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martedì 17 maggio 2011

ll neo capitalismo alle prese con le sue nuove contraddizioni di Riccardo Achilli



I termini della questione

Il capitalismo ha imboccato, negli ultimi decenni, l'ennesimo cambiamento radicale del suo modo di funzionare, dimostrando ulteriormente la sua natura versatile e cangiante, in grado di adattarsi costantemente alle opportunità di riportare verso l'alto la curva dell'andamento temporale delsaggio di profitto. Che si aderisca o meno alle tesi dei neo marxisti, già da 20 anni autori come Minsky, Baran e Sweezy avevano chiaramente identificato i movimenti di fondo del capitalismo e le sue emergenti contraddizioni, che ben si leggono nell'attuale recessione. In uno dei suoi ultimi articoli, del 1997, Paul Sweezy identificò le tre caratteristiche emergenti del capitalismo, ovvero:
la crescente finanziarizzazione del sistema, da intendersi come lo spostamento progressivo della creazione del valore aggiunto, nelle economie capitaliste mature, dalle attività indutriali all'intermediazione finanziaria;
la crescita del potere monopolistico sui mercati, ovvero la progressiva tendenza alla concentrazione della produzione in un numero sempre minore di unità produttive, sempre più grandi, in grado di acquisire il potere di influire sui prezzi e sulle quantità che si determinano sul mercato. Tali imprese sempre più grandi sono spontaneamente tendenti a formare tra loro cartelli ed accordi oligopolistici, che suddividono tra i partecipenti la rendita oligopolistica risultante dalla riduzione della concorrenza (è noto che la concorrenza tende a ridurre i profitti, fino ad azzerarli nel modello teorico della concorrenza perfetta), determinando, per ogni partecipante al cartello, i livelli produttivi (e di conseguenza i prezzi, data una certa domanda) e le quote di mercato rispettive;
la tendenza alla stagnazione della crescita nelle economie mature.
Questi tre processi sono facilmente dimostrabili dall'evidenza statistica. Fra 2000 e 2009, il valore complessivo degli asset finanziari dei fondi di investimento operanti nei Paesi dell'area Ocse è cresciuto del 90%, ben al di sopra della crescita della produzione industriale negli stessi Paesi dell'area Ocse1, che fra 2000 ed il suo picco, raggiunto nel 2007, cresce appena del 13%, per poi diminuire del 14,1% fra 2007 e 2009. quindi, nel complesso del periodo 2000-2009, nelle economie mature, il valore della produzione delle imprese finanziarie quasi raddoppia, mentre il valore della produzione delle imprese industriali diminuisce di circa un punto percentuale.
Quanto al secondo punto, ovvero la crescente concentrazione oligopolistica, uno studio sugli Stati Uniti (http://finance.morenewsnow.com/2011/04/02/us-values-profits-over-jobs-unlike-competition/ 2011) mostra come i profitti lordi conseguiti dalle 200 più grandi compagnie industriali statunitensi passano da una quota del 13% del totale dei profitti dell'industria nel 1950 ad una del 30% nel 2007. Anche in Italia, patria della piccola impresa e dei distretti industriali, un recente studio (Istituto Tagliacarne, 2010) mostra che nell'industria italiana si è verificato un processo di concentrazione molto rapido negli anni novanta: infatti, in quegli anni, il valore aggiunto industriale cresce ad un tasso medio annuo del 4%, a fronte di una riduzione media annua del numero di imprese industriali pari a (-0,2%). Anche fra 2001 e 2006, sia pur ad un ritmo ridotto, tale processo di concentrazione prosegue: infatti, il valore aggiunto industriale cresce ad un tasso medio annuo dell'1,7%, mentre il numero di imprese si riduce ad un tasso medio annuo pari a (-0,8%). Non deve ingannare la ridottissima dimensione media delle imprese italiane (che nel comparto dell'industria e dei servizi non supera i 4 addetti/unità produttiva). Il pulviscolo di piccole e piccolissime imprese che caratterizza il nostro panorama produttivo è in realtà in una posizione subordinata, nella catena del valore, rispetto alla grende impresa, che si colloca a valle delle filiere produttive, e che quindi tende a spostare a suo favore la distribuzione del profitto lungo la catena del valore, relegando le piccole e piccolissime imprese contoterziste e subfornitrici in una posizione di estrema debolezza e declinante redditività.
