uno dei Paesi più poveri del mondo, ovvero l'Alto Volta (da lui rinominato Burkina Faso), il Che Guevara africano, come fu ribattezzato, si concentrò nella lotta alla povertà, tramite una estensiva battaglia a tutto ciò che comportava una distorta distribuzione del reddito nazionale (come la corruzione o i privilegi tribali) o ostacolare la progressione sociale delle classi più povere della società (come l'assenza di beni pubblici fondamentali, quali la sanità e l'istruzione, che inducono il persistere di diseguaglianze nelle opportunità sociali). Dichiarò: “parlo in nome delle madri che nei nostri Paesi impoveriti vedono i propri figli morire di malaria o di diarrea, senza sapere dei semplici mezzi che la scienza delle multinazionali non offre loro, preferendo investire nei laboratori cosmetici o nella chirurgia plastica a beneficio del capriccio di pochi uomini e donne il cui fascino è minacciato dagli eccessi di assunzione calorica nei loro pasti, così abbondanti e regolari da dare le vertigini a noi del Sahel”.
Per combattere la povertà, la malnutrizione e l'assenza di cure sanitarie lottò contro la corruzione, promosse la riforestazione, l'accesso all'acqua potabile per tutti, e fece dell'educazione e della salute le priorità del suo governo.Soppresse molti dei privilegi detenuti sia dai capi tribali, sia dai politici, e attraverso dichiarazioni e gesti molto chiari, applicò con grande coerenza le sue idee. Ad esempio:
- il suo governo incluse un grande numero di donne, condannò l'infibulazione e la poligamia, promosse la contraccezione. Fu il primo governo africano a dichiarare che l'AIDS era la più grande minaccia per l'Africa;
- fece costruire centri sanitari in ogni villaggio burkinabé (l’Unicef definì la campagna di vaccinazione effettuata sui bambini, la più grande registrata nel mondo) e cantieri per opere idrauliche, creando un Ministero dell’Acqua;
- vendette la maggior parte delle Mercedes in forza al governo e proclamò l'economica Renault 5, l'automobile ufficiale dei ministri;
- volle realizzare la "ferrovia del Sahel", una linea che collega Ouagadougou al confine con il Niger, nonostante molti economisti non lo ritenessero un progetto redditizio. Tale opera, successivamente ampliata, costituisce tuttora la principale via di comunicazione del Paese.
Convinto, nel solco del socialismo africano, dell'importanza di far avanzare dal basso la rivoluzione, creò i CDR (comités de défense de la révolution), ai quali tutti i cittadini dell'area di competenza potevano partecipare, e che avevano il compito di gestire le questioni locali, ma soprattutto i progetti di autosufficienza alimentare e di sviluppo di interesse locale. Tali comitati territoriali di base erano coordinati, ma soltanto in una mera ottica di supporto tecnico e finanziario, dal CNR (conseil national de la révolution).
Fu anch'egli un convinto panafricanista. E il suo panafricanismo è il più chiaro esempio di un progetto che non era venato da nazionalismo, ma molto più semplicemente dall'ottica di rafforzare la possibilità dell'Africa di far valere le sue rivendicazioni internazionali. In un discorso tenuto ad Addis Abeba, suggerì l'istituzione di un nuovo fronte economico africano che si potesse contrapporre a quello europeo e statunitense, con l'obiettivo di cancellare il debito estero che strangola le possibilità di sviluppo dei Paesi africani.
Nel suo caso, le politiche che condusse non furono un fallimento ma, anzi, uno straordinario successo. La malnutrizione, la sete (tramite la costruzione di pozzi da parte dei CDR si ottenne l'obiettivo di garantire 10 litri di acqua al giorno per abitante), le malattie e l'analfabetismo (che passò dal 95% all'80% per gli uomini) si ridussero. Tanti furono i successi che le potenze imperialistiche tentarono più volte di rovesciarlo, con i governi filo francesi di Costa d'Avorio e Mali che più volte lanciarono operazioni militari contro il Burkina Faso.  Nel 1987 verrà assassinato durante un colpo di Stato militare, nel quale il Governo francese, ai tempi guidato da Mitterrand, è molto probabilmente implicato.

