L’illustrazione
di Marx
Il tema della legge marxiana della caduta tendenziale del
saggio di profitto è, non a caso, insieme alla questione della trasformazione
dei valori in prezzi, il più dibattuto e controverso della teoria del grande
pensatore di Treviri. Non è un caso: dall'accettazione o confutazione di tale
legge discende l'accettazione o confutazione dell'idea di una estinzione del
capitalismo per via della sua stessa contraddizione interna fondamentale,
ovvero la declinante capacità di valorizzare il capitale investito, fatto
salvo, ovviamente, l’indiscutibile argomento per cui il capitalismo terminerà
soltanto quando sorgerà la classe sociale che lo abbatterà.
Nei termini più semplificati possibili, Marx afferma che
l'incremento continuo di investimento in macchinari e strumenti di produzione,
mirato ad accrescere la produttività del lavoro, produce una tendenza alla
caduta del tasso di profitto, anche quando ciò accresce il saggio del
plusvalore. L'effetto depressivo derivante dall'incremento del capitale
costante, infatti, più che compensa l'aumento del plusvalore. Formalmente:
-
sia q la composizione
organica del capitale, ovvero q = Cc/Cv, dove Cc è il capitale costante, ovvero
il valore-lavoro (lavoro morto) incorporato nella massa di macchinari e
strumenti per la produzione, e Cv è il capitale variabile, ovvero il
valore-lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro (approssimabile
con il monte-salari);
-
sia s il saggio del
plusvalore, ovvero s = Pv/Cv, dove Pv è il plusvalore estratto dal capitalista;
-
sia p il saggio di
profitto, ovvero p = Pv/(Cc + Cv).
Se dividiamo numeratore e denominatore del saggio di
profitto per Cv, otteniamo:
p = s/(q + 1)
Pertanto, un incremento della composizione organica del
capitale q, derivante da un investimento in nuovi macchinari di produzione, se
superiore al conseguente incremento del saggio di plusvalore s, associato alla
maggiore produttività dovuta al migliore equipaggiamento tecnico di produzione,
comporta evidentemente una riduzione del valore del saggio di profitto p.
Tuttavia lo stesso Marx circonda di notevole circospezione
tale legge, onde evitare irrealistici meccanicismi. Nel libro III del Capitale,
infatti, viene detto che tale legge rappresenta una tendenza generale, cioè di
lungo periodo, mentre nel breve operano “fattori contrastanti”, ed in
particolare Marx ne cita sei (un più intenso sfruttamento del lavoro, che fa
crescere oltremodo s, la riduzione dei salari al di sotto del valore di riproduzione
della forza-lavoro, la riduzione del valore di elementi di capitale costante,
una crescita dell'esercito industriale di riserva, il commercio estero, che può
ridurre il costo degli input produttivi, l'aumento della condivisione del
capitale, che ne trasferisce il costo su altri soggetti).
Nei sistemi capitalistici maturi: tendenziale declino del
saggio di profitto nel lungo termine, e sua tendenziale stabilità nel breve e
medio termine
In questo paragrafo, cercherò di dimostrare che esiste, in
linea con le previsioni di Marx, una tendenza di lungo periodo del saggio di
profitto a scendere. Tale tendenza viene frenata, e parzialmente contrastata,
ma solo nel breve e medio periodo, dalla struttura produttiva stessa del
capitalismo maturo, ovvero dalle sue caratteristiche oligopolistiche e
finanziarizzate.
Purtroppo i dati statistici non aiutano: la ricostruzione
omogenea dei profitti su serie storiche lunghe è molto difficile, gli stessi
risentono di artifici contabili e fiscali messi in opera dalle imprese, la
ricostruzione dello stock di capitale di un'economia nazionale presenta
notevoli difficoltà, la composizione settoriale dell'economia influisce
esogenamente, e per lunghi periodi, sul valore del profitto aggregato, ecc.
