di Michele Nobile
Pubblicato in Proposta per la rifondazione comunista n. 16, maggio 1997.
Flessibilità è la parola d’ordine degli anni ’80 e ’90. Ma potremmo anche dire alibi, formula magica, nozione contenitore che presenta molteplici dimensioni1, spesso confuse, ma che pure contiene un nocciolo razionale da cui possono derivarsi criteri operativi di comportamento. Teoricamente la flessibilità può essere concepita come una modalità di adattamento evoluzionistico ad un ambiente altamente instabile, ovvero ad una domanda molto diversificata, dall’andamento incerto in quadro di intensificata concorrenza. Le divergenze fra i teorici post-fordisti dipendono essenzialmente dalla diversa enfasi posta sulle varie dimensioni della flessibilità e dalla prescrizione della loro combinazione ottimale.
DIVERSI MODELLI DI FLESSIBILITÀ
Il «post» segnala l’emergenza di un assetto qualitativamente nuovo della produzione e delle relazioni industriali: the second industrial divide, scrivono Piore e Sabel nel testo che delinea il modello postfordista più radicale2, un secondo spartiacque contraddistinto dall'affermazione della flessibilità sulle rigidità tecniche e sociali dell’organizzazione del lavoro del fordismo, e dalla rivincita storica della produzione di piccoli volumi di prodotti diversificati e della high technology cottage industry sulla produzione di massa e sull’impresa gigante, per le quali la campana suona a morto. Tra i principali referenti empirici di questa linea troviamo la «Terza Italia» dei distretti industriali: si parla anche di «modello emiliano» e del nord-est. Il modello della «specializzazione flessibile» di Piore e Sabel presuppone, infatti, l’agglomerazione locale di piccole imprese collaborative, dotate di macchinario flessibile e multi-uso, forza lavoro qualificata e partecipativa, con una prospettiva delle relazioni industriali esplicitamente proudhoniana. Prevale l’integrazione orizzontale tra reti di imprese sostanzialmente paritarie.
Nel modello ispirato dal just-in-time, o kanban in giapponese, prevalgono invece i rapporti fra impresa centrale e fornitori di parti. Si presuppone che anche questi rapporti diano luogo ad agglomerazioni spaziali e siano collaborativi, ma la loro forma tende a orientarsi in senso verticale. Quanto all’organizzazione del lavoro, se la «specializzazione flessibile» ha come presupposto fondamentale una forza lavoro con qualità «artigianali» decisamente anti-tayloristiche, al modello del just-in-time sono spesso associati nuovi disegni dell’impianto ed innovazioni tecniche ed organizzative, le seconde forse anche più importanti delle prime, la cui esatta natura ed i cui effetti sull’autonomia e la qualificazione dei lavoratori sono in discussione.
La riduzione dei tempi di lavorazione e degli stocks o lo spostamento del controllo e della costrizione all’interno della stessa forza lavoro, che nei casi più efficaci si auspica o si teme venga interiorizzata dai singoli lavoratori, possono però essere interpretati come forme perfezionate di taylorismo. In questo caso vengono ridotti i costi della supervisione propri del «taylorismo rigido» statunitense senza intaccare, peraltro, le prerogative del management.
Lungi dall’essere espressione di una vocazione culturale nipponica, i «circoli di qualità» furono il prodotto di un duro scontro di classe e della sconfitta del sindacalismo indipendente, nonché un esempio delle capacità di assimilazione e sviluppo da parte del management giapponese di tecniche originariamente sperimentate negli Stati Uniti.
È il caso di sottolineare che le forme di adattamento alle variazioni temporali della domanda richiedono spesso ristrutturazioni della struttura spaziale della produzione. La geografia della produzione e dell’occupazione non è indifferente alla storia: i processi di deindustrializzazione e di nuova industrializzazione sono anche tentativi di aggirare i conflitti e l’organizzazione sedimentata dei lavoratori muovendo nello spazio. Viceversa, questa nuova geografia può creare nuove forme del conflitto di classe.
