di Claudio Bellotti
dal sito FalceMartello
Queste note vengono scritte mentre mancano pochi giorni alla manifestazione del 15 ottobre, e poche ore dopo che il governo Berlusconi ha subìto l’ennesima battuta d’arresto (bocciatura del rendiconto finanziario alla Camera); bastano questi due esempi per capire come il percorso congressuale del Prc, che ci impegnerà fino ai primi di dicembre, si tenga in un contesto straordinario: i processi economici e politici stanno enormemente accelerando attorno a noi, e questo è un bene: non faremo una discussione “in provetta”, ma nel mezzo di una tempesta che deve scuotere anche il nostro dibattito.
È con questo spirito che ci confrontiamo con la mozione proposta dalla segereteria nazionale del Prc, alle quali abbiamo deciso di contrapporre la mozione “per un partito di classe” (mozione 2).
Colpisce, in primo luogo, che nella prima mozione sia pressoché assente qualsiasi analisi del conflitto che da due anni attraversa il nostro paese. Nelle 25mila parole del testo trova posto quasi tutto, dal bilancio del craxismo alla questione del popolo Saharawi, ma, solo per fare un esempio, la parola “Pomigliano”, pure in passato definita più volte la madre di tutti i conflitti, non viene mai scritta…
Non si tratta di un lapsus: la maggioranza ha scritto un testo per parlare ad altri: alle burocrazie sindacali, agli stati maggiori del centrosinistra, al quadro del partito che si ritiene debba essere consolato per la evidente cattiveria di un mondo che ha ridotto il nostro partito a uno stato dolente; non ritiene, invece, di scrivere un testo che parli agli operai, ai precari, agli immigrati, ai protagonisti del conflitto reale, ai giovani che si radicalizzano rapidamente guardando avvenimenti epocali, da Tunisi a New York…
Il nostro congresso dovrebbe discutere a nostro avviso di tre cose:
1) La crisi e la nostra risposta, ossia quale programma proponiamo al movimento operaio.
2) Gli sbocchi possibili della crisi di Berlusconi e la nostra strategia.
3) Una analisi dei conflitti reali che attraversano il nostro paese, a partire dal conflitto di classe, e del ruolo del Prc al loro interno.
Su questi punti intendiamo concentrare la nostra analisi. Per questo citiamo solo brevemente la prima parte del documento, peraltro retorica e prolissa, soprattutto per segnalare come questa contraddica radicalmente quanto proposto successivamente. Si sprecano i proclami sulla impossibilità di una politica di riforma del capitalismo, sull’alternativa “socialismo o barbarie”, sulla “demercificazione”, il tutto in nome di una idea di comunismo totalmente gradualista, fondata essenzialmente sull’ipotesi che da un progressivo allargamento della sfera dei “beni comuni” possa nascere una società diversa.
Un programma economico minimalista
Le proposte sulla crisi sono:
- Modifica dei trattati di Maastricht e dello statuto della Bce che deve essere sottoposta al parlamento europeo. Si propone un sistema fiscale unico e una politica fiscale unica. Siamo quindi pienamente interni all’idea che più Europa (naturalmente un’Europa sociale, democratica e tanti altri begli aggettivi) sia la risposta alla crisi. Alcune domande sorgono spontanee: non nota, Ferrero, che una politica economica comune esiste già da vent’anni? È la politica delle privatizzazioni, dell’austerità, della precarizzazione, ecc. Ora, si dice che tutto questo avviene perché l’Unione europea è antidemocratica e che se il parlamento europeo avesse poteri reali le cose andrebbero diversamente. Tuttavia, come lo stesso documento segnala, i tre gruppi principali che compongono circa l’80 per centro dell’europarlamento (socialisti, popolari, liberaldemocratici) sono tutti seguaci fedeli delle politiche dettate dai banchieri. Dove sarebbe dunque la novità?
