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venerdì 3 giugno 2011

Apologia dei rivoluzionari schizofrenici dagli attacchi social imperialistici di Dante Lepore

a proposito di un articolo di DINO ERBA, Il vento del Nordafrica e i sospiri dell’Italia - Brevi note sull’ambiente rivoluzionario italiano, Milano, 6 aprile 2011


La fase che tutta la specie umana sta materialmente vivendo nel mondo capitalista dall’ottobre del 2008 è giunta al punto in cui è sempre più difficile ogni analisi e valutazione a caldo, ogni chiaro e netto discernimento immediato dei fenomeni, e le stesse posizioni degli attori in campo assumono una mutevolezza data proprio dall’incandescenza e surriscaldamento che genera confusione e
fumus continui. Siamo così già alla guerra euro mediterranea, ma, poiché in una guerra è un po’ difficile restare neutrali, è opportuno che, chi deve comunque schierarsi, individui, pur nelle difficoltà e convulsioni, quali sono gli interessi in gioco, soprattutto quelli delle classi che in ultima istanza si confrontano.
In momenti come questi, bisognerebbe non perdere mai di vista la bussola (e la calma!) fornitaci dal marxismo, quando ci invita a non prendere mai ciò che gli uomini dicono di se stessi ma ciò che realmente e oggettivamente essi fanno. È una bussola d’oro, perché molto spesso anche i rivoluzionari in perfetta buona fede non sanno fare i conti con la banale realtà che le loro azioni e gli stessi pensieri sono a loro volta condizionati da un contesto che è l’unico vero motore di tutti gli atti e pensieri dei singoli esseri viventi. Ogni posizione soggettiva in realtà è una risultante di innumerevoli parallelogrammi di forze e mai un assoluto. Se si usa con freddezza questa bussola, si finisce per scoprire delle costanti che si ripetono anche nei momenti di fibrillazione e di confusione. Facciamo un esempio. Le guerre, per quanto storicamente anch’esse in evoluzione (da qualche decennio sono addirittura diventate guerre etiche, o umanitarie) riflettono oggettivamente una acutizzazione dello scontro tra due classi fondamentali della moderna società: borghesi e proletari. Anche le loro rispettive posizioni ideologiche, che nei momenti di relativa bonaccia tendono a sfumare, finiscono per radicalizzarsi nel momento della polarizzazione antagonista dell’evento militare. È accaduto di fronte alla prima guerra mondiale imperialista quando, nello stesso mondo socialista, ci fu la divaricazione tra chi votò a favore dei crediti di guerra del proprio paese e chi sostenne il disfattismo rivoluzionario scegliendo di lottare contro il proprio imperialismo, fraternizzando con gli operai del paese «nemico».
Da un po’ di tempo, noi che, forse a torto, rivoluzionari ci riteniamo, forse un po’ prudenti, realisti e modesti quanto basta, pur essendo convinti di esserlo nei fatti, che continuano a darci ragione, ci sentiamo chiamati anonimamente in causa e redarguiti da personaggi che, a loro volta, si reputano più rivoluzionari della rivoluzione stessa, per avere un «atteggiamento a dir poco fiacco», di «sbizzarrirci in analisi socio-economiche, in alcuni casi anche azzeccate, ma il più delle volte a rimorchio di quanto passa il convento, rimasticando luoghi comuni o ripescando da remote esperienze e cadendo spesso nella più scontata politologia». Dino Erba, che sostiene con la sua solita sicumera questo sprezzante j’accuse, rimprovera anche di occuparci dell’«analisi delle classi dominanti, a scapito dei movimenti degli sfruttati e oppressi che appaiono in una posizione sostanzialmente subordinata». Questo sarebbe un delitto, secondo il super rivoluzionario comunizzazionista (ci si scusi il termine, ma è lui che si autodefinisce così, attraverso Karl Nesic). È banale che se ci sono classi dominanti, lo siano a scapito delle classi sfruttate e oppresse, ossia subordinate. Lo dice lui stesso, senza sapere cosa sta dicendo, però deve negare che le cose stiano realmente così, e dire che questa è solo «apparenza». L’attuale crisi, che scarica materialmente la fame di plusvalore del capitale sulla disoccupazione proletaria, sulla sua regressione sociale, sulle