FORDISMO E POST-FORDISMO COME TIPI IDEALI
Il carattere evoluzionistico dei modelli a cui sommariamente si è accennato è manifesto nell’idea che il cambiamento dell’ambiente sociale esige le innovazioni tecnologiche ed organizzative e queste, a loro volta, trasformano l’ambiente sociale attraverso un processo selettivo. Il tratto decisivo del percorso evolutivo è quello che procede dall’unità di produzione alla società ed agli assetti istituzionali, attraverso la mediazione delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Dunque, il livello microeconomico prevale su quello macrosociale. Per quanto Piore e Sabel respingano il determinismo tecnologico, per quanto nella letteratura più recente sulle «onde» od i «cicli» dello sviluppo economico si insista sulle condizioni istituzionali e sul ruolo della domanda (l’ambiente esterno all’impresa), è dubbio che le trasformazioni del modo di produzione come totalità sociale possano derivarsi attraverso la generalizzazione delle trasformazioni del processo lavorativo, e che dai modi del «dispotismo di fabbrica» si possano derivare direttamente quelli del «dispotismo sociale».
Affiora una concezione riduttiva dei rapporti di produzione che presiedono alla dinamica dell’accumulazione, dietro cui torna a far capolino il determinismo tecnologico. La configurazione della struttura storica dei rapporti di produzione è incompleta se in essa non sono compresi i modi della concorrenza e della centralizzazione tra e dei capitali, la posizione nella divisione internazionale del lavoro ed i modi dell'inserimento nell’economia mondiale, la politica statale e le forme del compromesso tra le frazioni della classe dominante e fra questa e la classe (o le frazioni) della classe dominata.
La riproduzione-trasformazione del capitalismo richiede uno schema della riproduzione allargata del capitale sociale e della formazione sociale che comprende necessariamente il livello dell’accumulazione, ma non si riduce ad esso. Meglio ancora, si può dire che la dinamica storica dell’accumulazione non è separabile dall'assetto complessivo dei rapporti sociali.
Altrimenti il fordismo e le sue alternative, da forme storico-sociali concrete nei campi del già dato e del possibile saranno trasformati in tipi ideali. Si potrà, allora, contrapporre dualisticamente il mondo delle «rigidità» fordiste e «keynesiane» a quello delle «flessibilità»: da questo punto di vista i risultati finali dei diversi modelli sono gli stessi. Da una parte avremo qualcosa come il «fordismo» (o, in politichese italico, la «Prima Repubblica»): industrialista, regolativo, pubblicistico, burocratico, mastodontico, sperperatore e corrotto; dall’altra un’entità, ancor meno definita perché in processo, detta post-fordismo (o, sempre in politichese, la «Seconda Repubblica»). Ed è a questa che si attagliano tutte le sfumature e le connotazioni della flessibilità: allocazione ottimale dei fattori attraverso il libero gioco della domanda e dell’offerta, deregolazione e liberazione da lacci e laccioli, esaltazione del self-made man, dello spirito imprenditoriale e del «piccolo è bello», creatività e adattabilità, trionfo del privato e dell’individualismo, smaterializzazione virtuale della produzione e del rapporto sociale nel sistema delle reti di imprese e della rete delle reti.
Oppure, nella versione pessimista, la «flessibilità» è il tramite verso un mondo alla Blade Runner, fatto di decadenza e «tribù» incomunicanti, di società «duale» e di marginalizzazione di massa.
Un dibattito impostato in termini ideal-tipici non permette di articolare la continuità e la discontinuità, la struttura e l’azione, la lunga durata e la congiuntura, che sono filtrate e mistificate da lenti appannate. Si può scoprire che esso sia in effetti, in aspetti determinanti, un dejà vu3. L’enfasi sull’innovazione tecnologica ricorda, infatti, discussioni ultratrentennali sull’«automazione», che furono proprie dell’epoca d’oro del fordismo, della supremazia tecnologica statunitense e della «sfida» lanciata dalle multinazionali nordamericane al capitale europeo.
Considerazioni analoghe valgono per l’opposizione tra nazionale e mondiale, che spesso interseca quella fra rigidità fordista e flessibilità postfordista: in questo caso, si dice, la globalizzazione dei mercati e la loro accresciuta instabilità svuotano di sostanza lo Stato nazionale ed impediscono i compromessi sociali «keynesiani».