Quanto alla tendenza delle economie capitaliste mature verso la stagnazione, va evidenziato che, a livello di area Ocse, il PIL in termini reali (cioè il volume effettivo di beni e servizi prodotti, al netto dell'effetto derivante dai prezzi) è cresciuto del 36,4% fra 1980 e 1990, per poi rallentare ad una crescita totale del 31,5% fra 1990 e 2000, e rallentare ulteriormente ad una crescita del 17,2% fra 2000 e 2010. Tale tendenza alla stagnazione è il naturale riflesso della contrazione del saggio di profitto nel medio-lungo periodo, che comporta un rallentamento dell'accumulazione (mediante una minore crescita degli investimenti in capitale fisso) e quindi della riproduzione allargata.

Le nascenti contraddizioni interne dell'economia capitalista

Quali contraddizioni strutturali nel funzionamento dei meccanismi capitalistici comportano queste tre tendenze sopra analizzate? Abbiamo detto che una crescente finanziarizzazione dell'economia che convive con la stagnazione del suo comparto reale, alimentata da un gigantesco differenziale di rendimento fra investimenti nel settore reale e in quello finanziario, si accompagna, nelle economie mature, alla crescente concentrazione oligarchica delle imprese, generando un crescente surplus da oligopolisti che a sua volta spinge verso ulteriori investimenti finanziari, a scapito di quelli reali (semplicemente perché è più conveniente investire sui mercati finanziari che sullo sviluppo della produzione reale di beni e servizi). Il gap di investimenti reali causa una cronica sottoccupazione dei fattori produttivi, una tendenza alla stagnazione e di conseguenza una crescente sperequazione nella distribuzione del reddito. Vale infatti la pena di evidenziare che, come già ci avvertiva la Forrester nel suo ottimo libro “L'Orrore Economico” del 1997, l'esercito di riserva dei disoccupati aumenta a livello mondiale. La crescente concentrazione degli investimenti nel comparto finanziario dell'economia, che necessita, per funzionare, di un numero ridottissimo di occupati altamente specializzati, ed il disinvestimento conseguente dai comparti reali dell'economia, maggiormente “labour intensive”, comporta che, nell'area Ocse, il numero dei disoccupati passa dai 31,87 milioni del 2000, ai 35,93 del 2005, fino ai 46,66 milioni nel 2010. E' importante notare come tale crescita del numero dei disoccupati non sia legata a fasi recessive del ciclo economico globale, ma sia strutturale, anche se, di anno in anno, ha delle oscillazioni di breve periodo.
La tendenza delle economie capitaliste mature alla stagnazione è accentuata dalle ricorsive crisi globali originate sui mercati finanziari e poi rapidamente trasmesse, tramite la cinghia di trasmissione del rallentamento del credito bancario a famiglie ed imprese, anche al settore reale dell'economia. Tali fasi recessive evvengono con una certa regolarità temporale (negli ultimi 20 anni ve ne sono state almeno quattro; nel 1990-93; nel 1997-99; nel 2001-03 e nel 2008-2010) che avvengono secondo modelli abbastanza standardizzati, così sintetizzabili:
- recessione breve di Kitchin, basata sulle variazioni delle scorte e avente durata breve, da 9 a 18 mesi, e che si verifica al massimo ogni 2,5-3 anni;
- recessione media di Juglar, basata sulle variazioni del credito e delle riserve bancarie, di 20-36 mesi di durata, e che si verifica al massimo ogni 5-6 anni;
- recessione lunga di Kondratiev, di durata nettamente maggiore.