condizioni tendenti ad un ritorno della schiavitù nel mondo del lavoro salariato,(1) secondo questo saccente della rivoluzione sanculotta, nasconderebbe un’altra «realtà»: «il rapporto è inverso: oggi sono gli sfruttati e gli oppressori che stanno passando all’attacco, almeno nel Nord Africa e in Medio Oriente, costringendo Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Italia & Co ad avventati interventi militari. Di conseguenza, dove appare la forza, in realtà c’è debolezza». Chi non capisce questo, ossia chi non «ragiona» come il novello Platone, «ragiona col cervello del padrone e soprattutto pregiudica sul nascere lo sviluppo di una prospettiva rivoluzionaria in Italia», «si dice rivoluzionario e finisce per approdare a comportamenti decisamente contro natura o per lo meno schizofrenici». L’accusa ai rivoluzionari schizofrenici si colora anche di una nuanceteorica: «le sorti degli sfruttati vengono a dipendere dal capitale, quando è l’esatto contrario. Viene a mancare il ‘lato cattivo della storia’, ovvero la forza motrice del mutamento, costituita da quei soggetti sociali che, impedendo la riproduzione sociale, rendono possibile il passaggio ad una forma diversa». Infine l’ultima perla: «Con gli USA sull’orlo del shutdown, parlare di imperialismo è come raccontar barzellette a un funerale».
Dunque:
1. Nella guerra, che in Libia si combatte a suon di Tomawk all’uranio impoverito e di ultramoderni caccia bombardieri Eurofighter di ultimissima generazione, gli sfruttati e gli oppressi sarebbero paradossalmente i più forti! In realtà il ragionamento capzioso vuol confondere guerre e rivoluzioni, nelle quali ultime le classi rivoluzionarie è certamente possibile (ma non scontato) che siano le più forti, anche le rivoluzioni tuttavia possono essere schiacciate. I rivoluzionari sono sempre contrari alla guerra e alla guerra oppongono da sempre la rivoluzione. Quella in Libia è oggettivamente una guerra, al di là delle disquisizioni dei politologi. Ignorarlo è criminale. Vi sono coinvolti interessi, non solo energetici ma geostrategici, di tutte le potenze mondiali, da quelle europee in conflitto tra di loro a quella americana che è in concorrenza con la Cina e l’URSS alle potenze regionali come la Turchia, l’Iran e Israele. Nella fattispecie, si confrontano, anche se in coalizione, Francia e Gran Bretagna per ridimensionare l’imperialismo italiano cresciuto negli affari ma politicamente inetto. Ignorare questo è un pessimo modo di fare i rivoluzionari.
2. Quando si insinua che «le sorti degli sfruttati vengono a dipendere dal capitale mentre sarebbe il contrario» e si attribuisce la forza motrice della storia al suo «lato cattivo», in realtà si distorce il senso dialettico del movimento e della storia, quello che fa dire a Marx che il «movimento che cambia lo stato di cose presente» è appunto il comunismo, e naturalmente il capitale stesso è immaginato come una entità estranea e contrapposta agli sfruttati, laddove esso non è che l’alienazione degli sfruttati i quali dipendono certamente dal capitale che essi stessi hanno creato come il credente dipende da Dio e dai preti che lui stesso ha creato.
Non è una distorsione di poco conto, giacché mira a eludere il problema del perché e del percome ad un certo punto il «lato cattivo» della storia si impadronisce della storia stessa, ossia il problema del rovesciamento della prassi, della necessaria fase di transizione alla società superiore e dunque il problema della coscienza e della forma-partito, aborrita dalla cosiddetta «comunizzazione», tendenza fatta propria da Dino Erba, presa a prestito da Karl Nesic e ripetutamente citata in rete come un versetto del Corano, convinto com’è che il partito rivoluzionario, che in questo momento è il grande assente, debba invece nascere dalla spume della lotta si fa per dire rivoluzionaria. La storia delle rivoluzioni proletarie vittoriose ci ammonisce che non si hanno lotte rivoluzionarie senza un partito rivoluzionario. Tutte le banlieues del mondo non faranno mai una rivoluzione. A Dino Erba basta ricondurre tutto alla non meglio precisata «crisi» … anche il terremoto di Fukushima. Finora, paradossalmente, l’unico elemento rivoluzionario in Libia, che in passato ha conquistato simpatie nelle sinistre stataliste italiane, è proprio il nazionalismo panafricano, terzomondista, anticoloniale di Gheddafi; dall’altra parte c’è un revanscismo monarchico senussita riunito intorno alla bandiera monarchica, che sfrutta ed egemonizza nelle zone in cui è più forte, in Cirenaica, il malcontento degli oppressi che non hanno autonomia politica né organizzativa.