Si corre il rischio di perdere di vista la varietà dei «modelli di sviluppo» dei centri (statuali-nazionali) dell’accumulazione e dei modi in cui si sono costruiti, e si stanno ristrutturando, i meccanismi della riproduzione allargata del capitalismo su scala mondiale. Può sfuggire il fatto che, se è possibile individuare nella storia del capitalismo dei periodi dotati di certe peculiari caratteristiche, l’unità che li costituisce risulta da processi che trasformano, riproducono, spostano nel tempo e nello spazio le contraddizioni, costruendone anche di nuove. Così l’epoca «gloriosa» del fordismo assume una uniformità che dimentica le lotte sociali e politiche da cui essa scaturì, i limiti della diffusione del modello fordista-taylorista nella stessa industria manifatturiera, i diversi ritmi di sviluppo e le diverse forme nazionali del fordismo e della sua crisi, i giganteschi processi su scala mondiale su cui si è fondata: e tra questi la più profonda depressione e il più straordinario e barbarico massacro della storia del capitalismo. A questo prezzo la categoria fordismo diventa un ostacolo per l’analisi e la valutazione globale della fase attuale e dei suoi possibili esiti.
I limiti analitici e teorici si esprimono in effetti politico-ideologici che incidono sulle coscienze, gli atteggiamenti, le pratiche.
Questi limiti sono visibili nell’attaccamento nostalgico alle forme socio-economiche (lo Stato sociale) e politiche (la difesa della Costituzione) precedenti l’avvento del post-fordismo, legittimandole a ritroso; oppure nella fantasociologia che afferma mutazioni genetiche del sistema sociale, tali da determinare una nuova «specie sociale», esaltata come promessa di liberazione dal lavoro alienato o, viceversa, temuta come un abisso senza fondo di alienazione integrale. Ma anche nella complicità o subalternità alle politiche correnti ed ai processi «spontanei» di gestione della crisi e di ristrutturazione dei rapporti di produzione, cui corrisponde, in modo antitetico, un antagonismo che mira a costruire «isole rosse», o «verdi», in un oceano mercantile.
LA LEZIONE DI METODO DELLA SCUOLA DELLA REGOLAZIONE E I SUOI LIMITI
Se il fordismo diventa un tipo ideale irrigidito ed uniforme, in cui descrizione e spiegazione della realtà sono piegate alla prescrizione normativa, non conseguirà che descrizione e spiegazione saranno a loro volta alterate? Non accadrà che i caratteri della fase espansiva postbellica, rispetto ai quali si possono definire continuità e discontinuità, saranno estremamente semplificati insieme all’articolazione complessiva del modo di produzione capitalistico, dei suoi fattori dinamici e delle sue contraddizioni?
Nella «scuola» marxista francese detta della regolazione il fordismo è una forma complessiva dei rapporti sociali nei paesi a capitalismo avanzato, che comprende una particolare organizzazione del processo di lavoro4 ma che non si riduce ad essa.
Un regime di accumulazione intensiva, di cui il fordismo non è che il primo tipo storico, è caratterizzato dal fatto che le condizioni di riproduzione della forza lavoro sono integralmente sussunte nella logica dello sviluppo capitalista e che il rapporto salariale è generalizzato: in altri termini, la riproduzione della forza lavoro dipende completamente dai rapporti mercantili e le forme sociali pre-capitaliste sono dissolte o ridotte ai minimi termini.
Per i regolazionisti il regime di accumulazione che, a partire dagli Stati Uniti, ha assicurato la lunga crescita nei due decenni successivi alla seconda guerra mondiale, si è basato sullo sviluppo parallelo della produttività nella produzione di mezzi di produzione e nella produzione di beni di consumo durevoli, e su un analogo parallelismo della produttività e dei redditi salariali, tali da sostenere tanto il consumo di massa che un alto tasso di plusvalore relativo.
