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sabato 18 agosto 2012

Il punto di equilibrio fra rigore e crescita per la sinistra: una proposta

di Riccardo Achilli



Il nodo centrale di una politica economica di una sinistra di governo, oggi, è stabilire il punto esatto di equilibrio nel trade-off fra rigore e promozione della crescita, spostandolo significativamente dal punto fissato dal Governo Monti, tutto quanto spostato sull'estremità del “rigore”. E' oramai evidente che la politica economica di Monti e della trojka euro-finanziaria è fallita. La Grecia è al default, la Spagna (i cui problemi derivano soprattutto dal debito privato con le banche) ha annunciato ufficialmente agli azionisti di Caixa (e lo farà con le altre banche) che dovranno accollarsi perdite indeterminate ma sicuramente consistenti. In Italia, lo spread rimane pervicacemente attestato su livelli probabilmente insostenibili, mentre i termometri dei mercati finanziari mostrano un continuo degrado del rischio-Paese, e la crescita economica, per i prossimi anni, è divenuta come lo squagliamento del sangue di San Gennaro: un miracolo.
Questo fallimento è in ultima analisi il prodotto di una tara culturale del pensiero liberale, e che a livello di pensiero politico si traduce in una elitismo paternalistico che pretende di avere il diritto di educare la plebe a valori etici “sani” (non a caso nei Paesi nordici o di cultura anglosassone il liberalismo si sposa bene con versioni estremizzate del protestantesimo) per cui il debito, di per sé, è un prodotto demoniaco, perché distoglie il popolo dal “sano” valore educativo per cui solo con il duro lavoro si può guadagnare, mentre l'indebitamento è l'anticamera dell'ozio e del parassitismo sociale. E poiché lo Stato, nella concezione liberale, ha compiti educativi della società, allora esso, per primo, deve dare l'esempio, tenendo il bilancio in equilibrio. Non a caso la destra e la sinistra storica dell'Italia ottocentesca, entrambe derivazioni del pensiero liberale, perseguivano ferocemente il pareggio di bilancio (dopo però che il buon Cavour aveva condotto il Regno di Sardegna al limite del default per pagare le spese belliche dell'espansionismo sabaudo; ogni rigido moralismo è d'altronde sempre foriero delle peggiori depravazioni). I riflessi di questo pensiero si trovano nei melensi aforismi pedagogici che Monti si sente in dovere di elargire agli italiani (cornuti e mazziati) quando dice, ad esempio, che gli italiani “non dovrebbero dimenticare troppo presto i sacrifici fatti per rientrare da un debito prodotto in epoche troppo allegre”. Mi ricorda un mio vecchio professore di liceo: prete fallito, incazzato con il mondo, sempre cupo.
Dal punto di vista del pensiero economico, questa tara culturale si esprime nei modelli macroeconomici walrasiani, in cui operatori perfettamente razionali, dotati di un'informazione completa e perfetta, trovano da soli un equilibrio economico generale di piena occupazione e non inflazionistico nel lungo periodo, dove rendimenti e costi marginali, sul versante dell'offerta, si eguagliano ad un livello di utilità marginale compatibile con il vincolo di bilancio dei consumatori, su quello della domanda, dopo un processo di “tâtonnement” guidato dal libero aggiustamento dei prezzi. In questo paradiso, il debito pubblico non ci deve essere, perché sintomatico di un intervento pubblico che perturba la direzione corretta del “tâtonnement”, distorcendo i segnali dei prezzi e rendendo erratiche le aspettative degli operatori.
Tralasciamo tutti i problemi tecnici che tale modello comporta, a partire dai problemi di soluzione matematica del sistema di equazioni di Walras, evidenziati da Sraffa, ai problemi dell'assenza di razionalità assoluta, di presenza di informazione incompleta ed asimmetrica, alla mancata considerazione delle esternalità, al fatto che tale modello contempla situazioni di disequilibrio nel breve e medio periodo, ecc.
Focalizziamoci invece sull'essenziale: la tara del pensiero liberale, rispetto alla questione del debito, è che non capisce che il debito privato è il meccanismo fondamentale dei processi di accumulazione capitalistica, mentre quello pubblico è originato dall'eccsso di valorizzazione del capitale, che lo porta a profitti fittizi. Senza debito, non c'è capitalismo, e questo Marx lo evidenziò con una chiarezza esemplare nella sua descrizione dei processi di riproduzione allargata del capitale. L'anticipazione di capitale monetario da parte del capitalista, presso le banche, è infatti essenziale per l'acquisizione del capitale fisso e variabile necessario per far partire la produzione. La migliore metafora per descrivere l'accumulazione capitalistica è quella del contadino, che si fa anticipare dal consorzio o dalla cooperativa le sementi, per poi ripagare questo debito con il ricavato della vendita del raccolto.
Quanto sopra vale a livello della singola azienda. A livello di uno Stato, poi, il debito è il prodotto di una spesa in attività che tipicamente non generano profitto perché dstnate alla riproduzione di beni pubblici (la sanità, che quando genera profitto è una sanità privata, quindi non universalistica, la spesa previdenziale, ed in generale i servizi pubblici) oppure in spesa che genera profitto per il comparto privato dell'economia. Di conseguenza, per la stessa funzione che ha uno Stato, il fatto che accumuli debito è perfettamente funzionale e fisiologico. Quindi dice bene Krugman: il debito pubblico non è di per sé un problema, e non esiste, contrariamente a quanto pensano gli estensori del fiscal compact (che poi è un prolungamento di Maastricht) una soglia percentuale rispetto al PIL oltre la quale il debito “è insostenibile”.
