L'INTERPRETAZIONE DELLA CRESCITA SECONDO I PADRONI DELL'EUROPA
di Riccardo Achilli
Introduzione
Sarebbe ingenuo non dire che, dalla vittoria elettorale di Hollande, e dalla dura sconfitta della Merkel in un land strategico per l’economia tedesca come il Nord Reno-Vestfalia, l’asse strategico degli euro-funzionari del Capitale finanziario posti alla guida dei diversi Stati europei non sia cambiato, sia pur di una misura appena percettibile.
Nel suo recente outlook (16 maggio) su una delle più disastrate economie dell’area euro, ovvero l’Italia, il FMI cambia un pochino il registro, rispetto alla consueta litania basata sui principi del Washington Consensus (lotta all’inflazione, rigore di bilancio, privatizzazioni, riforme del mercato del lavoro e dei servizi, taglio della spesa per ridurre la pressione fiscale, ecc.). Intendiamoci: il registro cambia di pochissimo, intanto perché il FMI esalta il macello sociale compiuto dal Governo-Monti, sparando una previsione di incremento di 6 punti del PIL legata ai presunti effetti della riforma-Fornero e del pacchetto-liberalizzazioni. Ovviamente è troppo chiedere la metodologia con cui il FMI ha ideato questa fantastica crescita previsionale, ma basta ricordare agli analisti del FMI che:
a) non esiste alcuna correlazione fra grado di flessibilità del mercato del lavoro e crescita. L’indice di correlazione del Perason fra l’indice di rigidità della protezione dei lavoratori con riferimento al costo ed alla facilità di effettuare licenziamenti collettivi (fonte Ocse) ed il tasso di disoccupazione, per i Paesi Ocse nel periodo 2008/2009, è pari a zero, mostrando come la flessibilità in uscita non generi alcun effetto di miglioramento sul tasso di disoccupazione, essendo le due variabili incorrelate (http://ilmarxismolibertario.wordpress.com/2012/02/25/la-flessibilita-del-lavoro-miti-e-realta-di-riccardo-achilli/)
b) l’eventuale effetto di stimolo alla crescita derivante dalla liberalizzazione del settore dei servizi dipende da una ripresa del flusso di investimenti nei settori industriali che si avvalgono di tali servizi, derivante da un calo del costo di acquisto del servizio. Tuttavia, il beneficio è solo eventuale e di breve periodo: noi sappiamo da lunga data (cfr. Sweezy e Baran al proposito) che, in un’ottica di lungo periodo, ad una maggiore liberalizzazione dei mercati corrisponde una maggiore concentrazione oligopolistica degli stessi (per ovvi motivi legati all’accelerazione dei meccanismi di accumulazione generata dalla maggiore concorrenza). Il susseguente potere di mercato acquisito comporta un rialzo dei prezzi, oppure una diminuzione della quantità offerta al di sotto del livello ottimale, come in ogni tradizionale modello di oligopolio. Curioso che il FMI esalti, come modello da seguire, la prossima ventura liberalizzazione della distribuzione del gas, con separazione fra produttore e distributore, prevista dal decreto-Monti, affermando con una sicumera degna soltanto di chi non ha letto altro che Friedman nella sua vita, che ciò comporterà una riduzione del prezzo del gas. Peccato però che il prezzo del gas sia strettamente correlato con quello del petrolio: chi invece di dare adito a luoghi comuni studia empiricamente la questione, come Villar e Joutz (206) scopre infatti che il prezzo del WTI (petrolio) e del gas sono caratterizzati da una significativa cointegrazione, e che le variazioni del secondo sono significativamente influenzate da quelle del primo, già nel breve periodo. Quindi, se il prezzo del petrolio continua a crescere per fattori geopolitici, non ci sarà liberalizzazione della rete del gas che potrà ridurne il prezzo. Ma questo non spiegatelo al FMI: i suoi analisti potrebbero essere licenziati, e tengono famiglia anche loro…
Il cambiamento di asse del comunicato in questione è quindi semplicemente dovuto al fatto che gli analisi del FMI ripetono la parola “crescita” almeno una quindicina di volte, come se fosse un mantra. Va bene che le aspettative ed il clima di fiducia influenzano le prospettiva di crescita, ma insomma…Evidentemente, l’esplosione della Grecia sotto i colpi dell’austerità, e la sua sostanziale bancarotta nonostante i provvedimenti lacrime e sangue adottati per “risanare” il suo bilancio, deve aver finalmente suggerito al FMI che senza politiche che stimolino la crescita del PIL, è anche impossibile risanare le finanze pubbliche, poiché qualsiasi modellino econometrico, anche di quelli costruiti dalla zia Genoveffa, mostra come i saldi di bilancio siano endogeni alla crescita, tramite l’effetto che questa esercita sul gettito fiscale e sugli ammortizzatori automatici di spesa. In pratica, dopo aver massacrato inutilmente la Grecia, quelli del FMI scoprono…una cosa che viene insegnata agli studenti di Economia Politica I.