La crescente socializzazione della riproduzione del salariato nel quadro dei rapporti capitalistici è anche il motivo per cui essa è in parte assunta dallo Stato, che fornisce anche le infrastrutture necessarie al consumo individuale delle merci acquistate sul mercato.
Per i regolazionisti a un regime di accumulazione corrisponde un modo della regolazione che rende coerenti i comportamenti dei soggetti economici: insieme, costituiscono un modello di sviluppo stabile. Concetto analogo è stato elaborato da alcuni studiosi marxisti statunitensi: le «strutture sociali dell’accumulazione»5.
Al regime di accumulazione intensiva fordista corrisponde un modo di regolazione monopolista, i cui pilastri sono costituiti dalla contrattazione collettiva e dal ruolo di mediazione degli apparati sindacali, dalla formazione oligopolistica dei prezzi, dal ruolo fondamentale del credito, dalla politica economica «keynesiana».
Non è questa la sede per discutere in modo critico ed approfondito l’elaborazione, peraltro non omogenea, della scuola della regolazione.
Una lezione di metodo che ci viene da questa scuola ritengo però abbia grande valore: la definizione di un «modello di sviluppo» storico del capitalismo passa attraverso l’analisi delle contraddizioni e delle interdipendenze tra i grandi settori dell’accumulazione del capitale e tra questi ed i livelli e le modalità del consumo, costituendo un nesso problematico con le forme, istituzionali e non, che ne organizzano la relativa, sempre transitoria, coesione.
Questo significa che i livelli ed i tipi della meccanizzazione e delle forme dell’organizzazione del lavoro sono variabili fondamentali, ma non autonomamente ed univocamente determinanti. La «rivoluzione» di Henri Ford, come ben sapeva Antonio Gramsci, non fu solo questione di meccanizzazione e di organizzazione del lavoro, ma di articolazione tra produzione di massa e consumo di massa (quindi di livelli salariali, organizzazione della vendita e del credito). Per affermarsi negli stessi Stati Uniti l’«americanismo», inteso come fordismo, richiese due passaggi critici di straordinaria portata, complessità e tragicità: la Grande depressione e la Seconda guerra mondiale. Attraverso questi passaggi la totalità sociale si ristrutturò in tutte le sue sfere, in un movimento che non può essere ridotto alla generalizzazione delle trasformazioni microeconomiche e tecniche.
La maturazione della scuola della regolazione si è espressa nella definizione delle diverse forme e dei diversi tempi e modi di sviluppo nazionali del fordismo («flessibile» per la Germania, «di Stato» per la Francia, «ostacolato» per la Gran Bretagna, «ritardato» per l’Italia) e nella individuazione di diversi regimi di accumulazione su scala internazionale.
Il livello d’analisi programmaticamente prevalente della scuola della regolazione è però quello nazionale e delle relazioni internazionali.
Manca, in essa, la concezione dell’economia-mondo come articolazione sistemica di centro, periferia e semiperiferia di Wallerstein, con le implicazioni relative ai rapporti fra politica ed economia ed alla divisione del lavoro intellettuale, o l’articolazione spaziale dell’economia mondiale fondamentale in studiosi quali Ernest Mandel, Charles-Albert Michalet e Michel Beaud.
Si potrà obiettare che la «globalizzazione» è una delle chiavi dei modelli postfordisti e che, nelle versioni di sinistra, solitamente fosche (e c’è motivo per essere pessimisti: ma non è detto che le ragioni e le previsioni siano le stesse), venga superata la dicotomia «vetero-marxista» fra struttura e sovrastruttura. Personalmente dubito che l’innesto italiano tra togliattismo di sinistra e operaismo costituisca un autentico e costruttivo superamento di quella dicotomia (non sarà, piuttosto, un eclettismo rivelatore di quanto vi sia sempre stato di economicistico e di volontarismo politico in quelle tendenze?), non parliamo poi della fantasociologia alla Gorz6.
