Per Gramsci il problema centrale è il modo di uscire dalla lunga serie delle scissioni originate dal moto molecolare di aggregazione e di disgregazione delle forze sociali, dal susseguirsi delle rivoluzioni passive e dalle guerre di posizione. C'è in Gramsci, costante, una irrequietezza spirituale, la mania di concludere, costantemente inappagata, e una inestinguibile ansia del potere: il problema dello Stato. Si era nel primo dopoguerra; la situazione portava in sé tutti i motivi di una crescente disgregazione; le istituzioni in parte spezzate e quelle rimaste in piedi non erano in grado di darsi un programma e tanto meno di metterlo in esecuzione; un cumulo di contraddizioni, di impotenza e di disperazioni in cui tutto e il contrario di tutto era possibile che accadesse.
Su tutto e su tutti incombeva il trauma della rivoluzione d'Ottobre, enorme spinta psicologica positiva per chi aveva tutto da rivendicare e da conquistare, negativa e fatta di paura per chi temeva di perdere le proprie posizioni di privilegio. I centri di produzione erano centri di scontri e di agitazioni disarticolate e permanenti. Non mancavano iniziative sindacali ma nel contempo era in discussione la validità dello stesso sindacato come strumento di azione politico-sindacale: i vecchi partiti apparivano in stato di profondo disorientamento nel ritrovare la propria identità ideologica e politica. Come per il sindacato anche per i partiti tutto era messo in discussione con la tendenza prevalente a estremizzare sia a destra che a sinistra. Notevoli i conati per esperienze nuove anche nel grembo delle vecchie strutture dei partiti tradizionali, come il Partito Socialista Italiano nel quale trovarono terreno fertile per una distinta area d'azione i due poli di maggior spicco ideologico e di più matura e approfondita elaborazione dottrinaria del marxismo: il gruppo del Soviet della corrente della Sinistra italiana e il gruppo dell'Ordine Nuovo della corrente consigliarista. È questa l'esperienza dei Consigli che interessa il nostro esame.
Nel cuore della guerra, nell'ampiezza e profondità della prima guerra imperialista, i Consigli avevano dato la dimostrazione, soprattutto nell'esperienza aperta dalla rivoluzione d'Ottobre, d'essere gli organi del potere reale. L'organizzazione dei Consigli nel grande complesso industriale torinese ha ben altra origine e formazione, ha obbedito più ad una suggestione imitativa di una formula politica nuova che a spinte oggettive tradotte in termini perentori d'azione rivoluzionaria che non si è verificata più per la insipienza degli organi dirigenti del partito socialista — che avrebbero dovuto capire la situazione e guidare le masse all'azione — che per l'immaturità delle condizioni obiettive. Sotto questo rapporto i Consigli dell'esperienza torinese, non saldati al moto rivoluzionario, non erano né potevano essere che organismi di un potere fittizio e delimitato nel tempo.
Il fatto della disponibilità delle Commissioni interne dei maggiori complessi industriali ad una politica antiriformista, e quindi già inclini ad accettare iniziative della sinistra, non è motivo sufficiente e tantomeno valido perché tali organismi, sorti in funzione sindacale, si trasformassero in organismi del potere operaio, quali sono i Consigli, senza che questo potere esistesse né in potenza né di fatto. All'atto rivoluzionario non si perviene con atti notarili del genere che segnano, semmai, un banale passaggio da una ragione sociale ad un'altra, sempre nell'ambito sindacale, ma dal salire impetuoso dal basso di immense forze sociali, coagulo di sofferenze immani di sfruttati, di potenza distruttiva, di rabbia troppo a lungo repressa, persino di odio con la volontà, precisa e irrimandabile, di spezzare una volta per tutte le strutture di una classe corrotta, quella capitalistica, perché storicamente finita.