L'esercizio condotto da Perri (2010), tramite i dati Ocse,
sembrerebbe evidenziare una tendenza al calo del saggio di profitto lordo, fra
gli anni Sessanta ed oggi, per Italia, USA e Giappone, mentre per Francia e
Germania l'andamento della curva è inconclusivo. Peraltro, poiché i salari sono
a prezzi correnti e non costanti, il decremento del saggio di profitto
calcolato da Perri potrebbe dipendere da un effetto inflazionistico sui salari.
L'economista marxista Robert Brenner evidenzi, in modo molto più robusto,a un
calo del tasso di profitto netto statunitense fra 1948 e 1999, dovuto
esclusivamente al comparto manifatturiero, mentre il comparto non
manifatturiero mostra un andamento stagnante del tasso di profitto (fig. 1).
Per l'Italia, da una personale stima sui dati Istat, che utilizza il risultato
lordo di gestione come proxy del profitto, evidenzio che il saggio lordo di
profitto deflazionato segue un andamento effettivamente decrescente, con il
valore che passa dall'11,3% nel 1970 al 6,6% nel 2009 (fig. 2). Ma tale discesa
è in parte alimentata da componenti del risultato lordo di gestione, come le
rendite, che sono strutturalmente in calo (anche se incidono marginalmente). I
dati statistici, quindi, sembrano
supportare una tendenza di lungo periodo verso il calo tendenziale del tasso di
profitto, ma è evidente che il suo ritmo è troppo lento per poter far pensare
ad un crollo del capitalismo in un futuro prevedibile.
Fig. 1 – Andamento del saggio di profitto netto nel
comparto
manifatturiero e non manifatturiero ed extragricolo degli USA,
1948-1999
Fonte:
Robert Brenner, 2002
Fig.
2 – Andamento del tasso di profitto lordo in Italia nel periodo 1970-2009
Fonte: mia elaborazione su dati Istat
La conseguenza operativa di tali evidenze è che il saggio
di profitto declina, ma nel lungo periodo, mentre occorre considerare, nel
medio termine, l'intuizione di Sweezy e della Mosszkowska relativa alla
tendenza del saggio di profitto verso la stagnazione, più che verso la sua
riduzione (ovviamente stiamo ragionando di medio periodo; nel lungo periodo,
l’evidenza statistica è per la riduzione). Da un lato, infatti, l'incremento di
produttività consentito dall'introduzione di innovazione tecnologica, e quindi
dall'aumento di capitale costante, controbilancia la spinta a ridurre il tasso
di profitto; dall'altro, l'aumento di produttività può anche ridurre il valore
dei nuovi beni capitali introdotti, cosicché ad un aumento del volume fisico di
capitale costante non corrisponde sempre, automaticamente, un aumento del suo
valore per unità di lavoro e di prodotto, e quindi della composizione organica
del capitale (che per l'appunto è in valore).
Tali effetti moderano, anche se non eliminano, la tendenza
verso la riduzione del tasso di profitto, rendendola molto lenta. Contrariamente all'opinione di una parte
degli economisti marxisti, per cui l'attuale fase di oligopolizzazione e
trustificazione dell'economia, avviatasi dagli anni Cinquanta, porterebbe ad
una accelerazione della caduta del saggio di profitto, in realtà la
concentrazione oligopolistica del capitale è il rimedio contro la caduta del
tasso di profitto perché, da un lato, come sottolineano Gillmann e Pietranera,
tale fase ha consentito di ottenere innovazioni di processo a forte effetto
incentivante sulla produttività, economie di scala e rafforzamento del potere
contrattuale nei confronti del lavoro e dei fornitori di materie prime e semilavorati.
D'altro lato, la trustificazione ha ridotto la concorrenza, stabilizzando il
prezzo e quindi i profitti ed ha portato, come sottolinea Sweezy, a curve di
domanda tendenzialmente di tipo angolare, tipiche di mercati oligopolistici,
nelle quali il prezzo si stabilizza ad un livello pari al costo pieno, con
oscillazioni poco rilevanti, perché se l'impresa, in presenza di curva di
domanda angolare, cerca di ridurre significativamente il prezzo per aumentare
la quota di mercato, viene immediatamente imitata dai concorrenti, senza quindi
riuscire ad aumentare la sua quantità venduta. Se invece aumentasse il prezzo
al di sopra del costo pieno in misura consistente, perderebbe immediatamente il
suo mercato.