Il punto è che le correnti versioni della globalizzazione sono anch’esse semplificazioni ideal-tipiche, al pari di ciò che, in genere, è indicato come «fordismo». Manca in esse la dialettica di nazionale, internazionale, multinazionale e mondiale che impedisce di «ridurre la crisi alla sua sola dimensione mondiale, o alla sua sola dimensione nazionale (crisi del fordismo o del rapporto salariale ...), o alle sue sole manifestazioni internazionali»7. L’economia mondiale non è concepita come prodotto simultaneo sia delle specificità differenzianti, inerenti alle formazioni sociali nazionali, sia dei processi integratori8.
AVVERTENZE SU UN POSSIBILE REGIME DI ACCUMULAZIONE POSTFORDISTA.
Se si resta al solo livello microeconomico la fase attuale potrebbe propriamente essere definita come neofordista, tanto più se non si pone una stretta identità tra fordismo e taylorismo.
Il Giappone, per tanti patria del postfordismo, ha conquistato l’attuale posizione nell’economia mondiale estendendo e intensificando le potenzialità della produzione di massa adottando una variante «flessibile» del fordismo, diversa da quella «rigida» statunitense. Né è secondario che la regolazione attraverso i keiretsu sia fortemente monopolistica ed integrante, in pratica, tutti i campi dell’attività economica, o che il ruolo del Miti (Ministero dell’industria e del commercio estero) non si concilia granché con l’ortodossia liberale.
Discorso diverso si può invece fare al livello della regolazione del rapporto salariale e dei rapporti fra le grandi aree interne al centro. È a questo livello che è chiara l’inversione, con caratteri apparentemente «pre-keynesiani», della politica economica e la discontinuità nei confronti del fordismo e della sua epoca d’oro.
Un modello di sviluppo postfordista è dunque possibile. Ma sono anche necessarie delle considerazioni di metodo, delle avvertenze nell’immaginare ipotetici scenari.
La prima considerazione è che l’idea che i rapporti fra il mercato e lo Stato siano un gioco a somma zero, in cui all’accrescersi dello spazio dell’uno corrisponda il ridursi dello spazio dell’altro, è fuorviante. Cambiano le politiche, si trasformano le strutture, ma quel ruolo cruciale dello Stato nella regolazione economica delineatosi in modo moderno (non meramente mercantilista) nella Grande depressione è destinato a persistere e per certi versi a svilupparsi. Un’economia mondiale capitalista non è concepibile senza gli Stati territoriali, la loro gerarchia, i loro conflitti, il loro ruolo strutturale nella riproduzione del capitale e del salariato.
Se la ristrutturazione della regolazione produce, sotto i colpi dell’offensiva borghese, i suoi effetti più evidenti e dolorosi nei confronti dei salariati, la sua forma definitiva dipenderà, in gran parte, dal diverso articolarsi delle funzioni economiche statuali in rapporto alla ridefinizione dell’«esterno» e dell’«interno» e dei rapporti fra capitale produttivo e monetario. La rottura postfordista risiede nel modo in cui i vincoli internazionali sono internalizzati dalla regolazione. La posizione nella divisione internazionale del lavoro sarà decisiva per la dinamica del rapporto salariale. Con le parole di Alain Lipietz: «gli Stati Uniti pompano plusvalore mondiale e nel contempo offrono sbocchi a questo plusvalore. In altri termini, permettono nel resto del mondo un rilancio attraverso l’esportazione e nel contempo gli impediscono un rilancio attraverso gli investimenti» (9).
L’asimmetria e le contraddizioni derivanti dalla posizione di moneta «quasi-chiave» del dollaro, da una parte, e dalla situazione finanziaria degli Usa, centro della finanza mondiale e primo debitore del mondo, dal relativo declino della superiorità industriale Usa di fronte al «recupero» strutturale compiuto dal Giappone e dalla Germania, spiegano il persistere della stagnazione, in particolare in Europa, a causa dell’orientamento deflazionistico sostituitosi alle «svalutazioni competitive».
La fase attuale, intanto, non costituisce un «modello di sviluppo» nel senso di una configurazione dell’accumulazione e della regolazione dotata di coerenza. L’assenza di un centro egemonico forte è la ragione principale del fatto che le rivalità inter-capitaliste, in un quadro che rende impossibile od altamente improbabile la frammentazione dell’economia mondiale, bloccano le possibilità di ripresa.