I meccanismi di breve periodo che presiedono all'esplosione di una recessione di origine finanziaria sono illustrati dall'ipotesi di Minsky. Secondo tale ipotesi, in periodi di espansione, quando il flusso di cassa delle imprese supera la quota necessaria per pagare i debiti, si sviluppa un'euforia speculativa. All'origine delle crisi vi è un displacement, cioè uno "spostamento", che altro non sarebbe che un evento esterno rispetto al sistema macroeconomico, che spinge i soggetti a credere che vi saranno forti rialzi nel valore delle attività (siano queste reali o finanziarie). Ne consegue un'espansione creditizia, che alimenta ulteriormente l'euforia. Nel momento in cui ci si rende conto che l'espansione dei prezzi è terminata, inizia la corsa alla vendita, che può portare al panico sui mercati, e ad effetti negativi anche sull'economia reale, che impoveriscono i piccoli risparmiatori e chi, nella fase di euforia del mercato, si è indebitato per acquistare beni durevoli (il cui valore precipita nel momento della recessione).
La crisi del comparto reale dell'economia accentua la tendenza strutturale della divisione internazionale del lavoro a spostare le attività industriali nei Paesi emergenti caratterizzati da alta competitività di costo, generando ulteriori spinte verso la riduzione del welfare, e quindi l'impoverimento di ampie fasce della popolazione, nelle economie mature, giustificate dall'esigenza di stare al passo con la competitività di prezzo dei Bric. La contrazione della spesa pubblica nei sistemi di welfare è quindi mirata a ridurre la quota del costo del lavoro destinata a cofinanziare il welfare stesso (ovvero i contributi sociali a carico dei datori di lavoro). In conseguenza di ciò, aumentano le diseguaglianze distributive: l'indice del Gini mostra un incremento delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito nella popolazione in età lavorativa (18-65 anni) in tutta l'area Ocse. Si passa da un valore di 0,29 a metà degli anni ottanta ad uno di 0,31 a metà degli anni duemila. Particolarmente rapida la crescita della sperequazione nella distribuzione dei redditi in alcuni Paesi, come l'Italia, che nel periodo considerato vede l'indice del Gini crescere da 0,31 a 0,35, valore che segnala un'ampiezza delle ingiustizie distributive superiore alla media Ocse, e solo di poco inferiore a quella di un Paese notoriamente caratterizzato da grosse differenze fra ricchi e poveri, come gli USA (il cui indice ha un valore di 0,38).
D'atra parte, mentre le economie mature smantellano progressivamente i loro sistemi di stato sociale per rincorrere la competitività di prezzo delle economie Bric, queste ultime spendono parte del surplus generato dalle loro esportazioni industriali nelle economie mature in ulteriori investimenti finanziari: secondo uno studio dettagliato del Congressional Research Service (CRS) (30 Luglio 2009), la Cina possiede un quantitativo enorme di buoni del Tesoro a lungo termine emanati dal governo USA, stimati per oltre 1.2 trilioni di dollari.
Questo sistema genera una pluralità di contraddizioni, così sintetizzabili:
i crescenti conflitti produttori/consumatori e produttori/produttori innescati dai processi di concentrazione oligopolistica dell'offerta;
i conflitti sociali generati dall'impoverimento delle popolazioni e dal conseguente calo dei consumi;
l'acuirsi delle ricorrenti crisi da sovrapproduzione derivanti dal sopra richiamato rallentamento dei consumi, che potrebbero sovrapporsi a crisi competitive derivanti dal calo della produttività di un lavoro sempre più impoverito e sfruttato;
il rallentamento della crescita economica delle economie Bric “export oriented”, indotta, in una logica di globalizzazione dei mercati, proprio dal rallentamento dei consumi delle economie mature, che potrebbe avere effetti devastanti sia sulle capacità esportative delle economie mature, sia sul loro debito pubblico e sui loro mercati finanziari;
un dissesto ambientale globale derivante dall'acuirsi della competizione fra economie mature e Bric. Tale competizione più feroce sarebbe causata proprio dall'emergere delle contraddizioni di cui sopra.
Proviamo di seguito ad analizzare in maggior dettaglio tali possibili contraddizioni.