- Ancora più irrealistica l’idea di imbrigliare la finanza con misure di gestione e riforma dei mercati, proposte che definire minimaliste è ancora troppo, quali il divieto della vendita allo scoperto; sulla connessione inevitabile tra speculazione e capitalismo non si riflette, o meglio non se ne trae alcuna conclusione seria. Ridicola la proposta di istituire una “autorità sovranazionale di regolazione dei mercati finanziari che vigili su derivati, hedge funds, ecc.”… bellissimo: in un paese dove le autorità non sono capaci di far pagare nemmeno le tasse ai gioiellieri, i comunisti devono lottare per l’“autorità sovranazionale” (chi la organizza? Chi la controlla? Chi la gestisce? Chi le conferisce i poteri?) che dovrebbe controllare flussi speculativi che, ricordiamolo, ogni giorno muovono sui mercati mondiali qualcosa come 4000 miliardi di dollari, di cui solo il 10 per cento copre transazioni dell’economia reale.
Si propone infine di ristrutturare il debito italiano, se necessario unilateralmente, prendendo ad esempio l’Islanda. Demagogia pura, se consideriamo che il default islandese corrisponde a una minuscola frazione della ormai inevitabile insolvenza greca, per non parlare di una ipotetica insolvenza italiana. Non pagare il debito, o parte di esso, è un atto che può essere compiuto solo in due modi: il primo è quello argentino, che è stato alla fine pagato pesantemente dai risparmiatori che dalla sera alla mattina hanno trovato i conti correnti bloccati, e da tutti i redditi fissi (salariati e pensionati) che sono stati pesantemente colpiti dalla svalutazione successiva. L’alternativa è che il non pagamento faccia parte di una strategia più complessiva di conflitto col sistema, che inevitabilmente conduce alla prospettiva di una rottura rivoluzionaria col capitalismo.
Il documento accenna poi la proposta di nazionalizzare le banche d’interesse nazionale e di istituire una “nuova Iri” come strumenti per condurre una politica industriale, unita a una certa restrizione degli scambi internazionali per contrastare la concorrenza dei paesi a bassi salari. Siamo in pieno amarcord anni ’60, alla faccia della “impossibilità delle riforme”. Tutto il documento in realtà è pervaso da questa illusione del ritorno indietro: tornare al proporzionale, tornare al capitalismo di trenta o quarant’anni fa, a un commercio più regolato, a una finanza meno pervasiva… rivendicazioni che anche se molto parziali di per sé non sono sbagliate quali la patrimoniale o una maggiore equità fisale, poste in questa ottica assumono fatalmente un carattere di impotenza e di utopismo.
Un centrosinistra irreale
Centrale nella mozione 1 è l’analisi proposta sul Pd e il centrosinistra. Il capitolo “centro sinistra e nuovo Ulivo”, nel quale pare di riconoscere il pedantesco argomentare di Alberto Burgio, ruota tutto attorno al concetto di contraddizione. Il nuovo Ulivo in gestazione, ci si dice, è un coacervo di contraddizioni che aprirebbero ampi spazi per la nostra iniziativa. Certo, agli estensori non sfugge che il Pd ha alcuni difettucci: si schiera per le guerre della Nato, per l’Europa di Maastricht, abbraccia il liberismo e il sistema bipolare, ma vivaddio, non vorremo mica fermarci a questi dettagli… Esiste, si dice, un popolo di sinistra che aspira a una trasformazione sociale e a politiche più a sinistra di quelle di Bersani e Letta. Giusto, la contraddizione esiste. Il problema però è capire quale polo della contraddizione prevale. Anche il governo Prodi del 1996-98 inglobava forti contraddizioni, non fosse altro per la presenza del Prc nella sua maggioranza. La contraddizione venne risolta con la sconfitta del nostro partito, la scissione del Prc e l’ulteriore spostamento a destra del centrosinistra. Il secondo governo Prodi (2006-2008) aveva altrettante e ulteriori contraddizioni, non solo al suo interno, ma anche con una base sociale che negli anni precedenti era stata protagonista di grandi movimenti, da Genova 2001 fino alle lotte per l’articolo 18, contro la guerra nel Golfo e alle esplosioni operaie di Melfi, degli autoferrotranvieri e tante altre. Ancora più drammaticamente la contraddizione si risolse con la distruzione della sinistra Arcobaleno. Chi pontifica sulle “profonde contraddizioni” del nuovo Ulivo dovrebbe anche dire come e perché ritiene che questa volta inserendoci in quel campo dovremmo essere noi a prevalere.