Le illusorie ricette per la crescita dei liberisti
Ad ogni modo, qual è la ricetta che il FMI suggerisce per riattivare una crescita, ovviamente “rispettosa” dello sforzo di risanamento dei bilanci pubblici? Si tratta della classica ricetta dei liberisti. E qui occorre un piccolo chiarimento di teoria economica. In termini molto generici, e necessariamente non del tutto precisi, si può dire che, a differenza dei keynesiani che si sono dotati di un modello del ciclo basato sull’andamento della domanda aggregata (consumi interni ed esteri, investimenti privati e pubblici, ma anche spesa pubblica corrente per acquisti di beni e servizi per la pubblica amministrazione) i liberisti credono che la crescita possa essere stimolata essenzialmente agendo sui fattori di competitività dal lato dell’offerta, cioè della produzione. Stimolare la crescita tramite politiche economiche espansive dal lato della domanda, per i liberisti, è inutile e controproducente, perché genera inflazione (dal momento che l’offerta si adegua con un periodo di ritardo rispetto all’incremento della domanda, e quindi si crea una tensione sui prezzi), e questa destabilizza le aspettative degli operatori, che si formano, secondo questa teoria, in modo relativamente “conservativo”, ovvero estrapolando le previsioni da ciò che si è verificato nel recente passato (aspettative adattive, M. Friedman) oppure da una valutazione razionale di tutta l’informazione economica disponibile al momento (aspettative razionali, Lucas e Sargent). Poiché i prezzi rappresentano i segnali delle dinamiche reciproche di domanda ed offerta, la destabilizzazione di tali segnali indotta dalla spirale inflazionistica impedisce agli operatori economici di formulare scenari di mercato affidabili (cioè impedisce loro di formarsi delle aspettative corrette) e quindi impedisce loro di formulare programmi di investimento, ostacolati dall’incertezza sui mercati indotta dal clima inflazionistico. Senza investimenti, niente crescita della produzione e dell’occupazione. Poiché un bilancio pubblico in deficit è una fonte potenziale di inflazione, allora la cosa migliore da fare per “stabilizzare” le aspettative degli operatori è tenerlo in equilibrio, evitando disavanzi.
Quindi, poiché uno stimolo di politica economica dal lato della domanda comporta solo l’aumento dei prezzi e niente crescita reale, l’unico modo di promuovere la crescita, secondo i liberisti, è agire dal lato della competitività dell’offerta: maggior competitività che significa in primis un più elevato rapporto fra produttività e costo dei fattori produttivi, ed in secundis un maggiore valore aggiunto unitario dei prodotti, indotto da un miglioramento della loro qualità e/o del contenuto di conoscenza ed innovazione tecnica incorporata negli stessi, che ne provoca un incremento di redditività necessario per ripagare il “fattore conoscenza” utilizzato per idearli e produrli. In pratica, in questo schema teorico, si arriva a parlare di “capitale umano”, ovvero il capitale che genera la conoscenza e l’innovazione.