Kenneth Kaunda e l'umanesimo zambiano
Figura controversa, che associò elementi tipicamente stalinisti (un esasperato culto della personalità, una politica economica basata sulla nazionalizzazione dell'industria mineraria e la pianificazione quinquennale centralizzata) ad elementi tipici del socialismo africano (compendiati nello slogan “umanesimo zambiano”, e basati sulle tradizioni culturali africane, in particolare aiuto reciproco, fiducia, amore per la comunità) che portarono allo sviluppo di progetti dal basso simili alle comunità rurali di Nyerere ed a progetti locali di alfabetizzazione della popolazione, oltre che a vasti programmi di sussidi economici sui beni alimentari primari e sui fertilizzanti a favore dei piccoli contadini, Kaunda governò con pugno di ferro lo Zambia fra il 1964 ed il 1991.
L'inefficienza e la rigidità del sistema di pianificazione centralizzato, che portò ad una drastica caduta di produttività nell'industria mineraria, principale risorsa economica del Paese, l'enorme spreco di risorse in programmi mal gestiti di sviluppo dal basso, aggravati da una dilagante corruzione e dalla necessità di mantenere in piedi un apparato repressivo imponente, si combinarono con la caduta del prezzo internazionale del rame, principale voce dell'export zambiano. Con il risultato che l'esperienza di Kaunda, bizzarra combinazione mal concepita fra stalinismo e socialismo africano, fallì disastrosamente sotto il profilo economico, consegnando il Paese al FMI ed alle sue terapie neo liberiste. Si tratta forse del più terribile fallimento fra tutte le esperienze di socialismo africano.

Che lezioni trarne?

La carrellata qui presentata è largamente incompleta, però vale, a parere di chi scrive, per evidenziare alcuni aspetti di tipo generale. In particolare:
- il socialismo africano differisce, per molti aspetti, dagli elementi tipici del marxismo, poiché agli aspetti produttivi strutturali antepone aspetti sovrastrutturali di tipo culturale (esaltando in particolare una identità culturale e di relazioni sociali genuinamente africana, che questa sia reale o, in molti casi, come nel Senegal di Senghor, artificiosamente costruita);
- ciò nonostante, come mostrano l'esempio di successo di Sankara, e gli insuccessi di Senghor e Nyerere, i risultati arrivano quando ci si concentra sugli aspetti economici e produttivi, e non su quelli sovrastrutturali. In particolare, il successo arriva utilizzando approcci allo sviluppo produttivo che partono dal basso, e che utilizzano un metodo pragmatico, senza preoccuparsi eccessivamente di creare modelli ex ante, in nome di una più o meno presunta coerenza con aspetti culturali tradizionali. Sankara ha favorito la creazione dal basso dei CDR, realizzatisi su base volontaristica e flessibile, per risolvere problemi economici concreti delle comunità locali. Nyerere ha invece cercato di creare un modello idealizzato di comunità rurale, anche con una certa dose di utopismo nella ricerca di un collegamento con le tradizioni comunitarie del suo popolo. Senghor ha addirittura trascurato gli aspetti produttivi, concentrandosi su quelli sovrastrutturali;
- gli insuccessi sono venuti da una scarsa coerenza interna nella teoria sottostante: come mostra l'insuccesso di Kaunda, il tentativo pasticciato di mettere insieme elementi teorici stalinisti e di socialismo africano ha prodotto una combinazione ingestibile, che ha scontato gli aspetti peggiori di entrambi i modelli;
- gli insuccessi sono venuti anche da una incoerenza fra teoria sottostante e decisioni politiche effettivamente adottate. Come mostra il caso di Nyerere, l'incoerenza fra una teoria che voleva indurre volontariamente i produttori agricoli ad associarsi nei villaggi rurali e concreti atti politici che in molti casi hanno costretto le comunità agricole ad aggregarsi nelle ujamaa, ha impedito che si creasse quello spirito comunitario e cooperativo che avrebbe dovuto garantire il successo dell'esperimento. Senghor, dal canto suo, si muoveva con una teoria che mirava a recuperare l'identità culturale del suo popolo, ma lo fece con metodi coercitivi e rigidamente ortodossi, che finirono per realizzare il modello culturale che aveva nella sua testa, ma non quello realmente rappresentativo di una libera manifestazione culturale popolare.

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