Puntualizziamo i tratti di questa volontà protesa a realizzarsi non sui dati obiettivi d'un dato momento della crisi della società capitalista ma sotto la spinta emotiva quale può essere espressa da un certo grado di ottimismo; argomento di fondo: i Consigli, come cellule viventi d'una nuova società. Sentiamo, come è nostro metodo interpretativo, lo stesso Gramsci:
La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico dell'attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione [...] sua ragion d'essere è nel lavoro, è nella produzione industriale in un fatto cioè permanente e non già nel salario, nella divisione delle classi, in un fatto cioè transitorio e che appunto, si vuole superare [...].
Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti all'organizzazione dello Stato proletario sono inerenti all'organizzazione del Consiglio [...].
La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppa nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrificio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà [...].
L'esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia [...].
L'organizzazione per fabbrica compone la classe (tutta la classe) di un'unità omogenea e coesa che aderisce plasticamente al processo industriale di produzione e lo domina per impadronirsene definitivamente. Nell'organizzazione per fabbrica si incarna dunque la dittatura proletaria, lo Stato comunista che distrugge il dominio di classe nelle superstrutture politiche e nei suoi ingranaggi generali.
L'esperienza, più teorica che pratica, dei Consigli, verrà affossata ufficialmente da Gramsci al convegno della frazione comunista di Imola (1920) e non se ne parlerà più nei termini ipotizzati dagli ordinovisti, come organi del potere proletario; spetterà ai futuri epigoni, i manovali della degradazione del partito nato a Livorno, di abbassare ancor più il ruolo dei Consigli riducendolo a strumento permanente della politica sindacale che, per sua natura, non va oltre la pratica del rivendicazionismo, obiettivamente corporativo, al di fuori d'ogni prospettiva rivoluzionaria.
AI culmine della crisi che si avrà con l'occupazione delle fabbriche, il proletariato industriale non è ancora la forza egemone ma ancora forza soggetta, se non uscirà dalle fabbriche occupate per attaccare frontalmente lo Stato e colpire così nel cuore il capitalismo. Il fatto che la Fiat sia occupata da maestranze che lavorano non si sa per chi e per che cosa e la facile soddisfazione di sapere che un bravo compagno, il metallurgico Parodi, siede sulla poltrona di Agnelli, non assicurano davvero dignità alla funzione egemone del proletariato industriale quando lo Stato mantiene comunque intatte le sue strutture e l'industriale Agnelli è sempre padrone della Fiat. E gli avvenimenti di questo periodo storico hanno dato ragione alla linea della Sinistra italiana che per bocca di Bordiga affermava che il nodo da sciogliere non era quello di occupare la fabbrica per rimanervi prigionieri se non si conquistano e non si spezzano le strutture dello Stato.
Gramsci non riteneva che tale ruolo potesse essere assegnato al PSI ma non poneva, come prospettiva immediata, la necessità del partito rivoluzionario; lui che sentiva tutta l'urgenza di un organo di guida alle spinte molteplici, contraddittorie e in parte irrazionali che salivano dal basso, affidava ai consigli, ideologicamente e politicamente immaturi con tutte le influenze negative e inceppanti dello spirito di categoria a sfondo corporativo, il compito immane di portare a compimento l'eversione rivoluzionaria che non è solo atto di violenza, ma è costruzione di una nuova società, e tutto questo in una sola città, sia pure industriale come Torino. La sconfitta operaia dell'occupazione delle fabbriche chiude di fatto e miseramente l'esperienza dei Consigli. Ed è il fascismo.
Chi ha avuto modo di conoscere Gramsci nel vivo della sua personalità intellettuale e umana, sa quanto del suo mondo, ch'egli credeva saldamente ancorato nel cuore delle masse operaie nella fabbrica, fosse vissuto invece fantasticamente, per quella sua facoltà di soggettivizzare tutto, le sue idee, i suoi sentimenti, le stesse vicende della lotta operaia e della politica militante. Ed è proprio per questa tendenza che era portato a pensare e a operare sotto la spinta di una volontà realizzatrice ad ogni costo; giovanissimo, affidava un potere quasi taumaturgico e in ogni caso determinante alla teoria e alla pratica dei "consigli"; fatto più adulto e passato alla direzione del Partito Comunista, considerava la tattica dell'inserimento nella lotta politica come un tuffarsi nella realtà quotidiana per trarre da questa il materiale umano da convogliare nella linea politica del partito e le suggestioni che avrebbero a loro volta influenzato il dato soggettivo della stessa azione politica.
