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giovedì 20 settembre 2012

LO PSICODRAMMA DELLE PRIMARIE E LE SCELTE DI VENDOLA di R. Achilli



LO PSICODRAMMA DELLE PRIMARIE E LE SCELTE DI VENDOLA
di Riccardo Achilli


Lo scontro in atto nel Partito democratico attorno alla questione della candidatura di Vendola alle primarie è molto istruttivo. Sia pur dal suo punto di vista, Fioroni ha detto una cosa incontrovertibile: le coalizioni si costruiscono sulla base della compatibilità dei programmi.
Pertanto, oggettivamente è incongruo che Vendola si candidi a guidare una coalizione nella quale c'è il Partito democratico, che ha votato per la riforma-Fornero del mercato del lavoro, e che ancora oggi, per bocca di Cesare Damiano, l'esperto democratico di giuslavorismo più a sinistra rispetto ad Ichino, dichiara che il “compromesso” (?) raggiunto sull'articolo 18 è positivo, e va soltanto calibrato in base ad un monitoraggio dei suoi effetti, mentre Vendola supporta un referendum mirato ad abrogarlo.
Più in generale, i documenti di intenti presentati dal PD e da SEL evidenziano due modelli profondamente diversi e per molti versi incompatibili: uno di liberismo e rigorismo smussato da elementi di solidarismo nei gangli di più evidente generazione di ingiustizie sociali, ed un altro radicalmente antiliberista ed antirigorista, con tanto di richiesta di rinegoziazione radicale dei trattati dell'austerity, che il PD, invece, dichiara di voler rispettare. E non parliamo delle difficoltà di dialogo su alcuni temi relativi ai diritti civili.

E' evidente che questa non è una coalizione. E' un'accozzaglia.
Ed il metodo con cui quest'accozzaglia sarà gestita, per tentare di dare un'idea sia pur vaga di governabilità, dopo le cattive performance su questo tema che hanno afflitto le precedenti esperienze di centro-sinistra, è stato spiegato bene da Bersani: ogni volta che ci sarà una divergenza (cioè praticamente sempre) i gruppi parlamentari dell'accozzaglia saranno riuniti e voteranno a maggioranza. Il che rappresenterà il modo migliore per disintegrare un eventuale governo di centrosinistra in pochissimo tempo.
Ma soprattutto tale schema è pensato appositamente per mettere sistematicamente in minoranza la sinistra dello schieramento di governo, privandola di incisività.
Lo dicono i numeri.
Supponiamo lo scenario, non improbabile, in cui si vada a votare con l'attuale Porcellum.
In base alle cifre dei sondaggi, SEL conquisterebbe più o meno 30-32 deputati e una ventina di senatori; l'Idv più o meno altrettanti; Pdci, Verdi ed altri probabilmente sarebbero a zero, oppure, come migliore posizionato sotto le soglie di sbarramento, e nel caso in cui il PSI faccia lista comune con il PD, il Pdci conquisterebbe forse, con molta fortuna, 5 o 6 deputati. Il PD avrebbe non meno di 200-205 deputati e un centinaio di senatori, nel peggiore dei casi.
La necessità di accordarsi con l'Udc per avere quei 40-42 voti alla Camera e quei 17-20 voti al Senato indispensabili al raggiungimento di una maggioranza sarebbe inevitabile. Anche volendo considerare che una parte dei parlamentari del PD possa tendere a votare con la sinistra nei voti dei gruppi parlamentari sui provvedimenti controversi, quest'ultima, quand'anche riuscisse a mantenere una elevata compattezza interna, avrebbe a disposizione fra i 70 e gli 80 deputati, e fra i 40 ed i 50 senatori. Contro circa 190-200 deputati e una novantina di senatori del PD, che esprimerebbero la maggioranza centrista e dalemiana del partito. E senza contare i voti del gruppo parlamentare dell'Udc.