3. Infine, secondo Dino Erba i rivoluzionari che parlano di guerra imperialista alla Libia somigliano a chi racconta barzellette a un funerale, quello appunto dell’imperialismo per antonomasia, gli USA sull’orlo del «shut down». Vecchio mito (imperialismo = USA), utile a dissimulare posizioni coincidenti, intenzionalmente o no, con quelle del proprio paese. Il tutto non è un «ragionamento», ma un sofisma che ha una sua logica apologetica. Denunciare come ragionamenti «padronali» quelli dei rivoluzionari che parlano di guerra interimperialista è indispensabile a far passare come rivoluzionarie posizioni che orpellano non solo la guerra imperialista, ma anche la guerra civile che, in questo caso della Libia, la completa, ribattezzandola come rivoluzione, analogamente a chi nello schieramento pacifista appoggia l’intervento militare umanitario come fatto a difesa dei civili e contro il tiranno sanguinario. Se qualcuno mette in evidenza il gioco interimperialista in Nord Africa, che del resto è sotto gli occhi di tutti almeno negli aspetti più vistosi, Dino Erba deve dire che tutto ciò è politologia borghese, luoghi comuni, ecc., e persino che tenderebbe a «infangare» i ribelli, come fa il «ciarpame neokeynesiano» nostalgico del capitalismo di stato e del regime di Gheddafi. Naturalmente tace sul fatto, evidente al di là di ogni mistificazione giornalistica, che tali ribelli, che sarebbero a suo dire tutti giovani shabab, sono al centro di un vero e proprio traffico di armi attraverso l’Egitto e in rapporto, già precedente all’esplosione dell’insorgenza sociale, con i servizi segreti britannici, americani, inglesi e francesi (gli italiani erano troppo occupati negli affari, ed è anche la dimostrazione che gli alleati hanno in realtà come spinta all’intervento i loro diversi appetiti in gioco). Sempre con un sofisma, dal sapore spietatamente cinico, onde fugare critiche «da sinistra», in questo caso da sinistra rivoluzionaria, Dino Erba, in uno dei tanti post di cui suole deliziare Internet, ha persino tirato in ballo l’argomentazione «storica» dell’utilizzo da parte di Lenin del vagone blindato messogli a disposizione dal governo tedesco per andare a fomentare la rivoluzione in Russia. Se l’han fatto i bolscevichi (vera pietra di paragone e principio di autorità nel comportamento rivoluzionario, ma solo quando serve, ad usum delphini), a maggior ragione possono accettare aiuti militari, istruttori militari e accordi sul futuro della Cirenaica anche dei ribelli che inalberano la bandiera monarchica di re Idris. Quella di Lenin e dei bolscevichi era una «rivoluzione» nel contesto di una «guerra imperialista» e non una «guerra civile», che si scatenerà dopo l’ottobre!
Ora, non è qui la sede per dimostrare come in Nord Africa e nel Mediterraneo si stia consumando un gioco interimperialista della più bell’acqua molto complesso e preludio ad un suo allargamento nel decisivo Medio Oriente,(2) ma come al solito Dino Erba preferisce sparare giudizi senza entrare nel merito delle analisi di questi rivoluzionari schizofrenici, e allo stesso modo cristona contro Sergio Cararo e riabilita Moreno Pasquinelli, senza cogliere l’anima né dell’uno né dell’altro; e non è neppure qui la sede per determinare nei dettagli i caratteri dell’insorgenza sociale in quella zona, che del resto avevo descritto in anticipo rispetto all’esplosione degli eventi che si stanno evolvendo e che occorrerà seguire con molta attenzione, proprio perché stanno affiorando in merito molti pregiudizi, distorsioni, menzogne con cui fare i conti perché son parte integrante del conflitto in corso. Ma quello che non si