L'esperienza torinese dei Consigli di fabbrica porta i segni evidenti di questa ideologia improntata a intuizionismo mistico, ad acceso volontarismo "creatore" più che alle ferree leggi del materialismo dialettico del marxismo.
Incominciamo con i Consigli. Per la verità ci siamo più volte, e per ragioni polemiche, riferiti a questi punti nodali della dottrina dei Consigli soprattutto per ciò che concerne la tesi cara a Gramsci del carattere di prefigurazione della società comunista che si voleva attribuire a questo tipo di organizzazione già inserito nel contesto delle strutture della vecchia società che si voleva distruggere. I termini della nostra polemica con Gramsci allora sottintendevano l'interpretazione che del ruolo dei Consigli sarebbe stata data dall'opportunismo: i consigli (soviet) sono sorti e sorgono storicamente come organi del potere operaio in perfetta sintonia col partito rivoluzionario, nascono quindi da una spaccatura rivoluzionaria e mai da un processo riformista di riconciliazione tra le classi. È proprio per questo netto spartiacque teorico posto dalla nostra lontana disputa, quanto mai viva e attuale, che ogni rilettura di Gramsci deve essere fatta criticamente, alla luce cioè di quanto viene fatto oggi dai tardi epigoni del Gramscismo in nome del suo insegnamento.
Il Consiglio di fabbrica — scrive Gramsci — è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti alla organizzazione dello Stato proletario sono inerenti alla organizzazione del Consiglio. Nell'uno e nell'altro il concetto di cittadino decade e subentra il concetto di compagno: la collaborazione per produrre bene e utilmente, sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza. Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo posto e ognuno ha una funzione e un posto. Anche il più ignorante e il più arretrato degli operai, anche il più vanitoso e il più "civile" degli ingegneri finisce col convincersi di questa verità nelle esperienze dell'organizzazione di fabbrica: tutti finiscono per acquistare una coscienza comunista per comprendere il gran passo in avanti che l'economia comunista rappresenta sull'economia capitalista.
Par di leggere un brano preso di sana pianta da una pagina di un qualsiasi scrittore del periodo del socialismo utopistico tanto la crescita d'una coscienza del gruppo soggetto è intrisa di «collaborazione per produrre bene» e «utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e di fratellanza», e il passaggio molecolare al gruppo dirigente è tanto palesemente indolore.
Gramsci conclude il suo pensiero in questi termini:
II Consiglio è il più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dalla esperienza viva e feconda della comunità di lavoro. La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppava nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrifizio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia [...].
L'esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia.
Quel che colpisce in questa nostra rilettura è l'impressionante assenza, nella funzione dei Consigli, d'una pur minima comprensione dei termini di una contrapposizione di classe che nel biennio '19-20 aveva raggiunto i suoi punti limite con la rivoluzione d'Ottobre in Russia e con la sconfitta del moto spartachista in Germania. Ma vediamo più da vicino il problema dei Consigli nella esperienza personale di Gramsci. E a Torino che egli ne vive il suo maggiore episodio teorico-pratico: una rapida fioritura di Consigli avutasi nel settore più avanzato dell'industria metallurgica, sotto la spinta stimolante degli avvenimenti della rivoluzione russa, fa da supporto pratico-organizzativo al gruppo di Ordine Nuovo che ne diviene il centro di elaborazione teorica.
I Consigli dell'esperienza torinese, più che di una situazione nazionale dove era inesistente una fase d'azione immediatamente rivoluzionaria, erano il riflesso di una situazione internazionale che manteneva tuttora delle possibilità di sviluppi in senso rivoluzionario.
