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giovedì 22 marzo 2012

I REPLICANTI DI MARCHIONNE di Norberto Fragiacomo

                

              I REPLICANTI DI MARCHIONNE
                   di Norberto Fragiacomo



Ce l’hanno fatta.
Anzi, l’hanno fatto: con un colpo di spugna pomeridiano hanno cancellato cinquant’anni di diritto del lavoro in Italia. Hanno riseppellito Brodolini e Gino Giugni, la relatrice di una trascurabile tesi di laurea (1996) e milioni di protagonisti in tuta blu di quel remoto autunno del ’69.
Al momento, tutto è perduto – compreso l’onore del PD.
Articolo 18 e reintegro non esistono più. Oh, certo: nel caso in cui il datore sia tanto astuto da scrivere, nella lettera di licenziamento, “ti mando via perché sei comunista” o perché “sei iscritto alla Fiom”, il lavoratore avrà diritto ad essere reintegrato… ma episodi simili si verificano più facilmente nelle fiction che nella realtà quotidiana. Paradossalmente, la norma sui licenziamenti c.d. discriminatori sa di rivincita padronale: è abbastanza noto che fu proprio una serie di espulsioni arbitrarie - decretate dalla Fiat negli anni ’50 e motivate, senza necessità, con l’iscrizione dei lavoratori a CGIL e/o PCI - a scatenare la battaglia per l’introduzione di efficaci protezioni giuslavoristiche. Oltre al danno, insomma, la beffa… duplice, perché l’estensione della tutela fantasma al personale delle imprese con meno di 15 dipendenti è un capolavoro di tartufismo.
Quanto ai licenziamenti disciplinari, la bozza governativa dà al giudice la facoltà di disporre il reintegro “nei casi gravi” – in quelli… lievi, l’ex dipendente sarà liquidato con un indennizzo. Pieni poteri al giudice del lavoro, vista l’assoluta indeterminatezza della previsione? In teoria sì, in pratica no: anche il recesso per motivi disciplinari (art. 7 dello Statuto dei Lavoratori), al pari di quello discriminatorio, è soltanto un ologramma, uno specchietto per le allodole.
D’ora in avanti, l’unica forma di licenziamento cui le imprese faranno ricorso sarà quella legata a “motivi economici”. Cosa significa motivi economici? Tutto e niente: in effetti, la vaghezza della formula è il segreto del suo successo presso il padronato. Un impercettibile incremento dei costi, un calo stagionale del fatturato, una (finta) riorganizzazione interna, i riflessi sulla domanda dell’aumento dell’IVA, la scelta di esternalizzare un’attività per ridurre le spese o di delocalizzarla parzialmente, finanche (perché no?) la volontà di accrescere i margini di profitto varranno a giustificare il recesso datoriale – ed il merito della decisione non sarà sindacabile da alcuno.
Si scrive “per motivi economici”, ma si pronuncia ad nutum: con la modifica abrogatrice, l’imprenditore sarà libero di fare ciò che desidera. Come negli anni ’50, appunto. Leggendo sui giornali i primi commenti alla bozza, non si comprende neppure se residui un potere di controllo meramente estrinseco in capo alla magistratura del lavoro oppure no. La questione non è irrilevante: nell’ipotesi affermativa, l’uso di una “formuletta pigra” (ad es.: i ricavi sono calati dello 0,5% nell’ultimo trimestre) basterebbe a sottrarre il datore a qualsiasi obbligo indennitario; altrimenti, il lavoratore cacciato avrebbe diritto, in linea di massima, ad un indennizzo non inferiore alle 15 mensilità di retribuzione. Meglio poco che niente, ma davvero di poco si tratta: in base alla disciplina ancora vigente (quella che “giubba blu” Fornero amava definire un totem, evidentemente da abbattere), il lavoratore che rinunci volontariamente alla reintegrazione riceve una somma equivalente ad almeno 20 mensilità.
In sintesi, la proposta di accordo che, secondo il Presidente Napolitano, la CGIL avrebbe dovuto accettare (per il bene nostro e di tutta la Sua Santa Chiesa… pardon, del Paese e dei giovani, ma fa lo stesso) può essere sintetizzata così: il governo toglie ai lavoratori l’opzione reintegro; in cambio, questi ultimi potranno godere di un indennizzo ridotto, perdono la cassa integrazione – NB: in un periodo di crisi galoppante! – e dicono addio ai prepensionamenti.
E’ chiaro che il nuovo modello assomiglia a quello tedesco – caratterizzato dalla cogestione aziendale, oltre che da stipendi elevati – tanto quanto le Sturmtruppen di Bonvi richiamano l’originale: ne rappresenta la caricatura, che però i media di regime  (e non solo loro) spacciano per l’uovo di Colombo.