In questa prospettiva la «flessibilità», con annessi e connessi, è ancora più lo «strumento» di gestione di una fase di stagnazione che un quadro complessivo tale da assicurare stabilità e crescita del sistema.
La seconda considerazione è quindi che un modello postfordista incorporerà alcune delle trasformazioni e delle sperimentazioni di questa fase, ma non è derivabile direttamente da essa: non si può determinare una forma compiuta e completa né estrapolando dal microeconomico al macrosociale né estrapolando dal breve al lungo termine.
Ciò vale per i rapporti internazionali come anche per i rapporti tra le diverse aree interne alla stessa formazione sociale, e per i rapporti tra i settori e le strutture dell’organizzazione industriale. In quest’ultimo caso settori caratterizzati dalla produzione di massa «flessibilizzata» potranno convivere con reti industriali del tipo della specializzazione flessibile e con più tradizionali modi fordisti.
La terza considerazione è che la formazione di un nuovo modello di sviluppo dipenderà in gran parte dalla rinnovata capacità offensiva dei salariati e dai suoi effetti sulla regolazione, ovvero dalla costituzione di un blocco sociale-politico in grado di spostare nel tempo e nello spazio le contraddizioni fra la «globalizzazione» del capitale e la riproduzione nazionale della forza lavoro.
La riproduzione allargata del capitale ha bisogno del consumo di massa: il «sovraconsumismo» dei ricchi non è sufficiente alla fuoriuscita da una crisi di sovrapproduzione. Il successo attuale del capitalismo nella svalorizzazione della forza lavoro è, sul lungo periodo, un fattore di debolezza e, sul breve periodo, il motivo della persistenza della bassa crescita: «la crisi può verificarsi nelle economie capitaliste sia perché la classe capitalista è “troppo forte” sia perché è “troppo debole”»10. Nel primo caso la crisi parte dalla produzione del plusvalore, nel secondo dalla sua realizzazione. Un relativo equilibrio fra produzione e consumo, con la riduzione della quota di disoccupati e di giovani in cerca di prima occupazione è necessaria. La subalternità dei sindacati e di quel che era la sinistra alla flessibilizzazione ed alla svalorizzazione della forza lavoro fa un cattivo servizio al sistema che servono. Un pizzico di «radicalità» nei paesi più forti (Usa, Germania o Giappone, tanto meglio se simultanea), in un ciclo ascendente di quella che è una fase lunga stagnante, potrebbe creare le condizioni per stabilizzare su una base realmente postfordista la coppia accumulazione-regolazione, le norme di produzione e di consumo, generando una nuova fase lunga espansiva.
Ciò significa anche che la produzione di massa, per quanto «flessibilizzata» ha un lungo futuro: ma le norme di consumo dei salariati dovranno cambiare, forse attraverso l’auto-produzione di servizi, che richiederanno non solo software ma hardware, forse con una diversa articolazione del tempo di lavoro e del tempo «libero», ancor più integrato nella riproduzione del capitale. Il che si concilierebbe con il ridimensionamento della spesa pubblica in servizi mentre, nello stesso tempo, si amplierebbero le entrate e le risorse statali spendibili; e non è detto che smussare gli aspetti più negativi e squilibranti della segmentazione della forza lavoro comporti il rinnovarsi delle «rigidità» sociali del fordismo, già spezzate, o il persistere di alti livelli di disoccupazione.
Ma, quarta considerazione, dati i livelli raggiunti dall’internazionalizzazione, un modello di sviluppo postfordista avrà su scala internazionale minori possibilità di imitazione da parte dei «ritardatari», essendo piuttosto riservato al «centro del centro», ed una configurazione strutturalmente in opposizione al «recupero» (al contrario del fordismo). La disomogeneità delle norme di consumo e delle strutture produttive e del mercato del lavoro potrebbe aumentare tra gli stessi paesi centrali accentuando le differenze gerarchiche nell’economia mondiale. Questa potrebbe essere la sua contraddizione fondamentale ma, nondimeno, la divisione internazionale del lavoro potrebbe trovare le sue «locomotive» e una certa coerenza.