La pietra filosofale risulta essere, secondo gli estensori del documento, la necessità di “modificare a fondo i programmi che impegnano i parlamentari”. E qui si cade nel ridicolo: da quando in qua i programmi elettorali “impegnano” i governi? Non bastano un paio di secoli di storia della democrazia borghese per distinguere le chiacchiere parlamentari dalla sostanza del dominio di classe?
Altrettanto fantasiosa l’analisi proposta sul ruolo di Sel, alla quale si dice guarderebbero “molti compagni e compagne radicalmente critici nei confronti del Pd che auspicano la costruzione di una sinistra unitaria, non certo di un nuovo Ulivo”. La realtà è esattamente capovolta: Sel raccoglie una critica da sinistra al Pd precisamente perché si propone di sostituirne, attraverso le primarie, la leadership. La strategia che essa persegue con determinazione, ossia la cancellazione del Prc e la annessione del nostro elettorato, si inserisce in una strategia del tutto interna al centrosinistra. Peraltro, pure essendo illusoria, questa strategia ha il pregio della coerenza e proprio per questo ha fatto premio nei confronti delle eterne oscillazioni di Ferrero e del tentativo di collocare il Prc su una posizione di appoggio esterno al centrosinistra: posizione che, come tutte le linee mediane tracciate artificialmente nel conflitto di classe, si presta mirabilmente ad essere demolita sia da destra che da sinistra…
Polo di sinistra o quinta ruota del carro?
Da questa analisi discende la proposta di costituire il famoso Fronte democratico col centrosinistra, accanto alla quale si suggerisce a mezza voce l’idea di una desistenza unilaterale nel caso che il Pd proprio non ci voglia imbarcare. È importante sottolineare la proposta del Fronte democratico vanifichi completamente l’idea di costruire un “polo della sinistra di alternativa”. Un polo alternativo ha senso se è veramente tale, ossia se oltre ad avere un programma e una base di classe alternativi al Pd, si costituisce in modo distinto e contrapposto. Altrimenti non di polo alternativo si deve parlare, ma di ruota di scorta.
La ormai celebre lettera della Bce nella quale Trichet e Draghi dettano al governo italiano la linea di privatizzazioni, distruzione dei diritti dei lavoratori, attacco alle pensioni e ai dipendenti pubblici, è stata così commentata dal vicesegretario del Pd Enrico Letta: quelle sono le politiche che qualsiasi governo venga dovrà mettere in atto. Questa è la pura verità e Ferrero lo sa bene quanto noi. Ora, come si può credere che con spostamenti millimetrici e astuzie che durano un giorno (“ci alleiamo alle elezioni ma non entriamo nel governo, però voteremo la fiducia pur restando indipendenti”) si possa essere capiti dai lavoratori? La lettera della Bce è lo spartiacque: di là ci saranno i padroni e tutti i governi che saranno in grado di mettere in piedi; di qua ci saranno milioni di lavoratori, di precari, di pensionati, di studenti, che ne subiranno le conseguenze: chi non è in grado di schierarsi con nettezza sarà lacerato e non avrà alcuna possibilità di incidere sulla situazione.
Partito e movimenti
La mozione 1 propone le fantomatiche “primarie di programma” per incidere nelle famose contraddizioni. Si dice che votare sul candidato leader non serve e anzi è dannoso (e allora perché avere sostenuto Pisapia a Milano?) mentre è utile portare “i movimenti e i soggetti sociali che in questi anni si sono battuti contro il neoliberismo e hanno costruito l’opposizione concreta al governo Berlusconi)… come condizione più favorevole per le domande sociali di incidere sullo schieramento antiberlusconiano”. Siamo, quasi alla lettera, alle teorizzazioni del congresso di Venezia (2005) sulla “permeabilità” del centrosinistra alle istanze dei movimenti.