Peraltro, tocca dare atto al Governo Monti-Napolitano di un’estrema diligenza nello svolgimento dei compiti assegnatigli dai finanzieri internazionali: in soli quattro mesi è riuscito a stravolgere il sistema pensionistico e a sbianchettare mezzo secolo di conquiste del movimento operaio. Proprio lo smantellamento del welfare ed il rapido asservimento della classe lavoratrice costituiscono - insieme alla svendita delle aziende di Stato ai gruppi privati, che avrà luogo di qui a breve – il core business dell’esecutivo sedicente tecnico: il resto, dal gioco a guardie e ladri per le vie di Cortina al moscio braccio di ferro con i tassinari, è solo fumo negli occhi, colonna sonora.
Aspettarsi poi che Monti e compagnia risanino la RAI, risolvano il conflitto di interessi e sconfiggano la corruzione è roba da ingenui: non sono qui per questo, e l’unico che finge di non capirlo è Bersani.
Hanno adottato lo sperimentato metodo Marchionne, fatto di inganni (non ci era stato assicurato che la controriforma avrebbe riguardato soltanto i nuovi assunti? Contrordine: vale per tutti), ricatti (se non firmate, niente “paccata” di miliardi!, ha minacciato, con impeccabile stile, coccodrillo Fornero), soldi del Monopoli (quelli per gli ammortizzatori “universali”) e sacrifici imposti in cambio di un bel niente.
Il “rispetto” delle regole democratiche e delle altrui opinioni, poi, è il medesimo: “sul punto della flessibilità in uscita, articolo 18 (…) la questione è chiusa, la proposta legislativa non è sottoposta più ad esame (…) perché nessuno ha il potere di veto” ha sentenziato il premier, commentando il no della CGIL. Su questo punto, almeno, ha mostrato coerenza: sin dall’inizio lui e la Fornero avevano lasciato intendere che si sarebbero fatti un baffo delle obiezioni dei sindacati.
Quanto agli altri protagonisti della sceneggiata, ciascuno si è comportato come previsto: Cisl e Uil, compiuta qualche giravolta, hanno alzato bandiera gialla; il Partito Democratico, dopo il rituale sfogo del segretario, ha già fatto sapere che, come sempre, voterà ad occhi chiusi (e non si spaccherà, ci scommettiamo: anche la “sinistra interna” è un ologramma); il PDL, guidato dal falco Sacconi, ha tifato apertamente per la soluzione autoritaria. Per Silvio Berlusconi è una pacchia - presto potrà presentarsi ai suoi grandi elettori dicendo: “visto? Monti ha fatto il lavoro sporco in vece nostra! Adesso ritocca a noi.”
A proposito del Berlusca: come mai tutti i benpensanti che (a parer nostro, non senza fondamento) lo accusavano ad ogni piè sospinto di “fascismo” non trovano  oggi nulla da ridire sull’atteggiamento autoritario di Monti and friends?
La risposta ha nome e cognome: Giorgio Napolitano.
Il Presidente, ormai, interviene a gamba tesa anche a gioco fermo – e lo fa a senso unico. La dichiarazione del 19 marzo non ricorda un diktat (rivolto alla CGIL), lo è: bisogna “far prevalere l’interesse generale su qualsiasi interesse e calcolo particolare, lo richiedono le difficoltà del Paese, lo richiedono i problemi che sono dinanzi al mondo del lavoro e alle (immancabili ndr) giovani generazioni. Penso che sarebbe grave la mancanza di un accordo cui le parti sociali diano solidalmente il loro contributo. Grazie.
Grazie a Lei, signor Presidente. Non tanto per il consueto sfoggio di retorica, quanto per aver candidamente ammesso, davanti al Paese intero, che la Viva vox Constitutionis è divenuta, come ipotizzavamo da tempo, la voce dell’austerità e dei mercati.
Per fortuna, di un tanto si è accorta anche la CGIL che, snobbando l’invito presidenziale, non ha voluto sottoscrivere le clausole vessatorie. Prendiamo in parola Susanna Camusso quando promette: “è evidente che faremo tutto ciò che serve per contrastare questa riforma.”
In chiusura, due considerazioni: la prima è che la presa di posizione del sindacato certifica che lo sciopero del 9 marzo non è stato affatto inutile.
La seconda è che l’unica maniera per impedire al governo dei banchieri di annientare Stato sociale e classe lavoratrice consiste nel mandarlo a casa il più presto possibile.
In questo momento – il più tragico, per l’Italia, dalla fine della guerra mondiale – occorre la mobilitazione generale dei cittadini consapevoli, a diretto supporto di quelle organizzazioni (movimenti di sinistra, Fiom e sindacati di base, Comitato NO Debito ecc.) che ancora si battono per scongiurare un futuro greco.
Dopo la porcata di ieri sera, Atene è purtroppo abbastanza vicina.
 
 
 
 

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