In realtà la questione va affrontata secondo due aspetti: la quota di debito estero sul totale del debito pubblico, e la capacità di crescita. La verità è infatti che i mercati finanziari internazionali non credono allo sforzo di risanamento condotto da Monti, per due motivi: perché non si concentra sul debito estero, ponendosi (in linea con i vincoli del fiscal compact) su un obiettivo troppo ambizioso, ed irragiungibile, che traguarda il debito pubblico totale (estero+interno) e perché conduce politiche recessive. Ed anche i somari sanno che il debito pubblico è endogeno al ciclo economico. Io lavoro per una amministrazione pubblica che da anni si sottopone al rating, e posso testimoniare quindi che una componente importante della valutazione sull'affidabilità finanziaria si focalizza sulle potenzialità di crescita economica del territorio di competenza dell'amministrazione sotto valutazione. E' ovvio: se la mancata crescita genera un aumento del debito pubblico, la valutazione dei mercati finanziari sull'affidabilità finanziaria del soggetto pubblico (valutazione di cui le agenzie di rating sono fedeli interpreti) non potrà che essere negativa. Se non si crea nuova ricchezza, non si pagano i buffi.
Il problema vero, che tiene l'Italia, come gli altri PIIGS, a ballare sul filo dello spread non è il debito pubblico totale, ma la componente di tale debito detenuta da soggetti stranieri. Quello che i mercati finanziari internazionali vogliono farsi rimborsare è la quota di debito da loro detenuta, non l'interezza dello stesso. Infatti, il Giappone, che ha un rapporto debito pubblico/PIL del 200%, non subisce tensioni sullo spread e sulle aste dei titoli del debito pubblico come l'Italia. Perché quasi tutto il debito pubblico giapponese è detenuto da soggetti residenti. La quota di debito delle amministrazioni centrali e locali in mano a creditori esteri, nelle proiezioni al 2012 riportate dal Global Financial Stability Report di Aprile 2012, è infatti solo del 19% in Giappone, a fronte dell'elevatissimo 49% dell'Italia. A consuntivo (e quindi non a livello previsionale, come per il dato precedente) la Banca d'Italia evidenzia come, a marzo 2012, al netto dei contributi all'Efsf, il debito pubblico estero italiano è pari al 35% di quello totale.
Per inciso: tale quota, per l'Italia, era pari ad appena il 10% nel 1995, e quindi uno dei crimini economici piu' gravi dei governi, di centro-sinistra e di centro-destra, succedutisi dal 1995 ad oggi, è stato quello di moltiplicare per 3,5 volte la dipendenza finanziaria del Paese dall'estero. Con effetti disastrosi nella posizione internazionale dell'Italia, che se negli anni Ottanta era ancora un Paese-chiave, in particolare nello scacchiere mediterraneo, ma anche in Europa, si è vista relegare progressivamente in una posizione di totale ininfluenza geo-politica, anche a causa della sua accresciuta dipendenza finanziaria dall'estero.
Ciò che quindi occorre mettere in sicurezza, per uscire dagli attuali livelli di spread generati dai dubbi dei mercati finanziari globali circa la solvibilità del Tesoro italiano, è soltanto il 35% del debito pubblico totale. Il debito interno è infatti gestibile, intanto con politiche espansive sul ciclo, che consentano di generare, tramite l'aumento del gettito fiscale e la riduzione della spesa nelle fasi di espansione, le risorse finanziarie per ripagare i creditori interni. In caso di emergenza, poi, il debito interno può essere gstito con strumenti straordinari, come per esempio sistemi di prestito forzoso a carico dei redditi piu' alti, o norme che impongono allungamenti delle scadenze a parità di valore nominale (comportando quindi di fatto un haircut sul valore attualizzato del debito) o addirittura con il ripudio del debito, accompagnato da una parallela riduzione del carico fiscale sui creditori (poiché in definitiva il debito pubblico interno di un Paese è coperto dai suoi stessi residenti, tramite le tasse). Ma è evidente che tali norme, se un Governo nazionale può (forse comunque a fatica) imporle ai suoi creditori interni, non ha il potere di imporle ai creditori esteri.
Quindi, intanto, un fiscal compact adeguato per il nostro Paese non dovrebbe prevedere, come nella version attuale, una riduzione di 63 punti di rapporto fra debito pubblico e PIL in 20 anni, ma al massimo una riduzione di soli 36,6 punti di tale rapporto sullo stesso arco di tempo (ovvero il valore del rapporto fra debito estero e PIL stimato per il 2012), con manovre finanziarie meno recessive, rispetto a quelle attuali. Si tratterebbe di alleggerire lo sforzo finanziario richiesto al nostro Paese di almeno 250 miliardi di euro nell'arco complessivo dei prossimi 20 anni soltanto per la quota capitale del debito, senza contare la ulteriore riduzione della spesa sui rendimenti, derivante dall'abbattimento dello spread che un piano piu' realistico di rimborso dei creditori internazionali del nostro debito sovrano, rispetto a quello di Monti, comporterebbe, generando maggior fiducia nell'Italia sui mercati finanziari globali. La proposta di rivedere i trattati europei per prevedere, al posto degli automatismi del fiscal compact, una riduzione relativa soltanto alla quota di debito estero, sarebbe molto piu' favorevolmente accolta dai mercati, con minori tensioni sulle future aste di titoli del debito pubblico, rispetto alla proposta di Fassina di determinare una riduzione del valore attuale de debito totale e di rinegoziare al ribasso i rendimenti del debito già emesso.