La concentrazione oligopolistica assegna il potere economico ad un numero sempre più ristretto di mani .Ciò crea scontento nei ceti medi produttivi, sempre più emarginati dalle decisioni, e crea conflitti fra imprese, che sfruttano la loro rendita oligopolistica, e consumatori: la ricorrente battaglia delle associazioni dei consumatori contro i rincari sistematici dei prezzi dei carburanti sono un valido esempio di questi crescenti conflitti fra consumatori e produttori organizzati in cartelli oligopolistici (le famose 7 sorelle che controllano il grosso del settore delal raffinazione del petrolio e della rete di distribuzione dei carburanti), ma altri esempi possono rinvenirsi sul mercato automotive (come giustificare altrimenti i continui provvedimenti governativi di incentivazione all'acquisto di autovetture nuove, in alcuni casi, come il recente aumento delle tasse di trasferimento di proprietà sugli autoveicoli usati varato in Italia, anche penalizzanti per le tasche dei consumatori, se non come politiche mosse da pressioni oligopolistiche esercitate sui decisori politici?) Un fenomeno analogo si verifica sul mercato di numerosi generi alimentari primari, dove la concentrazione oligopolistica in fase di trasformazione industriale del prodotto agricolo e di distribuzione genera un incremento dei prezzi che penalizza il consumatore finale e non premia il produttore agricolo primario, rischiando di gettare milioni di persone nella fame. Senza parlare di ciò che avviene o che potrebbe avvenire sui mercati delle utilities, per esempio se si estendesse il modello della gestione privata delle risorse idriche.
Inoltre, la concentrazione oligopolistica genera crescenti conflitti anche fra produttori e produttori, accrescendo la conflittualità fra le imprese sempre più grandi, e con potere di mercato crescente, collocate a valle delle filiere, ed il pulviscolo delle piccole e medie imprese collocate a monte, operanti come subfornitori o terzisti, che dalla concentrazione produttiva a valle non possono che temere una riduzione della quota di profitto loro spettante nella catena del valore del prodotto finito. Un esempio in tal senso è stato fornito dal recente progetto del gigante francese del latte, la Lactalis, di incorporare la Parmalat. Le più grosse resistenze a tale progetto sono provenute dalle piccole e medie imprese fornitrici di latte greggio che operano nel circuito della Parmalat, che da tale fusione temono la nascita di un gigante che avrà il potere negoziale per imporre loro una riduzione del prezzo di acquisto del latte greggio.
D'altro canto, la crescente finanziarizzazione comporta la ricorsiva esplosione di crisi finanziarie ed una cronica sottoccupazione, con conseguente incremento delle disuguaglianze e dell'incertezza sul futuro in ampie fasce di popolazione nelle economie mature. Per essere chiari, il 10,6% della popolazione dell'area Ocse ha un reddito che non supera il 50% del reddito mediano; tale percentuale cresce al 17,1% negli Stati Uniti, l'economia più potente del pianeta. L'indice di povertà relativa dell'Istat (basato, anziché sul reddito, sulla spesa per consumi) segnala che la povertà relativa, in Italia, colpisce, nel 2009, 7,8 milioni di persone, ovvero il 13,1% della popolazione residente. Ciò significa che circa 2,7 milioni di famiglie italiane spendono meno di 983 euro mensili per consumi. Ciò genera inevitabilmente tensioni sociali che si ripercuotono negativamente anche sulla produttività. Infatti, il fenomeno, crescente, dei “working poors”, non può che generare disaffezione sui posti di lavoro e quindi una riduzione della produttività e della qualità del lavoro stesso, danneggiando quindi anche le imprese.
