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lunedì 29 ottobre 2012

ROMA, 27 OTTOBRE: I PRESENTI E GLI ASSENTI (INGIUSTIFICATI) di Norberto Fragiacomo




ROMA, 27 OTTOBRE: I PRESENTI E GLI ASSENTI (INGIUSTIFICATI)
di Norberto Fragiacomo
Noi c’eravamo, e non è fondamentale sapere quanti fossimo esattamente, se i 150 mila contati da un appassionato Cremaschi o i 20-30 mila visti da Alfonso Gianni, sellino “eretico” perché ragionevole e lungimirante. Eravamo tanti, o comunque parecchi, e abbiamo lanciato dei messaggi che qualcuno dovrà raccogliere. A chi si attendeva (e sotto sotto auspicava) una replica del 15 ottobre 2011, pretesto ideale per reprimere futuri dissensi, abbiamo anche dato una lezione: il Popolo della sinistra protesta, s’indigna, propone, e non sfascia auto né cassonetti. Però il suo (il nostro) no a Monti ed alle politiche a senso unico del governo euronapolitano è risuonato alto e forte, in una Roma graziata dalla pioggia.
Qualche giornalista (o politicante, o giornalista-politicante) dal portafogli rigonfio, attingendo alla sua riserva di luoghi comuni, ironizzerà, al solito, sulla “scampagnata”: ma chi si è fatto due nottate in pullman, praticamente senza chiudere occhio, delle voci vendute poco si cura. Abbiamo speso i nostri soldi e rinunciato al riposo del fine settimana per un semplice motivo: perché andava fatto.
Tagliata fuori dall’Italia ferroviaria, Trieste è lontanissima da Roma: impiegheremo nove ore per raggiungere la capitale, dopo un viaggio in pullman attraverso la notte. Noi del No Debito montiamo in bus a due passi dal cortile della Risiera, e troviamo a bordo i compagni muggesani di Rifondazione, con scorte imponenti (forse anche di cibo, chissà). Si respira nell’aria un entusiasmo da trasferta giuliana: i cori si susseguono per ore, le canzoni più gettonate sono “Bandiera Rossa sventola” e una goliardica “Autogrill, autogrill (…)”, conseguenza di un consumo di birra alquanto elevato. Dormire o anche solo sonnecchiare si rivelerà utopistico, pazienza.
A Roma ci saluta un timido sole: scendiamo alla stazione Anagnina, dopo mezz’ora siamo già in centro. La città trabocca di turisti; i manifestanti, venuti da tutto il Paese, sono una goccia nell’oceano, ma alle due e mezza del pomeriggio diverranno un fiume impetuoso, ordinato ed allegro. Sì, allegro – perché malgrado la spossatezza e la ferocia dei tempi, questo sentirsi uniti, cellule di un organismo più grande (il corteo, la massa) ha sulle coscienze un effetto galvanizzante.

Meno gente di un anno fa in piazza della Repubblica, e mancano troppi vessilli. SeL e l’IdV non hanno aderito alla manifestazione; all’ultimo momento si sono tirati indietro anche i Comunisti italiani, alla ricerca (i vertici) di uno strapuntino parlamentare difficile da ottenere.
C’è tanta Rifondazione, invece, e nutrite rappresentanze dei vari partiti comunisti: PCdL (trotskista), PdAC (idem, ma in cattivi rapporti con il precedente…), Sinistra Critica, PMLI (i marxisti-leninisti), CARC ecc. Ci sono anche i verdi, il Nuovo Partito d’Azione e i socialisti della LdS, che sventolano orgogliosamente una bandiera del PSI con falce e martello.
Davanti a tutti, però, stanno i sindacalisti autonomi (USB e Cobas, finalmente uniti) e gli esponenti della Rete 28 aprile, minoranza interna alla CGIL. Quest’ultima non partecipa, e fa male al cuore dei manifestanti l’assenza della FIOM di Maurizio Landini, considerata fino a ieri un faro della resistenza antiliberista. Ci sono numerosi militanti, con l’inconfondibile felpa indosso, ma i capi no, se ne sono rimasti a casa. Peccato, questa folla non andava abbandonata, perché somiglia tanto a quella del 9 marzo (sette mesi fa!), radunatasi per applaudire il segretario dei metalmeccanici.