In tale situazione, poiché il prezzo di equilibrio è basato
sul principio del costo pieno, nel breve e medio periodo il profitto tende a
stabilizzarsi, a smorzare la sua caduta, poiché è fissato come mark-up del
prezzo. Quindi, poiché il prezzo non può aumentare per via della curva di
domanda ad angolo, la concorrenza oligopolistica si sposta sempre più sulla
qualità finale del prodotto e sul controllo dei costi di produzione interni in
rapporto alla produttività.
Tali fattori, sempre nell’immediato, tendono a
stabilizzare, se non ad accrescere, il profitto complessivo del sistema
produttivo, poiché la maggiore qualità giustifica una parziale uscita dalla
condizione di “angolarità” della curva di domanda, aumentando il prezzo senza
necessariamente pregiudicare il profitto delle imprese concorrenti (perché
l'impresa che fa qualità si sposta su una nicchia di mercato non
concorrenziale, un po' come la Mercedes che non fa concorrenza diretta alle
berline della FIAT, perché i segmenti di consumatori sono diversi). D'altro
canto, una riduzione dei costi di produzione interni rispetto alla produttività
dei fattori consente di ottenere maggiori profitti a parità di fatturato e di
quota di mercato, anche in questo caso, quindi, senza pregiudicare il profitto
dei concorrenti.
Fig.3
– curva di domanda concorrenziale ed oligopolistica (angolare)
Infine,
l'oligopolizzazione delle strutture produttive e di mercato è alla base della
finanziarizzazione crescente del capitalismo che, a partire dagli anni Ottanta,
contrasta il declino del saggio di profitto, tramite la realizzazione di
profitto fittizio sui mercati finanziari. Infatti, la leva fondamentale per lo
sviluppo della finanziarizzazione è data proprio dalla rendita da oligopolista,
ovvero l'extra-profitto ottenibile dal maggiore potere di mercato e dalla
riduzione della concorrenza che l'oligopolista spunta, rispetto ad una
condizione di concorrenza perfetta. Inoltre le crescenti interrelazioni
azionarie fra imprese industriali e banche, innescate dai processi di crescita
dimensionale e concentrazione oligopolistica, facilita ulteriormente l'accesso
ai mercati finanziari da parte delle società industriali. Non è un caso che
l'esplosione dei profitti finanziari delle grandi imprese private si verifichi
proprio a partire dagli anni Sessanta, quando la struttura oligopolistica dei
mercati diviene evidente: la quota dei profitti finanziari sui profitti totali
delle società private statunitensi passa dall'11% nel 1966 al 22% nel 1974. Nei
vent'anni precedenti, tale quota era rimasta invece relativamente stabile (era
infatti pari all'8% nel 1948). La crescita prosegue poi fino ad un picco del
45% nel 2002 per poi ridiscendere al 15% nel 2009, a causa dell'esplosione
della bolla finanziaria (dati Bureau of Economic Analysis).
Però è innegabile che il capitalismo sia in una profonda
crisi di sistema, non certo dentro una oscillazione ciclica. Il problema
dell'analisi della crisi del capitalismo va quindi spostato, almeno in parte,
verso valle, ovvero dalla tradizionale sfera marxiana della produzione verso
quella della distribuzione. Con una struttura di mercato sempre più
oligopolistica, in cui la concorrenza si sposta dai prezzi alla qualità ed al
controllo del rapporto fra costi e produttività dei fattori di produzione, i
profitti, per periodi brevi o medi di tempo, tendono a stabilizzarsi, ed anche
a crescere, anche senza la necessaria presenza di accordi di cartello. Il
potere di mercato sui fornitori di materie prime e sui lavoratori è accresciuto,
è possibile effettuare grandi investimenti in innovazione che aumentano la
produttività riducendo il valore unitario del capitale costante sul prodotto
finale, quindi senza scaricarsi sull'aumento della composizione organica del
capitale, mentre è possibile accedere a crescenti economie di scala ed a
redditizi profitti da investimento finanziario.