Inoltre, l'impoverimento incide negativamente sull'andamento dei consumi. D'altro canto, il rallentamento dei consumi nelle economie Occidentali mina anche le prospettive di sviluppo delle economie "export oriented" dei Paesi Bric. Va considerato infatti che tali economie hanno una percentuale di PIL generata dalle esportazioni che oscilla fra il 10% del Brasile ed il 24-25% di Cina e Russia, e che per tutte queste economie i mercati dei Paesi Ocse sono gli sbocchi di vendita largamente più importanti. Se però i consumi, sui mercati delle economie Ocse, rallentano, allora anche le economie Bric, prima o poi, saranno costrette a veder diminuire i loro tassi di crescita, danneggiando in tal modo le economie mature, in un circolo vizioso che rischia di distruggere l'intero assetto economico mondiale. Infatti, va tenuto presente che le economie mature stanno puntando sempre più a riconvertire la loro struttura esportativa proprio verso i Bric, in piena esplosione economica e che il possibile rallentamento della crescita dei Bric comporterà una minore capacità, da parte di questi ultimi, di assorbire i titoli del debito pubblico emessi dai Governi delle economie avanzate. Stante il peso che Paesi come la Cina hanno assunto nell'acquistare quote enormi del debito pubblico di Paesi come gli USA, ciò potrebbe, in ultima analisi, determinare il default finanziario dei governi delle economie mature, con esiti assolutamente imprevedibili, anche in termini di scenario politico e militare.
D'altra parte, di fronte alla chiusura progressiva dei propri mercati di esportazione, le economie Bric a loro volta cercheranno di mentenere elevati tassi di accumulazione del surplus spingendo verso standard ambientali molto modesti (e poco costosi). D'altra parte, nelle economie mature, il processo di finanziarizzazione impedisce di destinare sufficienti risorse di investimento alla riconversione dei sistemi energetici verso tecnologie alternative alle inquinanti fonti fossili (che, tramite il mercato dei "futures" sulle transazioni di petrolio e gas naturale, alimentano una componente importante del mercato finanziario stesso). Ciò potrebbe portare alla contraddizione finale, ovvero un acuirsi della competizione fra aree economiche (area Ocse vs area Bric) giocata anche sulla distruzione delle risorse ambientali, con effetti potenzialmente terribili.

Saprà il capitalismo salvare nuovamente la pelle?

Saprà il capitalismo, ancora una volta, cambiare pelle per adeguare la sua struttura alle contraddizioni emergenti sopra illustrate? E' lecito dubitarne, al momento, perché le risposte che stanno emergendo sembrano ripercorrere vecchie strade, già battute in occasione di altre gravi recessioni, quali la tendenza verso la nazionalizzazione delle imprese (vecchio vizio di un capitalismo liberista a parole, ma sempre pronto a chiedere l'aiuto al pubblico erario quando le cose si mettono male). Si va infatti dall'ondata di nazionalizzazioni “de facto” di banche ed imprese assicurative e finanziarie, ma anche industriali, operate dagli Stati Uniti (ed iniziate in grande stile già dall'amministrazione iper liberista di Bush), dalla Gran Bretagna, dall'Irlanda e dalla Spagna, ai più modesti fondi per analoghe operazioni recentemente costituiti dal governo francese ed anche da quello italiano (che propro sul caso Lactalis-Parmalat potrebbe ricevere il suo battesimo del fuoco).
Non si disdegnano rigurgiti di protezionismo, che, come si ricorderà, fu la prima misura messa in campo, con esiti disastrosi che finirono per amplificare a dismisura la crisi, dai Governi durante la recessione del 1929. si va dal “Buy american” lanciato da Obama, al rinvio di ogni accordo di liberalizzazione sui mercati agricoli della Ue a favore dei produttori extra Ue, alla strisciante guerra valutaria innescatasi fra USA e Cina, a,lificata dal cosiddetto “quantitative easing”, varato qualche mese fa dalla Fed proprio al fine di indurre una svalutazione competitiva del dollaro.
E naturalmente, come da vecchie tradizioni, accanto al ritorno del protezionismo, il capitalismo in crisi ed alle prese con tragiche contraddizioni interne non trova di meglio da fare che soffiare sul venticello del nazionalismo, e promuovere guerre sempre più pericolosee destabilizzanti, in scenari geopolitici delicatissimi, queli quello nordafricano o quello mediorientale (con previsioni di estensione del conflitto anche a Siria e Iran).
Stavolta la sensazione è che il capitalismo possa “giocarsi la buccia”.

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