In questa logica il Prc dovrebbe farsi promotore di una vera e propria cooptazione dei movimenti all’interno dei meccanismi dell’alternanza di centrosinistra. Una prospettiva distruttiva tanto per il Prc quanto per i movimenti di lotta ai quali si dice di volere offrire una prospettiva politica. La logica della pressione sul centrosinistra è ben presente nei gruppi dirigenti, nel “ceto politico di movimento”, nei gruppi dirigenti sindacali compresi quelli più a sinistra come quello della Fiom. Dobbiamo aprire una polemica senza settarismi, senza isterismi, ma con grande fermezza, contro tutti coloro che propongono questo tipo di sbocco, si chiamino Casarini, Airaudo, Rinaldini, per non parlare di Vendola, proponendo la prospettiva opposta, che non è la fuga nel movimentismo, ma la costruzione di una vera alternativa politica che sappia raccogliere le istanze più vitali di questi movimenti legandole a una prospettiva di cambiamento della società e quindi inevitabilmente di opposizione al centrosinistra, comunque riverniciato.
È particolarmente ipocrita che questa proposta venga dissimulata con argomenti di sinistra di questo tenore: “i movimenti devono essere autonomi e non occuparsi di schieramenti elettorali”, il che equivale a dire voi lottate e aprite qualche problema a Bersani, noi ne approfittiamo per rafforzarci nella trattativa e per tentare di raggranellare qualche voto.
La Federazione della sinistra
A quasi un anno dal suo congresso fondativo e a oltre due anni dal lancio della proposta, la Fds è oggetto di un capitolo pieno di involontario umorismo. Si comincia con la proposta “a tutti coloro che fanno parte della Fds” di operare per la costruzione di un polo autonomo della sinistra di alternativa: il che equivale a dire non solo che la Fds non è tale polo, ma che gli altri suoi componenti non sono neppure d’accordo su questo obiettivo. Si dice poi che la Federazione “non rappresenta certo la tappa conclusiva dell’aggregazione della sinistra di alternativa”. Sarebbe stato più veritiero scrivere che rappresenta una tappa nella direzione opposta. Si propone di “allargare la federazione, qualificandone il lavoro politico e democratizzandone il funzionamento”, e qui siamo alla farsa. Caro Ferrero, caro Grassi, ma chi, se non voi, ha voluto che la Fds tenesse un congresso farsa nel quale tutto era già deciso in precedenza? Chi se non voi ha impedito che la Fds prendesse posizione sullo sciagurato accordo firmato il 28 giugno dalla Cgil?
Con parole delicate (“superare i limiti”) si dice che la Fds è in stato comatoso. Tuttavia, poiché al peggio non c’è limite, si ribadisce che il partito deve delegare alla Fds tutta la materia elettorale e istituzionale. Ma ancora non basta: morta una federazione, se ne fa un’altra! Ed ecco quindi il documento proporre la “unità della sinistra di alternativa” con tanto di appello rivolto a soggetti imprecisati a partecipare a “un processo unitario a base federativa, partecipato e democratico da costituirsi sulla base di un lavoro politico comune, articolato e sperimentato nei territori e radicato nei conflitti” ecc. ecc. Con sprezzo del pericolo e del ridicolo si rivendica la “forma federativa come punto più avanzato” nella costruzione di una unità della sinistra. Attendiamo con ansia di conoscere le schiere di militanti che faranno la fila per aderire a questa nuova trovata.
A proposito di unità e democrazia
Il documento si conclude con un capitolo sul partito, nel quale si auspica retoricamente che “i gruppi dirigenti che usciranno dal prossimo congresso non siano determinati dalle correnti, ma siano il frutto di una discussione unitaria, partecipata e collegiale all’interno della quale ognuno si senta libero di avanzare proposte senza vincoli di appartenenza”. Considerato che la “gestione unitaria” che regge il partito e anche questo congresso si fonda sulla preventiva spartizione a tavolino delle percentuali di rappresentanza in tutti gli organismi dirigenti e in tutti gli incarichi nazionali, vorremmo suggerire maggiore cautela.
Non dobbiamo tuttavia farci condizionare dalla povertà di questa maggioranza: stiamo toccando con mano, in questi primi giorni, come siano ancora tanti i compagni e le compagne che parteciperanno al congresso cercando discussione, dibattito, un serio confronto con gli avvenimenti epocali che si sviluppano sotto i nostri occhi: a loro è rivolta la nostra proposta, e non dubitiamo che troverà più che in passato occhi e orecchie ben aperti.
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