Tra l'altro chi, come Samir Amin, fa notare che la
concentrazione oligopolistica genera problemi di crescita del profitto
complessivo perché deprime quello delle piccole e medie imprese, omette di
considerare il fatto che la quota delle PMI nei processi di accumulazione, e
quindi di generazione di profitto, è oramai sempre più marginale. In Italia,
patria della piccola impresa, il valore aggiunto per impresa generato dalle
piccole imprese extragricole è di circa 12 euro, contro un valore medio di 59
euro per ogni impresa medio-grande. Il 48% del valore aggiunto extragricolo
italiano è generato dallo 0,6% delle imprese più grandi. Nelle altre economie
capitalistiche a minor presenza di piccola impresa, tali dati sono ancora più
sperequati.
Ovviamente, la sfera produttiva è quella che genera la
caduta tendenziale del saggio di profitto nel lungo termine, e che si riscontra
nelle evidenze statistiche sopra illustrate. Infatti, il profitto finanziario
genera irrimediabilmente bolle causate da una distorsione fondamentale nella
legge del valore, e quindi nei processi di accumulazione, e la struttura
oligopolistica, da un lato irrigidisce la struttura produttiva, rendendola
sempre meno capace di reagire a shock di domanda, d’altro lato contribuisce a
propagare le crisi finanziarie all’intera struttura economica ed a tutti i
Paesi, a causa delle molteplici interrelazioni societarie e produttive tipiche
di un capitalismo oligopolistico, che costruisce veri e propri reticoli globali
di relazioni. In sostanza, è la struttura “stabile” del capitalismo che porta,
in tempi lunghi, al declino del saggio di profitto.
Dalla sfera della produzione a quella del realizzo
Nel medio termine, però, le tensioni più rilevanti sul
saggio di profitto non si verificano nella sfera produttiva, ma in quella
successiva del realizzo della produzione. Le oscillazioni negative, anche molto
forti, che il saggio di profitto sperimenta nel breve periodo, al di là della
sua tendenza declinante di lungo termine, possono essere spiegate quasi
interamente dall’andamento della domanda effettiva, definita come sommatoria di
consumi privati e pubblici, investimenti (anche qui privati e pubblici) ed
esportazioni al netto delle importazioni. Un andamento particolarmente negativo
della domanda effettiva può infatti controbilanciare le già analizzate spinte
di breve e medio periodo alla stabilizzazione del saggio di profitto, derivanti
dall’oligopolizzazione e finanziarizzazione dei sistemi produttivi. Un brusco
calo della domanda effettiva, generato ad esempio da uno shock sui mercati
finanziari che produce una contrazione del risparmio, della propensione al
consumo, del credito bancario e quindi degli investimenti, può quindi
controbilanciare gli effetti stabilizzanti di breve e medio periodo forniti
dall’assetto del sistema produttivo.
Il problema centrale diventa quindi quello della domanda
effettiva. L'enorme surplus realizzatosi
negli anni Sessanta dal capitalismo oligopolistico si riversa, già dagli anni
Settanta, ed ancora più in seguito, nell'investimento finanziario, dando
risposta alla famosa domanda posta da Sweezy e Baran, nel loro “Capitale
Monopolistico”, ovvero “per che cosa spendere?”