può negare è che l’incapacità di discriminare nel concreto dell’intervento militare gli elementi di un gioco interimperialista rispetto alle componenti dell’insorgenza sociale porta alla pericolosa confusione non solo tra guerra e rivoluzione, come si è visto sopra, ma anche tra guerra civile e rivoluzione. Se non si distingue tra queste due realtà ugualmente presenti nella guerra in Libia, si finisce per confondere il necessario appoggio e la solidarietà all’elemento proletario rivoluzionario con la partigianeria in una guerra tra frazioni interne o esterne alla Libia, che non hanno nulla di rivoluzionario, tutt’altro, dal momento che le potenze imperialiste in gioco stanno disputando tra di loro a suon di morti libici chi deve meglio schiacciare non solo il proletariato libico, ma soprattutto quello egiziano e algerino, in nome e per conto degli equilibri imperialisti in via di ridefinizione in tutta l’area del Mediterraneo. Non è tanto la constatazione che l’appoggiare in modo così generico e acefalo i «ribelli» nella guerra civile, almeno nei fatti, coincide sempre di più con le posizioni assunte dal team dei volenterosi imperialisti (e per tanto si configura senza mezzi termini come una posizione social imperialista, anche se solo parolaia e da Rodomonte, sostenuta con le sofisticherie e imposture che abbiamo visto, rispetto ai ben gestiti aiuti militari degli imperialisti, sapientemente dosati col fuoco amico), quanto il fatto per cui il presentare l’intervento della coalizione come reazione «debole» alla maggior forza degli sfruttati e oppressi che mistifica il vero problema della reale debolezza del proletariato, costretto ad una battaglia locale in Libia contro una cospicua coalizione dell’imperialismo mondiale, diviso al suo interno proprio dalla guerra civile, privo di una propria forza militare internazionale, senza un suo strumento politico, senza un’organizzazione in partito a scala sia mondiale che locale.
Tutte le iniziative che i rivoluzionari non acefali possono intraprendere, in qualunque territorio si trovino ad operare, sia pure in assenza della guida di un partito rivoluzionario mondiale del proletariato e della debolezza soggettiva e oggettiva che ciò comporta, devono seguire il principio elementare di «non lavorare per il re di Prussia», rafforzare le proprie condizioni di lotta di classe, rivendicare spazi di azione politica e sindacale autonome, migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, lottare per la cessazione immediata e senza condizioni spartitorie, della guerra in atto, lavorare per la trasformazione della guerra civile tra clan in rivoluzione contro i gheddafiani e i suoi oppositori tribali, sviluppando ove è possibile consigli operai e proletari che intacchino la struttura tribale. Il resto lo farà la rivoluzione permanente che avanza nel mondo capitalista in disfacimento.
Dante Lepore
8 aprile 2011
1. che mi son permesso di documentare dall’America Latina all’Asia al Nord Africa in un libro intero che lui stesso ha recensito nella lingua mielosa del politically correct, Gemeinwesen o Gemeinschaft?. Decadenza del capitalismo e regressione sociale, Gassino Tor.se, 2011.

2. Personalmente l’ho già fatto, e non sono il solo, e i fatti dimostrano e lo faranno sempre di più, quanto questa analisi sia al servizio o meno dei «padroni», secondo la sprezzante espressione dell’ineffabile Dino Erba. Cfr. in proposito le mie newsletter su Grande gioco imperialista in Nord Africa, parti I, II, III, ora in «Sotto le bandiere del marxismo».
Fonte: http://www.webalice.it/mario.gangarossa/sottolebandieredelmarxismo_dibattito/2011_04_dante-lepore_apologia-dei-rivoluzionari-schizofrenici-dagli-attacchi-social-imperialisti.htm

2 commenti:

  1. Scusate, compagni della redazione, ma nel titolo c'è un refuso grave:
    Apologia dei rivoluzionari schizofrenici
    è il titolo giusto!
    Che diavolo significa "Apologia dai...". Si tratta solo di leggere con la mente anziché solo con l'occhio magari un po' stanco.
    Sarebbe utile rettificare.
    Saluti rossi.
    Dante Lepore

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