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domenica 31 luglio 2011

LA CATASTRÒFA Marcinelle 8 Agosto 1956

Dal sito ANOIPIACE

Io mi domando Gesù Cristo che stava a pensa’.

I corpi ritrovati il 9 dicembre 1957 sono come pietrificati o mummificati. La carne è ridotta in polvere e mescolata con la terra e il ghiaione. Gli scheletri sono relativamente completi. Le ossa essiccate. Sono stati ritrovati frammenti di tessuto, pezzi di cuoio, fibbie e cinture, sandali di caucciù leggermente fusi, bidoni sgualciti, oggetti personali come orologi, fedi, lampade elettriche numerate in pessimo stato. (Rapporto Commissione d’Inchiesta Governo Belga)

Un giorno della primavera 1986, davanti al Cazier, Angelo Galvan, già molto malato, disse a memoria i nomi dei 262 morti. Pare lo facesse spesso.

Nell’epoca moderna il lavoro dovrebbe essere considerato uno strumento di emancipazione, le conquiste sociali del ‘900 andavano in questa direzione, ma i ricchi, il sistema capitalista, si è sempre opposto a questo principio, e la storia degli operai, di ieri e di oggi, è storia di sfruttamento, sacrifici, povertà, malattie, tragedie; spesso unificate sotto la voce emigrazione.

La catastròfa il bellissimo libro di Paolo Di Stefano, giornalista del Corriere della Sera, tratta di questi temi. Racconta la tragedia di Marcinelle, Belgio, e lo fa secondo la migliore tradizione della storia orale e dell’inchiesta vecchio stile. Di Stefano si reca in Belgio, ritorna in Italia, incontra i vecchi minatori sopravvissuti, le loro famiglie. Intervista le vedove, i figli – alcuni all’epoca della tragedia non erano ancora nati, altri avevano pochi giorni – tutti, indistintamente, segnati per l’intera vita da quel dramma.

Era l’8 agosto 1956 a Marcinelle, quella prima mattina il cielo era azzurro come raramente si vedeva da quella parti, tutti hanno il ricordo nitido di quella che si preannunciava una bella giornata. Fu subito offuscata dal fumo che saliva dalla miniera, la catastròfa che si manifesta. Moriranno 262 minatori provenienti da 12 paesi diversi, 136 sono italiani: veneti, abruzzesi, marchigiani, siciliani.

È Vincenzo a parlare: “Eppure noi li sentivamo i vecchi che dicevano sempre in miniera sai quando scendi ma non sai se rimonti, e ricordatevi che il grisù è un gas. Poi però, quando sei sotto nel pozzo, c’è un’amicizia che ti fa pensare che sei forte e nessuno può farti male, neanche il grisù. Dici siamo tutti qua nello stesso inferno e se non succede niente, un pezzo di pane ce lo mangiamo insieme.”. Sotto nella miniera non esistevano nazionalità o regioni, appartenevano tutti alla famiglia dei minatori, non c’era Nord e Sud nella mina, se qualcuno si era dimenticato di portarsi appresso il pranzo il compagno lo divideva con lui, le difficoltà si affrontavano insieme. Quando salivi era diverso, per gli immigrati italiani la vita era dura. Dovevi fare i conti con i soliti luoghi comuni razzisti: sono venuti a mangiarci il pane e a portarci via le donne. Alcuni locali sulla porta recavano la scritta “ni chiens ni italiens”.

Quando arrivavano nel Belgio i minatori erano alloggiati in baracche che erano servite per rinchiudere i prigionieri di guerra tedeschi e polacchi. Erano alloggi indecenti senza bagni interni e una fontana in comune all’aperto. In quegli anni il governo italiano si era impegnato a inviare nelle miniere belghe 2.000 uomini alla settimana senza preoccuparsi troppo delle condizioni di vita e di lavoro di quella gente. Per ogni mille operai che partivano per le miniere il governo belga ricompensava l’Italia con 2.500/5.000 tonnellate di carbone mensili a secondo della produzione.

Nella mina il lavoro era pesante, per la produzione giornaliera dovevi scavare 9 metri cubi di carbone, guadagnavi 320 franchi che bastavano appena, allora per qualche franco in più si lavorava a cottimo e si rischiava la vita. Antonio racconta: “quando si rimontava al giorno ci domandavamo sempre – Ehi, quanti caduti oggi? – Dove si rompeva la cinta, dove cadeva la frana, dove scoppiava un’esplosione o un incendio. È normale, la sicurezza non contava niente, contava solamente u carbone. U governo belga scriveva in Italia: mandami nu tot di persone, e u governo italiano mandava carne da maciello, De Gasperi aveva fatto u contratto e chi moriva moriva e chi campava era chiù fortunato.”.

La tragedia di Marcinelle è stata provocata dalla totale assenza di misure di sicurezza in una miniera obsoleta anche per quell’epoca, a cui si sono aggiunti errori umani e disorganizzazione nei soccorsi. Una tragedia che si sarebbe potuta evitare se solo si fosse messo in primo piano la sicurezza, il rispetto per la vita, per i lavoratori e per il lavoro; invece ha prevalso il profitto, ieri come oggi. Il profitto e il potere che hanno poi impedito alla giustizia di fare il suo corso. I veri colpevoli di quel disastro non saranno mai condannati. Da subito fu una corsa ad occultare, insabbiare, in seguito a dimenticare.

La catastròfa ha il merito di riportare alla memoria quei fatti attraverso testimonianze e documenti, togliendo dall’oblio storie commoventi, storie molto belle, intrecciate con la storia dell’emigrazione italiana del secondo dopoguerra.

Un libro che merita di essere letto perché, come spiega Goffredo Fofi in un suo recente articolo, ci ricorda la necessità della “lotta di classe”, le sue eterne ragioni. O come dice Peppe: “e io penso che il mondo marcia marcia, ma per i poveracci marcia sempre da fermo mentre che per i ricchi signori minchioni marcia in avanti sempre meglio”. Già, i ricchi signori minchioni.

h.

Un sito utile: http://vergaelen.michel.ibelgique.com/Marcinelle.htm


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