Si parte, raccogliendo qualche battimano da balconi e finestre. Chi scrive si innamora di alcune scene: i giovani del PMLI, con le loro bandiere rosse e nere, che incedono dietro a noi gridando slogan e cantando (bene) inni che appartengono a tutta la sinistra italiana; l’ingresso, a passo di marcia, dei compagni del PCdL in piazza San Giovanni, schiere compatte e vessilli al vento. “Compagni avanti, il gran partito…”: le voci si fondono nell’Internazionale, scivola qualche lacrima che non è solo stanchezza.
Impossibile sentire i discorsi degli oratori, che si perdono nella piazza infinita: sarà youtube a portarci, l’indomani, le parole di Ferrero e Cremaschi. Il vecchio leader sindacale non cerca perifrasi: il Governo Monti è nostro nemico, l’Unione Europea, nata per compiacere le lobby, non è riformabile. Questo è solo l’inizio!, tuona, dando voce al pensiero – anzi, alla speranza – di tutti noi.

Rimane in bocca un retrogusto amaro, però, per quelle sigle mancanti all’appello: Sinistra Ecologia Libertà, sorta con l’ambizione di unificare la sinistra, ha preferito lasciarla orfana, virando verso il montismo soft della Carta d’intenti (chi accetta la logica del rigore e dei trattati accetta anche quella dello spread, non può essere altrimenti); la stessa FIOM, salutata a lungo come sindacato irriducibile, pare aver perso la fiducia in se medesima, nei sostenitori e nella possibilità di portare avanti un’ardua battaglia. Alcuni segnali (ad esempio, le trattative serrate con Federmeccanica) suggeriscono che la dirigenza stia cercando di abbassare i toni, e di rientrare, in qualche maniera, nel sistema da cui Marchionne l’ha brutalmente cacciata: questo spiegherebbe l’infittirsi dei contatti col centro-sinistra, un probabile appoggio a Vendola – su cui però grava la spada di Damocle di una possibile condanna per abuso d’ufficio – e la ritirata dalle piazze. Potrebbe sembrare una tattica assennata, e magari lo sarebbe, se fossimo negli anni ottanta-novanta del secolo scorso: nell’età della crisi, tuttavia, l’arrendevolezza non paga, perché i finanzieri non hanno di mira un semplice assestamento (a loro ancor più favorevole) dei rapporti sociali, bensì il ritiro di tutte le concessioni fatte alla classe lavoratrice nel dopoguerra e la trasformazione della società in una fabbrica amministrata con pugno di ferro. 

Mentre noi sfilavamo senza la FIOM, il ministro Ornaghi dichiarava apertamente a Stresa che “uno stato sociale garantito dallo Stato non sarà più possibile, qui come in nessun altro Paese dell’Occidente (…) il welfare ha talvolta indebolito il funzionamento della democrazia, perché l’aspettativa generalizzata, una volta diventata diritto, abbisogna di una soddisfazione che appesantisce i costi dello Stato.”
Cos’è questa, compagni della FIOM, Presidente Vendola, se non una dichiarazione di guerra fatta da un nemico di classe? Come pensate di poter convincere questa genia a ridistribuire un po’ di ricchezza, a rispettare le garanzie e i diritti costituzionali, semplicemente a non infierire? L’unica carta che avreste da giocare è quella della mobilitazione popolare, dell’appoggio ai movimenti, dello sciopero a oltranza; se rinunciate ad estrarla dal mazzo, perderete (e ci farete perdere) non soltanto la partita, ma anche quel minimo di credibilità che capi abili ed innovatori hanno raggranellato in anni recenti.
In un’epoca in cui talebani del liberismo, corrotti e puttanieri si dicono “moderati”, la moderazione è una strada spianata verso il precipizio.

Mentre riflettiamo sul da farsi, giungono dalla Sicilia risultati definitivi e non. Il primo è il boom certificato dell’astensionismo (il 52,58% degli aventi diritto non è andato a votare), il secondo la frammentazione del quadro politico in una miriade di partiti medio-piccoli (tutti sotto il 15%, grillini compresi!), cui fa da corollario la scomparsa della sinistra (SeL e FdS insieme raggiungono a stento il 3%).

Non c’è ragione di essere ottimisti, ma arrendersi è vietato: la sinistra può riconquistare la fiducia di lavoratori, studenti e pensionati solo scendendo unita in piazza, recependo le loro rivendicazioni ed integrandole in una proposta coerente.
Gli assenti di sabato hanno avuto torto, torto marcio; sta a noi, pellegrini per un giorno, richiamarli al loro dovere, senza scordare che anche il nostro impegno deve essere duraturo, e che senza consapevoli sacrifici non si ottiene nulla.




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