Da tale impostazione, assurda dal punto di vista teorico e sballata da quello pratico, come vedremo, discendono naturalmente le “ricette” per la crescita suggerite:
- occorre investire sui fattori che incidono sulla produttività, quindi sull’educazione, sull’innovazione tecnologica di processo, su una rete infrastrutturale efficiente (che consenta di movimentare rapidamente materie prime e fattori produttivi). Questi sono gli unici investimenti pubblici che, in tale impostazione, hanno senso, e neanche tanto, nel senso che, poiché i mercati vengono reputati più affidabili del soggetto pubblico nel selezionare ed interpretare i segnali che provengono dal sistema dei prezzi e dal trend della domanda e dell’offerta, allora è meglio che siano i privati a fare tali investimenti, ove possibile (ecco quindi che si esaltano i sistemi di project financing, ovvero di compartecipazione del privato alla realizzazione e successiva gestione di una infrastruttura, che altro non sono che forme larvate di parziale privatizzazione delle stesse, le scuole e le università private, ritenute “più vicine” alle esigenze formative espresse dalle imprese, ecc.);
- altri fattori che incidono sulla produttività sono quelli che richiedono le cosiddette “riforme strutturali”: una pubblica amministrazione ridotta all’osso e che interferisca il meno possibile con le dinamiche del mercato, e che, quando è proprio costretta ad intervenire (per esempio per rilasciare una autorizzazione indispensabile, oppure per dirimere una causa giudiziaria fra due imprenditori o fra un imprenditore e i suoi lavoratori o clienti) lo faccia nei tempi più rapidi possibili, per non interferire sulla produttività. Ma la riforma strutturale “madre di tutte le riforme” è quella del mercato del lavoro: occorre creare una massa di lavoratori privi di tutele, in concorrenza l’uno con l’altro, per strizzare loro la massima produttività possibile, al minor costo;
- insieme alla massimizzazione della produttività dei fattori, occorre minimizzare il loro costo. Ancora una volta, riforme del mercato del lavoro che creano eserciti di precari sottopagati sono all’uopo necessarie, perché se non hai la certezza del posto del lavoro, accetti più docilmente un minor salario in cambio di un maggiore impegno; ma poi occorre anche ridurre un altro costo, ovvero quello fiscale, che incide ovviamente sulla struttura complessiva dei costi delle imprese. Ma per ridurre le tasse occorre aver prima selvaggiamente tagliato la spesa pubblica. Altrimenti, una riduzione delle imposte prima di aver tosato la spesa rischia di far andare in disavanzo di bilancio pubblico, resuscitando il demone inflazionistico che riposa nelle bolge infernali dei capitoli di bilancio dello Stato (è indubbio che il liberismo abbia una forte radice nel protestantesimo più bigotto, anche se questo non ha creato quello, come ci dice Weber. Non è quindi fuori luogo adottare termini religiosi per descriverlo). Poi c’è una finezza: occorre tagliare le tasse, sì, ma non a tutti. Non si possono tagliare le tasse ai più poveri, perché costoro hanno una propensione marginale al consumo più alta dei ricchi, quindi di fronte ad un incremento del reddito disponibile, consumano di più, rischiando di alimentare nuovamente il Demone dell’inflazione. Occorre tagliare le tasse ai più ricchi, invece, perché costoro (benedetti dal Cielo calvinista) sono quelli che lavorano e non pesano sul welfare, come fanno invece quei pidocchiosi senza-Dio che si affollano per un piatto di minestra davanti alla sede dell’Esercito della Salvezza (lo schema mentale purtroppo è proprio questo; non si tratta di una mia esagerazione. Chi conosce il fumetto “Alan Ford” potrà trovare il paradigma del pensiero liberista in Superciuk, il supereroe che ruba ai poveri zozzoni per regalare ai ricchi eleganti e puliti);
- poiché la competizione di mercato seleziona il più forte, cioè colui che riesce a mettere in campo il migliore rapporto produttività/costi dei fattori, per massimizzare la competitività occorre liberalizzare ed eliminare ogni posizione di monopolio pubblico, estendendo la concorrenza anche ad ambiti innaturali, come ad esempio la sanità (poiché ogni uomo ha diritto alla vita, mi chiedo anche da un punto di vista filosofico ed etico che giustificazione abbia una sanità privata, in cui sopravvive solo chi può pagare). Però anche qui c’è una finezza, come sopra: va bene che ambiti essenziali per la sopravvivenza, come il cibo, l’acqua, la sanità, l’educazione, la pensione, il lavoro, siano totalmente privatizzati. Però le banche, che in fondo non sono indispensabili per sopravvivere (non ho mai visto nessuno mangiare una banconota) devono essere parzialmente messe al riparo dagli effetti della concorrenza, salvandole con abbondanti iniezioni di denaro pubblico se in difficoltà (ed in questo caso, il terrore del Mostro Inflazionistico viene messo da parte, anche se il modo migliore per produrre inflazione è proprio quello di inondare di liquidità il sistema). Questo perché il capitalismo attuale, nelle economie mature, è essenzialmente finanziario e non produttivo, e quindi senza banche crollerebbe.