La concentrazione del capitale e la sua finanziarizzazione,
che sono aspetti strettamente legati fra loro, come detto in precedenza,
comportano necessariamente un rallentamento della crescita della domanda
effettiva, al di sotto del suo trend potenziale. La concentrazione
oligopolistica deprime la domanda perché il modello concorrenziale che si
sposta dal prezzo al controllo del rapporto fra costi e produttività tende a
deprimere la crescita dei salari reali, in particolare in quelle economie, come
l'Italia, in cui le condizioni strutturali del contesto produttivo
(infrastrutture, capacità di ricerca ed innovazione, efficienza della P.A.,
rilevanza dell'economia sommersa ed illegale, livelli di formazione del
capitale umano, ecc.) generano diseconomie esterne che abbattono la crescita
della produttività. In Italia, il reddito reale per lavoratore dipendente
cresce soltanto del 18,3% fra 1977 e 2009, mentre la produttività del lavoro
cresce del 48,9%, con una riduzione di reddito rispetto all'apporto produttivo
fornito di oltre 15 punti percentuali. E' evidente che la maggiore ricchezza
prodotta tramite l'incremento della produttività non trova riscontro in una
crescita parallela dei redditi, quindi della capacità di consumare ed assorbire
tale ricchezza prodotta, generando strutturalmente una problema crescente di
crisi da realizzo.
Tale crisi viene affrontata mediante lo sbocco delle
esportazioni (infatti la nostra è un'economia fortemente orientata all'export)
ma tale situazione trova, prima o poi, un limite nel fatto che il divario fra
crescita della produttività e dei redditi da lavoro riguarda tutti i sistemi
capitalistici, non solo il nostro, e quindi ad un certo punto diviene
impossibile dare sfogo alla sovrapproduzione nazionale sui mercati esteri. Il
costo del lavoro per unità di prodotto, in termini reali, scende, fra 2001 e
2011, da 0,68 a 0,637 negli USA, da
0,717 a 0,683 in Germania, da 0,69 a 0,689 in Francia, da 0,694 a 0,614 in
Spagna, da 0,663 a 0,594 in Giappone (dati Ocse), come effetto del divario
crescente fra produttività e reddito reale, fenomeno che riguarda quindi tutti
i Paesi capitalisti, e non solo il nostro, e che quindi tende ad estendere
all'intero capitalismo globale la crescente condizione di sovrapproduzione come
differenza crescente fra ricchezza prodotta e redditi percepiti dai produttori
(solo che ovviamente, in termini assoluti e non relativi, i redditi crescono di
più dove la produttività cresce maggiormente, ceteris paribus).
E' chiaro che quando la sovrapproduzione è estesa a tutti i
Paesi capitalisti maturi, anche lo sfogo dell'export diventa meno rilevante. Nel
momento in cui uno shock esogeno (come una bolla finanziaria) abbatte una
domanda effettiva la cui crescita è già limitata, nell’ambito della condizione
strutturale di sovrapproduzione, il saggio di profitto tracolla anche nel breve
periodo.
Fig. 4 – Andamento della produttività e del reddito del
lavoro in termini reali, fra 1977 e 2011
Fonte:
mia elaborazione su dati Istat
Conclusione
L’analisi sin qui condotta conduce a ritenere che esista,
in linea con le previsioni di Marx, una tendenza di lungo periodo del saggio di
profitto a scendere, basata, ancor una volta secondo la teoria marxiana, sulle
contraddizioni in sede di struttura produttiva. Tale tendenza viene frenata, e
parzialmente contrastata, nel breve e medio periodo, dalla struttura produttiva
stessa del capitalismo maturo, ma al costo di generare condizioni sistemiche di
sovrapproduzione, che esplodono in vere e proprie recessioni, nel momento in
cui uno shock esogeno colpisce una domanda effettiva già di per più bassa del
suo livello potenziale. Pertanto, mentre il declino del saggio di profitto nel
lungo periodo è spiegabile con le tradizionali spiegazioni marxiane di tipo
produttivo, le sue oscillazioni nel medio periodo sono spiegabili dall’andamento
della domanda effettiva.