Nella situazione italiana, pur non essendo all'ordine del giorno una prospettiva immediatamente rivoluzionaria, nel suo complesso era tuttavia viva una fase montante nella quale i Consigli potevano trovare ossigeno sufficiente per vivere nella ipotesi di una possibile e non lontana prospettiva di soluzione rivoluzionaria. Ma avevano i Consigli una struttura, una organizzazione nazionale, una rete efficiente di quadri intermedi e soprattutto una raggiunta omogeneità organica tra teoria e pratica? L'originalità dell'Ordine Nuovo e della prima esperienza dei Consigli è stata quella torinese e non ha oltrepassato nella pratica, triste esperienza italiana, i limiti della provincia.
L'errore di fondo di tutta la tematica Gramsciana va individuato in quella sua pretesa, del tutto idealistica, di attribuire agli organi di fabbrica, per loro natura contingenti, mutevoli e ancorati ad interessi particolari, funzioni permanenti e statiche che sono proprie del partito di classe.
L'organizzazione per fabbrica — scrive Gramsci, nella chiusa dello stesso articolo — compone la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e coesa che aderisce plasticamente al processo industriale di produzione e lo domina per impadronirsene definitivamente.
Che l'organizzazione dei Consigli non sia riuscita negli anni dell'esperienza ordinovista ('17-'20) a comporre la classe (tutta la classe) in una unità omogenea e coesa, lo dimostra il fatto della sua organica incapacità a recepire una funzione di egemonia politica pur nei confronti di un partito come quello socialista non certo concorrenziale sul piano della lotta rivoluzionaria; e infine, come ipotetici organi del potere proletario, i Consigli, nati asfittici, hanno potuto avere una fine onorevole al Convegno di Imola (1920) che, oltre a gettare le basi del partito di classe, è stato anche la naturale sede di approdo e di autoliquidazione delle due maggiori egemonie imperfette esistenti nello schieramento politico italiano, divenuto ormai adulto nello spazio vitale del Partito Socialista: quella dell'Ordine Nuovo, con la fine dei Consigli e quella del Soviet, con la fine dell'astensionismo.
E nel partito che si formerà a Livorno Gramsci porterà, era inevitabile che ciò avvenisse, la sua forma mentis consigliarista, la concezione cioè di un partito che basa la sua egemonia su di una struttura cellulare di fabbrica. Portare la caratteristica di fabbrica propria dei Consigli nelle strutture del partito, significava per la sinistra contaminarne ideologicamente la natura di organismo unificante le varie e a volte contraddittorie istanze che dal seno della classe salgono fino al partito in un processo di lenta decantazione socio-politica, dalle categorie alla classe, sotto il pungolo costante della vasta gamma delle lotte rivendicazioniste tra capitale e lavoro di cui veramente si sostanzia una propedeutica autenticamente rivoluzionaria.
Nella fabbrica dominano gli interessi che le sono propri e che per loro natura non vanno oltre la rivendicazione corporativa e a questa piegano l'attenzione, i desideri, il comportamento degli operai che vi lavorano. Portare il partito nella fabbrica significava per noi spezzare il nesso dialettico che deve sempre intercorrere tra partito e classe. Si voleva dare il valore di scoperta, combattere ogni tendenza corporativa portando il partito nelle fabbriche e si è finito poi con l'immiserire il partito costringendolo sul binario opposto a portare avanti cioè una politica corporativa (comitati di gestione, ecc).
Nella storia del movimento operaio si tornerà a parlare dei Consigli ma in modo più dimesso e in termini meno esaltanti, svuotati del contenuto originario che Gramsci attribuiva loro e che di fatto non avevano mai avuto, quello cioè di «essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia». Questa egemonia i Consigli non l'hanno mai raggiunta né quando Gramsci scriveva queste righe né tanto meno, come organi del potere rivoluzionario, ridotti ormai dagli epigoni al rango di organi permanenti del sindacato di fabbrica, una specie di sostituto, forse più rappresentativo, delle vecchie commissioni interne. Nessuno nega che non si sia verificata con ciò una crescita di potere egemonico, ma a favore dell'apparato sindacale, in nessun caso dei delegati al Consiglio anche se questi sono stati eletti dalla base con tutto il rispetto delle regole democratiche.