Come volevasi dimostrare, la “crescita” che il FMI auspica affinché l’Italia trovi le risorse per ridurre il debito pubblico (leggi: per ripagare le banche creditrici) è proprio basato sulle “ricette” sopra esposte, quindi:
a) accelerare e rendere possibilmente più radicali la riforma-Fornero e le liberalizzazioni;
b) aumentare l’occupazione giovanile e femminile riducendo il salario di ingresso ed i contributi sociali, e flessibilizzando i salario tramite un modello contrattuale puramente aziendalistico (naturalmente questi geni del FMI non pensano che un motivo fondamentale che ostacola l’occupazione femminile non è tanto il costo contributivo, quanto l’assenza di un welfare pubblico che metta a disposizione efficaci servizi di conciliazione vita/lavoro, per cui se si taglia la spesa pubblica di welfare per ridurre i contributi sociali non si crea alcun effetto incentivante sull’occupazione femminile);
c) potenziare lo start up di PMI innovative, tramite una espansione dei sistemi di ingegneria finanziaria dedicati all’innovazione tecnologica (venture capital, seed capital ed altre amenità, peraltro molto lucrose per banche e società finanziarie globali);
d) strozzare ulteriormente la spesa pubblica, in particolare gli stipendi dei lavoratori pubblici, per finanziare una riduzione delle imposte, ovviamente non certo per i lavoratori ed i pensionati, ma per le imprese. Vale la pena ricordare di nuovo che questi scienziati del FMI si sono guardati bene, ad esempio, dall’analizzare la recente relazione della Corte dei Conti, che evidenzia come la spesa dell’Italia per il personale pubblico sia in linea con la media continentale (11,1% del Pil), con valori superiori alla Germania (7,9%) ma ampiamente inferiori a Spagna (11,9%) e Francia (13,4%) e, inoltre, che l’Italia è l’unico Paese europeo, insieme al Portogallo, ad aver ridotto il numero dei dipendenti pubblici negli ultimi dieci anni. Però chiedono di ridurre il costo del lavoro pubblico. Senza essersi informati. Vorrei ricordare che un analista del FMI, di questi qui che pensano che la liberalizzazione della rete del gas ne ridurrà il costo, o che occorre ridurre un costo del lavoro pubblico già in calo, guadagna un rispettabilissimo stipendio. Per un decimo di quello stipendio, mia zia Genoveffa è in grado di fare ragionamenti economici più evoluti;
e) privatizzare il privatizzabile, però salvando le banche, che anzi dovrebbero essere incoraggiate (udite udite) a cartolarizzare le sofferenze ed i crediti incagliati, impacchettandoli dentro titoli finanziari da rivendere sul mercato. In pratica…questi scienziati ci stanno dicendo che dobbiamo ricostruire il meccanismo perverso di cartolarizzazione dei debiti privati che ha portato alla crisi che stiamo vivendo!!!
f) come piccolo regalo (bontà loro) gli analisti del FMI concedono anche la possibilità di fare aumenti negli investimenti pubblici in infrastrutture, purché questi siano “modesti e ben finalizzati” (va bene essere generosi, ma non esageriamo, eh?)