Evidentemente la sinistra di un simile schieramento sarebbe condannata all'impotenza politica ed a una posizione minoritaria sulle questioni più strategiche (e quindi più controverse) che il futuro esecutivo di centro sinistra sarebbe chiamato a dirimere. Ovviamente, in presenza di una eventuale riforma elettorale con premio al primo partito, l'egemonia del PD sulla coalizione sarebbe ancora più forte.
La sinistra finirebbe per svolgere un ruolo di “coscienza critica”, il cui unico effetto politico concreto sarebbe quello di mantenere strati di elettorato popolare agganciati ad una coalizione guidata da un indirizzo politico sostanzialmente continuista con le filosofie di Monti, dove anche gli interventi di attenuazione del conseguente danno sociale sarebbero decisi dal PD (come ad esempio i progetti di modifica alla riforma pensionistica della Fornero, che sono targati dal PD).

Oggi stesso, prima ancora che l'esperienza di un Governo di centro-sinistra inizi, Vendola si trova oggettivamente in una posizione di subordinazione al PD, sulla questione della realizzazione di primarie di coalizione, che appare totalmente dipendente da uno scontro politico interno a tale partito. Vendola paga in questo caso l'aver voluto stringere il patto di governo con Bersani, lanciando la sua candidatura alle primarie, senza condizionare il tutto ad un accordo di massima perlomeno sull'indirizzo politico generale del futuro Governo, cioè senza che vi fosse la base per una coalizione vera e propria. Poi quasi sicuramente le primarie le potrà fare: proprio stasera è uscito un comunicato-stampa di Migliavacca, uomo vicinissimo a Bersani, che chiarisce che le regole per l'estensione alle primarie di coalizione verranno decise con i partiti della coalizione stessa dopo il 6 ottobre.

Ma il punto non è questo. Non saranno le primarie, rispetto alle quali non è nemmeno detto che Nichi riesca a conseguire un risultato positivo, a determinare l'indirizzo politico di un futuro governo di centro-sinistra. Saranno gli interessi economici dei mercati, i rapporti con i Governi-guida dell'Unione Europea (Germania e Francia) ed i rapporti di forza parlamentari, a determinarlo. La politica è da decenni subordinata alle dinamiche dei mercati capitalistici globalizzati, specie di quelli finanziari, e non saranno certo le primarie in un Paese relativamente periferico come l'Italia a modificare ciò. D'altra parte, il tasso effettivo di progressismo dei Governi ulivisti e di centro-sinistra precedenti è molto discutibile. In condizioni macroeconomiche molto migliori di quelle attuali, senza quindi la pressione in direzione di una ristrutturazione neoliberista della società derivante dall'esigenza di ripristinare le condizioni della ripresa del tasso di profitto, i governi di centro-sinistra degli anni passati hanno proceduto ad importanti operazioni di smantellamento del ruolo programmatorio e degli strumenti di intervento diretto dello Stato per correggere i fallimenti di mercato, ad un ampliamento notevole dell'area della competizione deregolamentata nel settore finanziario ed in quello dei servizi pubblici, all'avvio della ristrutturazione liberista del mercato del lavoro ed alla formazione del primo bacino di lavoratori precari, all'introduzione di elementi privatistici nel welfare pubblico, alle prime riforme pensionistiche penalizzanti per i lavoratori. Figuriamoci cosa sarebbero capaci di fare adesso, che la pressione in direzione neoliberista, da parte dei poteri forti del capitalismo, è molto più forte proprio a causa della crisi. Figuriamoci quanto possa influire una sinistra collocata dentro un governo chiamato a proseguire su tale linea di austerità. Un governo che, se risultasse troppo timido nell'obbedire agli ordini del capitalismo in crisi, magari a causa di un ostracismo da parte della sua componente di sinistra, sarebbe immediatamente dissolto, per tornare ad una nuova tornata di tecnici supportati da una larga coalizione, esattamente come accaduto per il Governo-Berlusconi, giudicato non più affidabile, essenzialmente a causa del precipitare delle condizioni psichiche del suo premier. C'è poco da illudersi: Napolitano, qualche settimana fa, ha detto chiaramente che si farà garante della prosecuzione del processo di ristrutturazione neoliberista anche dopo la fine del suo mandato. Ciò significa che incoronerà il suo successore, magari nella figura di Monti o di Casini, per continuare ad avere una Presidenza della Repubblica custode degli interessi dei mercati nei confronti di Governo e Parlamento.