Era inevitabile che il revisionismo più deteriore del secondo dopoguerra si impossessasse e facesse sua l'arma dei Consigli rifacendosi, si capisce, all'ordinovismo del primo dopoguerra secondo l'elaborazione teorica e l'impostazione politica datane da Granisci. Tuttavia il vizio di origine, quello di considerare la fabbrica come la «cellula d'un organismo», nella quale «l'economia e la politica confluiscono», nella quale «l'esercizio della sovranità è tutt'uno con l'atto della produzione» e nella quale «si realizzano embrionalmente tutti i principi che informeranno la costituzione dello stato dei consigli», è presente in questa riedizione dei consigli e consegue, come in Granisci, ad una sottovalutazione se non addirittura ripulsa della funzione storica del partito di classe. Ma con questa fondamentale differenza: la strutturazione dei Consigli, il loro inserimento nel processo produttivo, la loro abilitazione tecnica, la loro stessa politica produttivistica erano visti da Gramsci nella fase del primo Ordine Nuovo (1919/20) in funzione della conquista del potere, come momento iniziale e formativo dell'esercizio della dittatura di classe del proletariato, mentre per i revisionisti tutto ciò è visto come naturale, pacifico, democratico inserimento delle forze del lavoro nello Stato; il problema del potere si concretizzerebbe così in una crescente abilitazione di queste forze alla gestione del potere in collaborazione con quelle storiche del capitalismo che di fatto detengono questo potere in posizione di forza egemonica e intendono sì accettare quelle collaborazioni che servono in definitiva a conservare e rafforzare il potere economico esistente, ma non intendono spartirlo con chi mirasse ad incidere sui diritti acquisiti d'una egemonia di classe. Sotto questo rapporto si giudichi oggi la politica del preteso controllo operaio tentata, con i risultati che tutti conoscono, attraverso i comitati di gestione e le teoriche postulazioni della cogestione, che è servita a spingere gli operai a produrre il maggiore sforzo produttivo nella fase più delicata e difficile del riassestamento del potenziale economico capitalista. Di fatto i comitati sono finiti nel ridicolo, spazzati via dal processo produttivo nel momento in cui i padroni hanno ritenuto che la loro opera di collaborazione era stata portata a compimento e potevano perciò sentirsi di nuovo veramente padroni.
È interessante seguire il tentativo di teorizzare il problema del controllo operaio che
deve esercitarsi attraverso istituti sorti nella sfera economica, laddove è la fonte reale del potere [...] La sua funzione dovrebbe consistere nel contrapporre alla democrazia aziendale, di marca padronale, la rivendicazione della democrazia operaia [per] spostare sempre più il centro della lotta sul terreno del potere reale e delegante, facendo maturare e avanzare gli istituti nati dal basso, la cui natura sia già affermazione del socialismo.
La lotta del proletariato servirebbe così «ad acquistare giorno per giorno nuove quote del potere, nel senso di contrapporre al potere borghese la richiesta, l'affermazione e le forme di un potere nuovo che venga direttamente e senza deleghe dal basso».
La derivazione dal pensiero di Gramsci è evidentissima in questa impostazione dovuta ad alcuni giovani dell'apparato del PSI ("Sette tesi sulla questione del controllo operaio", Mondo Operaio n. 2, 1958). Ma più evidente è il distacco che separa questo schema, intellettualistico e dilettantistico insieme, dalla visione finalistica e di superamento rivoluzionario del primo Gramsci.