Questa sconclusionata ed assurda “ricetta” per la crescita non dipende dal fatto che gli analisti del FMI siano dei subnormali. Più o meno, essendo anche loro esseri umani, avranno un Q.I. nella media. Il problema vero è che arrivano a consigliare ricette grottesche perché l’armamentario teorico di cui si avvalgono è manifestamente infondato.
Non è vero che la soluzione al problema dell’economia passi attraverso la crescita della produttività. Basterebbe pensare al fatto che in Europa a 27 Paesi si aggira un esercito di oltre 23 milioni di disoccupati, in continua crescita, cui vanno aggiunti altri 15 milioni di “scoraggiati”, cioè persone in età da lavoro che vorrebbero lavorare ma che hanno perso la speranza di trovare lavoro. E’ di tutta evidenza, dunque, che il problema non è quello di strizzare di più chi già lavora, per aumentarne la produttività, ma è quello di allargare la base produttiva, per dare più lavoro, ed al contempo fornire strumenti reddituali a chi non lavora, per consentirgli di continuare a consumare e tenere attivo il circuito economico.
Non è vero che qualsiasi stimolo alla domanda creerebbe automaticamente inflazione, e quindi impedirebbe quella stabilità del quadro complessivo necessaria per far ripartire gli investimenti. Nell’industria europea, a maggio 2012, vi è un 21% di capacità produttiva inutilizzata, proprio a causa del calo della domanda. Uno stimolo alla domanda non sarebbe inflazionistico, perché verrebbe coperto da un incremento di produzione, per cui vi è ampio margine libero. E qualora si verificassero momentanei attriti inflazionistici, dovuti al ritardo di risposta sul versante dell’offerta, questi sarebbero facilmente sterilizzabili mediante un calo dell’Iva, delle accise e delle altre imposte indirette.
Inoltre non è vero che gli investimenti dipendono da un quadro macroeconomico e di aspettative stabile. In Italia, i più alti tassi di investimento li abbiamo avuti negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, in un contesto macroeconomico e sociale molto instabile e mutevole, e con inflazione più alta di quella attuale. Non è possibile “modellizzare” le aspettative degli imprenditori, come fa Friedman, con il suo modello delle aspettative adattive, o la Nuova Macroeconomia Classica con quello delle aspettative razionali. Perché le aspettative sono essenzialmente determinate da fattori psicologici ed irrazionali. Keynes in proposito legava la propensione all’investimento agli “spiriti animali” (animal spirits) degli imprenditori, cioè a fattori istintivi ed irrazionali, non certo a modelli facilmente predittibili.
Non è vero che l’informazione sarebbe un nuovo fattore produttivo costituito dal capitale umano. Il capitale umano non esiste, esiste solo il capitale variabile di Marx, dato dal valore dei salari, o per meglio dire del tempo di lavoro socialmente necessario per produrre i beni ed i servizi associati a quei salari. Quindi non è l’innovazione o il miglioramento qualitativo incorporato ai prodotti a farne aumentare il valore aggiunto unitario. Questo aumenta perché è cresciuta la quantità di lavoro socialmente astratto incorporato. Quindi è il lavoro a dare valore alle merci. Non è possibile pensare di sostituire al lavoro astrazioni come la “creatività” o la “qualità totale”, perché frutti esse stesse del lavoro.
