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lunedì 23 maggio 2011

L'internazionale di Mao...?di Onorato Damen

Col crollo della III Internazionale Comunista, i partiti che si richiamano al proletariato hanno cessato di fatto di avere legami internazionali, ancorati saldamente agli interessi di classe e nel cuore delle masse operaie. La IV Internazionale, sorta per iniziativa di Trotzky, per il modo come è nata e si è sviluppata, non ha mai rappresentato una seria possibilità per la costruzione dl una vitale organizzazione rivoluzionaria e doveva finire, come è finita, ingloriosamente perché concepita in una fase di deflusso del moto operaio e, quel che è peggio, sotto la spinta di necessità contingenti in cui erano prevalenti i motivi d’una polemica che non investiva i problemi fondamentali determinati da una svolta della storia, ma si perdeva nelle strette di una problematica russa incapace di saldarsi ad una esigenza della lotta internazionale dei lavoratori. Le vicende ulteriori del trotzkismo hanno dimostrato come sia impossibile ed inutile dar vita ad organizzazioni internazionali se non è in atto una vasta e profonda ripresa del conflitto di classe. Anche questo ha insegnato il trotzkismo, che il ripetersi di tentativi del genere finisce per creare organismi privi di vita e di avvenire, destinati a vivacchiare stentatamente, a far da greppia al funzionarismo più deteriore e in definitiva a generare disorientamenti e sfiducia tra le masse lavoratrici.
Nella eventualità, non impossibile, che il dissidio Russia-Cina tenda a radicalizzarsi, perché non trattasi di dissidio di ideologia, ma di contrasti di interessi e di politica di potere, è legge politica che debba tradursi sul piano organizzativo col formarsi, ciò che attualmente è ancora allo stato potenziale, di un nuovo centro di potere nello schieramento delle forze internazionali che pretendono richiamarsi alla classe lavoratrice.
E si avrebbe così una nuova Internazionale, quella di Mao, che farebbe seguito a quella tentata da Trotzky. Se non altro, con tutti i suoi errori e i suoi limiti, la IV Internazionale aveva alla sua testa, all’atto della sua costituzione, l’uomo che, a fianco a Lenin, aveva avuto un ruolo fondamentale e determinante nella Rivoluzione d’Ottobre e portava con sé le ragioni ideali e l’immensa vitalità e suggestione d’una opposizione rivoluzionaria che sotto molti rapporti rappresentava la continuazione d’Ottobre.
In prospettiva, dunque, l’ipotesi di un nuovo centro di potere che si trasformerà di fatto in un nuovo centro di confusione. Perché? Perché non vi può essere organizzazione internazionale di classe se non è espressa da una profonda lacerazione rivoluzionaria del tessuto della società capitalista e se da tale lacerazione non si è strutturata una società socialista, garantita dall’esercizio della dittatura di classe del proletariato. Ma nella Cina di Mao non vi è stata rivoluzione proletaria, non vi era ancora una vera e propria economia capitalista e la stessa rivoluzione agraria deve ancora uscire, per buona parte, dalla fase della produzione pre-capitalista.
La «grande marcia» trovò il suo presupposto in una istanza nazionalistica fatta di sentimenti nazionali offesi dal tradimento del Kuomintang che si era fatto strumento delle classi feudali. Mao-Tsè-tung ha fatto leva su questo spontaneo sentimento popolare, ha operato nelle campagne con la tecnica del moto partigiano inserendosi profondamente e concretamente nella società contadina in crisi, chiamandola alla duplice lotta per la liberazione nazionale contro l’invasore straniero e dall’oppressione dei feudatari interni. Non sono questi i segni caratteristici propri della rivoluzione nazionale borghese?
E allorché Mao si troverà a dover ricostruire l’organismo dello Stato lo farà col suo empirismo metodologico piegando alle esigenze «nazionali», alla realtà di una economia arretrata, un marxismo spurio, per una via a cinese» al socialismo.
Si ha in una parola una strumenta-alone presa a prestito dallo stalinismo e adattata sul suolo cinese con metodi e finalità che si identificano con lo sforzo, certo notevole, di portare fino in fondo la rivoluzione borghese corredata da una teologia di osservanza comunista, tolta, in quanto a tecnica e terminologia, dall’arsenale dello stalinismo più deteriore e si avrà la fugace apparizione delle «comuni agricole» sorte per disposizione dall’alto, nel quadro di una economia tesa nello sforzo della costruzione del capitalismo di Stato. Una edizione, quindi, sotto molti rapporti peggiorata in confronto a quella offertaci dall’esperienza russa. E quando Mao parlerà in termini di internazionalismo proletario, state certi che lo farà avendo sulle labbra i termini della dialettica marxista, ma nel cuore la «grande armonia» intonata alla filosofia confuciana come sintesi delle contraddizioni che vivono nel seno della immensa società cinese. Chi non ricorda, in funzione di questa «grande armonia», la sua dottrina delle «diverse scuole», la dialettica liberale dei «cento fiori?».
Quel che è certo, comunque, è che una internazionale rivoluzionaria, la nuova internazionale per la quale noi marxisti ci battiamo, non potrà mai nascere ed aver vita da una realtà storica in cui si agitano interessi propri dell’economia capitalista, lo sfruttamento del lavoro, la politica di potere e di dominio imperialista e la guerra. Questo è il caso della Cina di Mao, Il nuovo centro di potere dopo la Russia e l’America.

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