Certo mi si potrà obiettare che tutto questo ragionamento è eccessivamente meccanicistico e pessimistico.
Certamente a Vendola verrà affidato un incarico ministeriale importante, e chiaramente un Ministro ha una sua sfera di autonomia regolamentare, nonché di iniziativa politica e progettuale, ma purtroppo nell'ambito dell'indirizzo politico stabilito a monte.
Certamente l'interesse della borghesia finanziaria è quello di mantenere la SEL dentro il progetto di governo del Paese, perché una sponda a sinistra serve per mantenere la pace sociale. Però è chiaro che i margini a disposizione sono ristrettissimi, e consentono solo operazioni di contenimento del danno sociale molto parziali e non sostanziali. Ove tali margini fossero superati, l'interesse ad avere un Governo obbediente prevarrà su quello di avere un Governo inclusivo.         
Vendola invece dovrebbe riflettere sull'impatto che ha avuto la sua iniziativa di scartellizzare rispetto all'accordo con Bersani, aderendo alla proposta di referendum. Per la prima volta, ha costretto i vertici del PD ad uscire allo scoperto, a promettere riforme parlamentari sull'art. 18 e l'abrogazione dell'art. 8. E la stessa reazione nervosa della componente centrista del PD, guidata da Fioroni, che chiede a Bersani di escludere Vendola dalle primarie, mostra chiaramente che si colpisce molto più duramente quando si opera al di fuori del perimetro dell'accozzaglia di centro-sinistra, e ci si unisce alla sinistra esterna all'asse Bersani-Letta-D'Alema su iniziative concrete, che rispondono direttamente ad interessi vitali delle persone.

A chi si richiama all'esperienza di Hollande per giustificare la possibilità di una sinistra progressista di Governo, in una fase come quella attuale, sarebbe il caso di ricordare che Hollande opera in un Paese che, rispetto all'Italia, ha margini di manovra sulla spesa pubblica più ampi, e che parte del suo progressismo deriva dalla pressione che subisce, a sinistra, dalla presenza di un polo antiliberista dotato di una significativa forza elettorale, come il Front de Gauche. Polo che in Italia non esisterà, fintanto che si continuerà a discutere soltanto di alchimie di coalizione ed elettoralistiche, cioè di tematiche sovrastrutturali rispetto alle questioni reali. E comunque, pur in tali condizioni più favorevoli rispetto a quelle italiane, Hollande non sta affatto ribaltando il paradigma neoliberista. Lo sta soltanto applicando in modo più progressivo e meno brutale.
Il richiamo al riformismo dei primi governi di centrosinistra degli anni sessanta è poi improponibile, perché le condizioni economiche e sociali oggi sono completamente diverse, per non dire opposte (tra l'altro, il riformismo di quel centrosinistra era incentivato dalla presenza, alla sua sinistra, di un partito comunista di massa, il cui messaggio formalmente rivoluzionario andava depotenziato tramite importanti concessioni welfaristiche ai lavoratori).  In tutti i casi, sembra esistere una regola costante secondo cui una sinistra di Governo è efficace soltanto se vi è alla sua sinistra una pressione significativa da parte di un movimento più radicale.

Io però voglio continuare ad essere convinto della buona fede di Vendola.
Forse pensa di poter avere una influenza sull'elettorato del Pd superiore alla realtà (perché una parte del voto di contestazione al vertice di quel partito potrebbe essere catturata dal messaggio falsamente “rivoluzionario-giovanilistico” di Renzi, e perché la componente socialdemocratica del PD, pur se impotente nel modificare la linea politica del partito, trattiene il suo elettorato più di sinistra).
Forse è anch'egli prigioniero di una politica che antepone la sovrastruttura elettoralistica e di coalizione ai contenuti.
Per questo, è più che necessario mantenere una linea di dialogo aperto con la SEL, così come con gli altri partiti che parteciperanno all'accozzaglia bersaniana. Perché le contraddizioni interne a quest'accozzaglia, di fronte alla gravità della situazione economica e sociale, non tarderanno ad esplodere, riportando la discussione sull'esigenza di una unità a sinistra prima di qualsiasi altra scelta tattica o elettorale.


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