In questi giovani è vivo l'impegno idealistico che li porta a concepire la questione del controllo operaio in astratto, senza tener conto dell'esperienza che essi stessi hanno fatto, negativamente, nella milizia attiva delle formazioni politiche che si richiamano al proletariato. Essi concepiscono infatti fabbriche ideali e ideali legami organizzativi di fabbriche sul piano nazionale; concepiscono istituti a cui affidano il compito di scavare in profondità nel terreno economico-sociale del capitalismo, azione che dovrebbe comportare una evidente lacerazione nel suo diritto di proprietà, e postulano nuovi diritti basati su conquiste operaie che aumenterebbero di potenza materiale in misura proporzionale all'aumento del grado di conoscenze strumentali; prospettano insomma una realtà capitalistica d'interessi economici ben determinati che si fa realtà socialista per virtù insite al processo produttivo, specie di slancio perenne di vita che si articolerebbe per di dentro dalla singola fabbrica al complesso delle fabbriche su su fino al vertice dello stato; molecola di natura socialista della fabbrica dilatata fino a divenire realtà socialista nello stato. Avviene così che il «passaggio pacifico al socialismo invece che verificarsi attraverso il parlamento, va verificandosi ogni giorno, in questo maturare della classe [senza scosse violente, senza rivoluzione, insomma, n.d.a.] attraverso l'opera di questi nuovi istituti di fabbrica».
Par quasi che questi compagni non siano mai entrati in una fabbrica e non conoscano, anche per sentito dire, in quale clima di costrizione morale e di paura gli operai siano oggi costretti a vivere. Va da sé che in questa concezione — in cui un progressismo indefinito delle conquiste operaie si alterna ad una propedeutica riformista della lotta e tutte e due si completano su di un piano nel quale dialettica, metodologia marxista e visione catastrofica del salto rivoluzionario sono del tutto banditi — il partito non poteva ridursi che a semplice «funzione di strumento della formazione politica del movimento di classe (strumento cioè, non di una guida paternalistica, dall'alto, ma di sollecitazione e di sostegno delle organizzazioni nelle quali si articola l'unità di classe)».
Ma le teorie che non coincidono con la realtà sono teorie "fasulle". E riportiamoci alla realtà. Anche là dove i Consigli e il controllo operaio hanno avuto recenti realizzazioni, hanno vissuto giornate di potenza e di gloria nel clima arroventato dell'insurrezione come in Ungheria e in Polonia, o vengono stroncati dal ritorno offensivo del regime contro cui questi organismi erano sorti e insorti (Ungheria) oppure vengono accortamente svuotati di ogni contenuto classista e rivoluzionario e piegati alle esigenze del regime imperante (come sarebbe avvenuto in Ungheria, se Imre Nagy avesse avuto la possibilità materiale di instaurare il suo regime così come in Polonia ha operato Gomulka, così come in Jugoslavia ha operato Tito). Dunque anche il controllo operaio esercitato dai Consigli o esplica il suo compito nel momento dell'azione rivoluzionaria in quanto arma di battaglia o si riduce ad un mezzo banalissimo di conciliazione per allestire la solita truffa riformista.
Mentre Gramsci aveva concepito questi organismi di fabbrica, a parte la critica da noi formulata alla loro impostazione teorica, nel quadro di una prospettiva rivoluzionaria, gli epigoni di Gramsci li hanno concepiti e li concepiscono tuttora nel quadro di una prospettiva riformista e dichiaratamente controrivoluzionaria.
Concludiamo il nostro esame affermando che i Consigli sono gli organi del potere e opereranno come tali quando la questione del potere proletario sarà posta all'ordine del giorno della storia. Ma anche allora non potranno operare da soli, non diventeranno autosufficienti per virtù di nessuna costrizione teorica; non perverranno cioè agli obiettivi per cui sono sorti se non funzioneranno da canali vettori dell'ondata rivoluzionaria imbriglianti l'impeto disordinato e irrazionale delle grandi masse in movimento alle quali tuttavia viene a mancare la coscienza storica del fine e la concezione universale della rivoluzione che sono proprie del partito della classe operaia. La rivoluzione dell'Ottobre russo fu possibile perché ebbe il partito bolscevico più i Consigli. La rivoluzione dell'Ottobre ungherese è fallita perché ebbe i Consigli meno il partito bolscevico.
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