Se, quando e come questo avverrà non è predicibile. E se non sarà l’inferno non sarà neanche il paradiso telematico. L’Italia ha tutte le carte in regola per essere fra i «ritardatari».
Note
1) Si possono distinguere diversi tipi e gradi di «flessibilità» e «rigidità»: numerica o occupazionale, funzionale (relativa ai ruoli nel processo di lavoro), intensiva (relativa all'intensità del lavoro), geografica; ma anche in riferimento alla capacità di variare il design e il volume di determinati prodotti o mix di prodotti o parti, o di distribuirne la lavorazione attraverso il sistema di macchine. In Blackburn P., Coombs R., Green K.,Technology, economic growth and the labour process, Macmillan, London, 1985 vengono discusse ampiamente diverse forme di meccanizzazione e di organizzazione del lavoro, correlandole alla discussione sulle «onde lunghe». Si vedano anche: a cura di Stephen Wood, The transformation of work? Skill, flexibility and the labour process, Unwin Hyman, London, 1989; a cura di Anna Pollert, Farewell to flexibility?, Basil Blackwell, Oxford U. K., Cambridge, Mass. (Usa), un testo critico sulla «flessibilità» come paradigma economico e sociologico. Un sintetico quadro riassuntivo dei vari aspetti della flessibilità, da un punto di vista complessivamente simpatizzante, è in La sfida della flessibilità, Angeli, Milano, 1988 a cura di Marino Regini. Di grande importanza è la «flessibilità» nelle relazioni industriali, intesa come passaggio dalla concertazione nazionale alla «micro-concertazione»: Colin Crouch, «La flessibilità come strategia sindacale», in Marino Regini op. cit. e dello stesso Regini, «Le condizioni dello scambio politico: nascita e declino della concertazione in Italia e Gran Bretagna», inStato e mercato n. 9, 1983 e «Dallo scambio politico centralizzato alla micro-concertazione», Politica ed economia n. 12, 1989; il suo saggio in Le strategie di riaggiustamento industriale, Il Mulino, Bologna, a cura di Regini e Sabel. Si veda anche il saggio di Gianprimo Cella in Stato e regolazione sociale, Mulino, Bologna, 1987, a cura di Peter Lange e di Regini. Per un quadro complessivo dell'evoluzione del rapporto «flessibilità-rigidità» nei paesi europei: Robert Boyer, E. Wolleb (a cura di), La flessibilità del lavoro in Europa, Angeli, Milano, 1987.
2) Il testo fondamentale di Michael Piore e Charles Sabel è The second industrial divide: possibilities of prosperity, Basic Books, N. Y., 1984, trad. ital. Le due vie dello sviluppo industriale, Isedi, Milano, 1987; degli stessi «Keynesismo internazionale e specializzazione flessibile», in Carrieri M., Perulli P. (a cura di), Il teorema sindacale, il Mulino, Bologna, 1985. Del solo Sabel: Work and politics, Cambridge U. P., Cambridge 1982, «Industrializzazione del Terzo Mondo e nuovi modelli produttivi», in Stato e mercato n. 17, agosto 1986. Sulla «Terza Italia» ed i distretti industriali di piccole e medie imprese con «specializzazione flessibile», si vedano i lavori di Arnaldo Bagnasco, Guido Rey, Carlo Trigilia, Becattini. In particolare di Trigilia, «Sviluppo, sottosviluppo e classi sociali in Italia», in Rassegna italiana di sociologia, XVII n. 2, 1976 e in Paci 1978; «La regolazione localistica. Economia e politica nelle aree di piccola impresa», inStato e mercato n. 1, 1985; «Small firms development and political subcultures in Italy», in European sociological review, n. 2(3), 1986 e in Goodman , Barnford , Saynor (a cura di), Small firms and industrial districts in Italy, Routledge, London e N. Y. 1989. Di Bagnasco, tra i primi e più importanti studiosi della «Terza Italia»: «La costruzione sociale del mercato: strategie di impresa e esperimenti di scala in Italia», in Stato e mercato n. 13, 1985 e La costruzione sociale del mercato, il Mulino, Bologna 1988; l'articolo di Archibugi D., «Uso e abuso della specializzazione flessibile», Politica ed economia n. 9, 1988. Per la comparazione internazionale delle tendenze della piccola e media impresa: a cura di Piore, Senberger, e Loveman, The re-emergence of small enterprises, International Institute for Labour Studies, Geneva, 1990.