Ma la proposta di cui sopra è addirittura conservativa, e si potrebbe pensare ad una proposta piu' radicale: anziché ripagare i 563 miliardi circa di debito pubblico estero tramite manovre finanziarie restrittive, proprio perché il problema del debito pubblico è incentrato sulla componente estera, si potrebbe sostituire debito interno a debito estero, aumentando cioè l'esposizione con soggetti residenti, per rimborsare quelli non residenti, e quindi liberare risorse per tornare a fare politiche economiche espansive sulla domanda aggregata, che a loro volta genereranno ulteriori riduzioni di disavanzi e quindi di debito, tramite il conseguente aumento di gettito fiscale.
Naturalmente, il discorso di cui sopra non può dimenticare che il debito pubblico, se è vero che non ha una vera e propria soglia di sostenibilità, genera però effetti redistributivi regressivi, dai titolari di redditi medio-bassi (che non possono investire in titoli del debito pubblico, ma che finanziano tale debito con il pagamento delle tasse) a chi ha le risorse per acquistare titoli del debito pubblico, ed incassare i relativi interessi (ed in particolare, si tratta delle grandi banche, dei fondi di investimento e di gestione del risparmio, e delle altre società finanziarie, cioè dei soggetti fondamentali del capitalismo finanziario). Quindi ciò significa che il rigore va mantenuto anche oltre al rimborso della sola quota estera del debito.
Però il significato del termine “rigore”, per la sinistra, dovrebbe essere molto diverso da quello attuale. Non deve significare continuare ad imporre tagli indiscriminati alla spesa pubblica. I dati (non certo imparziali) del programma di stabilità 2012 del Governo italiano ci dicono che il saldo primario del bilancio dello Stato (cioè prima del pagamento degli interessi) incide, sul debito pubblico, fino a 5,7 punti di PIL. Poiché però il ciclo incide sul saldo primario in un range variabile fra 0,5 e 1,5 punti di PIL, di fatto gli interventi strutturali di taglio sulla spesa pubblica messi in campo dal Governo Monti inciderebbero sul debito pubblico fra un minimo di 0,5 ed un massimo di 5 punti di PIL, comportando una riduzione dello stock del debito publbico totale pari, nella migliore delle ipotesi, al 4,2%. Questo è quello che vale, dal punto di vista della riduzione del debito pubblico totale, la macelleria sociale finora imposta dal Governo Monti: una riduzione, nella piu' rosea delle ipotesi, del 4%, al netto del ciclo. Che significherebbe passare dall'attuale rapporto debito/PIL, pari al 123%, al 119%. Niente di risolutivo, nonostante i gravi costi sociali associati alle manovre montiane.
Questo significa che il modo più efficace di ridurre il debito non è tagliare la spesa, ma diminuire gli interessi sul debito (sempre secondo i documenti governativi, l'effetto snow ball, ovvero l'incremento di debito necessario per pagare gli interessi sul debito stesso, incide sul suo stock per un totale fra i 5 ed i 6 punti di PIL, per cui una riduzione di 3 punti di tale effetto comporterebbe una minore crescita del debito per 2,5 punti) e spingere sulla crescita economica (poiché il ciclo può incidere sull'avanzo primario per circa un punto di PIL, e a sua volta l'avanzo primario può ridurre il debito pubblico fino a 5-6 punti di PIL, è evidente l'impatto molto rilevante del ciclo sul debito stesso). Naturalmente, a ciò occorre affiancare, nella logica delle politiche di “stop and go”, cioè di flessibilità nell'uso del bilancio pubblico, un effettivo taglio della spesa pubblica nelle fasi di ripresa della crescita.
Per sintetizzare il discorso, il concetto di rigore, per la sinistra, non andrebbe coniugato come fallimentare taglio grossolano alla spesa per rispettare il fiscal compact (concetto da cui nemmeno le componenti piu' avanzate del PD si discostano del tutto) ma come un mix che punti soprattutto ad una spinta decisa verso la ripresa della crescita economica, stimolando la domanda (anche perché piu' che di rischi di inflazione, si può parlare di rischio di deflazione) e presenti un piano credibile di riduzione del debito, non imperniato quindi sugli irraggiungibili 63 punti di debito/PIL previsti dal fiscal compact, ma soltanto sull'azzeramento della quota estera del debito, che ci consenta anche di recuperare autonomia nazionale. Magari sostituendo, in tutto o in parte, debito interno a debito estero (senza preoccuparsi se nell'immediato il debito totale cresce ulteriormente rispetto al PIL), al fine di avere le risorse per stimolare la crescita economica, e quindi, nella fase di ripresa, per ridurre il carico sui conti pubblici tramite l'incremento del gettito fiscale ed una riduzione della spesa. Il necessario taglio della componente oggettivamente improduttiva della spesa pubblica corrente di funzionamento (senza toccare in nessun modo, ma anzi aumentando, la spesa in conto capitale e quella corrente di gestione, che servono rispettivamente per alimentare gli investimenti pubblici, la spesa in servizi pubblici ed il sistema pubblico di programmazione delle politiche) sarebbe un ulteriore ingrediente di tale programma.