Eppure i leader del G8 continuano a seguire strade perdenti
E’ tutto fasullo, è tutto campato in aria, è tutta apparenza. Ed è ovvio che partendo da simili premesse, le ricette di politica economica suggerite sono assurde. Purtroppo però, come tanti bravi scolaretti, i leader del G8, ivi compreso Obama, ivi compreso Hollande, questa settimana, si sono trovati negli Stati Uniti, ed hanno adottato un documento, che probabilmente è la base del compromesso fra Hollande e la Merkel che sarà adottato come “allegato” al fiscal compact, per farlo firmare anche alla Francia, in cui si replicano queste ricette assurde e insensate. Il documento sulla crescita adottato, infatti, dice che:
- occorre “coniugare crescita e rigore”, ed “operare in un quadro macroeconomico non inflazionistico” (ecco che ricompare lo spaventapasseri dell’inflazione, mai abbandonato, persino quando la domanda è catatonica, come oggi) quindi continuare a tagliare la spesa pubblica, ed a deprimere di conseguenza la domanda aggregata, facendo esattamente il contrario di ciò che è necessario fare;
- occorre agire per far crescere la produttività tramite, per l’appunto, investimenti in ricerca, infrastrutture ed educazione, naturalmente ove possibile tramite l’intervento dei privati, realizzando quindi privatizzazioni de facto di infrastrutture e sistemi educativi, e le immancabili riforme strutturali del mercato del lavoro e dei mercati dei servizi e delle utilities, atte a creare maggiore concorrenza;
- maggior concorrenza da cui ovviamente il mercato bancario va tenuto fuori. Anzi, si discute di creare un sistema di garanzie europeo sui depositi in conto corrente;
- ovviamente di mutualizzazione su scala europea dei debiti pubblici nazionali, di eurobonds, o di imposte sulle transazioni finanziarie manco a parlarne. Sono argomenti tabù. Il primo viene nuovamente bocciato dal Governo tedesco, il secondo da quello britannico.
In questo modo non si va da nessuna parte, e non si stimola nessuna crescita: le imprese accresceranno una produttività del tutto potenziale, nel momento in cui la domanda è depressa, e non ci sono sbocchi per piazzare il surplus produttivo generato dall’extra produttività. Aumenterà la quota di risorse inutilizzate, sia in termini di capitale variabile (disoccupati in crescita) che di capitale fisso (aumento della quota di capitale produttivo ozioso) e quindi si andrà sempre più verso il blocco dei meccanismi di riproduzione allargata.
Gli investimenti in ricerca ed educazione, tutt’al più, daranno effetti positivi sulla crescita differiti nel tempo, quando invece è oggi che c’è bisogno di stimoli alla crescita. Non fra cinque anni. Gli investimenti infrastrutturali, al più, creeranno un po’ di occupazione temporanea nella sola fase di cantiere, ma poi si riveleranno inutili, in una fase in cui la produzione non cresce. Una nuova strada serve in un’economia dinamica, in cui si generano nuovi flussi di traffico. Non in un’economia alla paralisi.
Tutta questa operazione sulla crescita sembra quindi essere orientata a due scopi: contrastare il clima di sfiducia e disperazione che aleggia in Europa, mediante un po’ di strombazzature pubblicitarie su una crescita cui nessuno crede, e riprendere il controllo di una opinione pubblica che sta, sia pur molto lentamente (ed a velocità variabile da Paese a Paese) derivando verso sinistra, oppure verso forme di contestazione antipolitica. Ma le bugie hanno le gambe corte.
E Hollande?
Hollande vuole dimostrare qualcosa? Ne ha ancora la possibilità: leghi l’adesione al fiscal compact del suo Paese ad una sua radicale revisione, che elimini gli obblighi di rientro dall’extra debito e i vincoli di bilancio pubblico in pareggio, ad una mutualizzazione del debito pubblico a livello europeo con l’emissione di eurobonds, ad un controllo politico della Bce, obbligandola ad acquistare i titoli del debito pubblico rimasti invenduti alle aste primarie, ad una fuoriuscita morbida dall’euro dei Paesi troppo indebitati per rimanervi, che ne attenui al massimo il contraccolpo economico e sociale, proseguendo ad erogare gli aiuti dell’Esfs necessari a tali Paesi per fare fronte ai loro impegni finanziari fino a quando non saranno usciti dal default, ed utilizzando sistemi di cambi fissi con margini di oscillazione progressivamente sempre più ampi fra l’euro, il dollaro e le ripristinate monete nazionali, al fine di evitare disastrose svalutazioni di queste ultime. Non segua la strada di Obama. Combatta. Non ha niente da perdere e tutto da guadagnare. Personalmente non credo che farà qualcosa di significativo in tal senso.
Oggi come allora per Hollande varrà il detto “ce qui est bon pour le roi est bon pour le peuple”. Solo che oggi il Re è un re impersonale e molto crudele: è il re denaro, che opera nelle reti dei mercati finanziari.
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