3) Così è per Richard Hyman, «Plus ça change? The theory of production and the production of theory», in Farewell to flexibility?
4) Il testo fondamentale della «scuola della regolazione» è quello di Michel Aglietta, A theory of capitalist regulation. The U. S. experience, New Left Books, London, 1979. Dello stesso: «Wordl capitalism in the eighties», New left review n. I/136, 1982, Il dollaro e dopo, Sansoni 1988; di Aglietta e Andrè Orlèan, La violence de la monnaie, Presses Universitaries de France, Paris, 1982 e con Anton Brender, Les mètamorphoses de la sociètè salariale. La France en project, Calmann-Lèvy, Paris, 1984. Di Alain Lipietz: Crise et inflation: pourquoi?, Maspero, Paris 1979; «Towards global fordism?,New left review n. 132 1982; L'audace ou l'enlisement. Sur les politique èconomiques de la gauche, La Dècouverte, Paris, 1984; Le monde enchantè. De la valeur a l'envol inflationniste, La Dècouverte, Paris 1983; Mirages et miracles. Problèmes de l'industrialisation dans le Tiers Monde, La Dècouverte, Paris 1985; «La mondializzazione della crisi generale del fordismo», in Riccardo Parboni (a cura di), Dinamiche della crisi mondiale, Editori Riuniti, Roma, 1988; «The debt problem, european integration and the new phase of wordl crisis», in New left review novembre-dicembre 1989; Choisir l'audace. Une alternative pour le XXI siècle, La Dècouverte, Paris 1989. Di Robert Boyer: «La crise actuelle: una mise en perspective historique», in Critiques de l'economie politique n. 7/8, aprile-settembre 1979; La thèorie de la regulation: une analyse critique, La Dècouverte, Paris 1986, «Alla ricerca di alternative al fordismo: gli anni Ottanta», in Stato e mercato n. 24, 1988. Boyer con Jacques Mistral,Accumulation, inflation, crises, Presses Universitaries de France, Paris, 1978, trad. ital. Mulino 1985. Come quello citato sulla flessibilità in Europa, anche il volume Capitalismes fin de siecle, Presses Universitaries de France, Paris, 1986 è stato curato da Boyer,.
Una critica complessiva della teoria della regolazione è stata svolta di recente da Robert Brenner e Mark Glick: «The regulation approach: theory and history», in New left reviewn. I/188, luglio-agosto 1991; in italiano: Michele Salvati, «Rapporto salariale e flessibilità: ovvero teoria della regolazione e political economy», in Stato e mercato n. 24, 1988.
5) Si vedano di David Gordon, Richard Edwards, e Michael Reich, Segmented work, divided workers, Cambridge University Press, Cambridge, 1981, Samuel Bowles, Gordon e Thomas Weisskopf, Beyond the waste land. A democratic alternative to economic decline, Dobleday, Garden City, N. Y., e i saggi su Metamorfosi n. 1, 1986.
6) Si veda l'articolo di Riccardo Bellofiore, «Lavori in corso per "Appuntamenti di fine secolo"», in Politica ed economia n. 6, dicembre 1995.
7) Beaud Michel, Le systeme national mondial hierarchisè, La Dècouverte, Paris, 1987, pag. 118.
8) Michalet Charles-Albert, Le capitalism mondial, Presses Universitaries de France, Paris, 1985, con critiche proprio su questo punto alla scuola della regolazione.
9) Lipietz in Parboni 1988, pag. 258.
10) Bowles, Gordon e Weisskopf, in The imperiled economy, Book I: macroeconomics from a left perspective, Union for radical political economics, New York, 1987, ripreso inRadical political economy. Explorations in alternative economic analysis, Sharpe, Armonk, New York, 1996, pag. 226.
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