2 commenti:

  1. Commento di Renato Costanzo Gatti: L'obiettivo di "nazionalizzare il debito" (come il progetto Monorchio) fa diminuire il costo del servizio del debito e ci mette al riparo da attacchi speculativi. Ma non è sufficiente per renderci equiparabili al Giappone, che oltre ad avere prestatori locali ha anche una moneta sua. Noi abbiamo un debito espresso in una moneta "non nostra" in quanto noi mai potremmo fare una svalutazione competitiva. Il secondo punto è più politico, pensare di far cambiare il fiscal compact sulla base del solo debito n0n locale, mi pare impresa più difficile del far passare la golden rule. Mi chiedo se sia compatibile con i trattati fare aste di titoli pubblici da cui siano esclusi paesi non euro ma anche paesi euro non italiani. E sul secondario? Mi chiedo inoltre come potrebbe incidere il fatto che le banche acquistassero debito pubblico in maniera massiccia. Come ben vedi sono più orientato ad abbattere il debito, piuttosto che affidarmi solo alla riduzione del costo del suo servizio, cosa peraltro commendevole.

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  2. In linea di massima, noi dobbiamo superare la visione dell'euro come moneta "non nostra". L'euro è anche una moneta nostra. Ci siamo anche noi nel board della Bce. Ed in linea di principio, se una modifica ai trattati andrebbe fatta, sarebbe quella di introdurre l'obbligo per la Bce di acquistare titoli del debito pubblico sul primario, dietro sollecito a maggioranza qualificata del Consiglio in base ad una mozione del Parlamento. Ovviamente in condizioni predeterminate di particolari tensioni sul mercato ed entro limiti prefissati, per evitare la monetizzazione dei debiti ed i connessi "azzardi morali" dei Governi. Una precisazione perché forse la cose non è chiara: non sto dicendo che occorre proibire la partecipazione di soggetti non residenti alle aste dei titoli pubblici. Sarebbe una assurdità economica, oltre che una violazione dei trattati. Sto dicendo che il Paese deve darsi una solida e credibile reputazione, in base alla quale si impegna, sempre, a ripagare prioritariamente ed immediatamente il suo debito estero, anche ricorrendo, se strettamente necessario ed inevitabile, a forme di prestito forzoso dai residenti. Questo "patto" con i mercati consentirebbe di farci prestare soldi dai creditori internazionali a tassi di rendimento sostenibili. Vorrei ricordare che siamo già in una situazione di Weimar: gli attuali rendimenti ci condanneranno alla bancarotta, prima ancora dell'ammontare della quota capitale del debito.

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