Da
tutte queste considerazioni, ne conseguono a mio avviso alcune indicazioni
operative:
1)
nel medio termine, il capitalismo reagirà
all’attuale recessione operando un cambiamento delle sue caratteristiche, come
ne ha operati altri in passato, imperniato sulle seguenti direttrici:
- nei Paesi capitalistici maturi,
macelleria sociale sui salari e la domanda, accompagnato da una forte spinta
verso una maggiore produttività dei fattori rispetto al loro costo, perché la
configurazione oligopolistica assunta in tali capitalismi maturi impedisce,
come si è visto, la concorrenza di prezzo, ed implica, come unico strumento di
ripristino di una profittabilità minima, la compressione dei costi dei fattori
rispetto alla loro produttività. Ciò a sua volta implica, per tenere sotto
controllo le conseguenti reazioni sociali, derive autoritarie e tecnocratiche
che progressivamente estinguono i nostri sistemi democratici tradizionali, per
sostituirli con una soft dictatorship;
- sviluppo dei
capitalismi emergenti, per ricostruire in tali Paesi i bacini di domanda atti a
ricostituire un incremento di domanda effettiva che riduca la condizione di
sovrapproduzione sistemica, il che, come ben dice Amin, corrisponde ad una lentissima
uccisione degli Stati Uniti da parte della Cina, ed al sorgere, molto lento e
progressivo, di un nuovo ordine monetario, commerciale e politico mondiale,
oltre che ad una nuova divisione internazionale del lavoro, in cui l'industria
si sposterà dai capitalismi maturi a quelli emergenti;
- ricostruzione
delle condizioni per rigenerare il profitto finanziario, come stabilizzatore
della caduta del profitto reale, il che implica ancora una volta la macelleria
sociale nei nostri Paesi maturi, poiché la speculazione finanziaria richiede la
stabilità di parametri come i prezzi, i tassi di cambio, i tassi di interesse,
e ciò può essere ottenuto soltanto in economie in cui il debito è sotto
controllo, non vi sono tensioni inflazionistiche, ecc. Ciò implica anche una
costante riduzione del ruolo dello Stato nell'economia e nella società, perché
il laissez-faire e l'assenza di regolamentazione sono il bacino ideale entro il
quale sguazza la speculazione finanziaria globale.
2)
In queste condizioni,
occorre ricostruire una opposizione politica e sociale che sia il più inclusiva
possibile di tutte le componenti della tradizione della sinistra, e senza
pregiudiziali. Non posso essere d'accordo con le posizioni di Samir Amin e in
generale del marxismo più ortodosso, secondo cui la tradizione
socialdemocratica sarebbe obsoleta. Ha delle responsabilità gravi per la sua
involuzione blairiana e social-liberista, ma non è vero che la
socialdemocrazia, nella sua forma più radicale, vada abbandonata, poiché la sua
tradizione più sana va recuperata. Se, come detto sopra, il capitalismo genera condizioni
sistemiche di sovrapproduzione, e la sua finanziarizzazione e liberalizzazione
riducono il ruolo dello Stato nell’economia, allora il Socialismo del XXI
Secolo, se vuole proporre un modello diverso, deve riappropriarsi di concetti
socialdemocratici come la programmazione pubblica, la nazionalizzazione delle
imprese strategiche, il sostegno alla domanda effettiva. Se la ristrutturazione
del capitalismo in crisi porta a forme di dittatura tecnocratica, occorre
lavorare per la democrazia dal basso, il che significa coinvolgere, a livello
progettuale, la società, e le sue forme spontanee di associazionismo, e
ricostruire meccanismi di democrazia economica dal basso, di compartecipazione
dei lavoratori alle scelte aziendali, di progressiva socializzazione della
produzione, di cooperativismo. Questo significa che la lotta di piazza e di
movimento non può non accompagnarsi anche ad una lotta dentro le stesse
istituzioni democratiche borghesi, in primis nel tentativo di preservarle da
uno svuotamento definitivo delle loro sia pur modestissime capacità di
rappresentanza e garanzia dei diritti politici;
3)
Occorre rifuggere da
forme di nazionalismo, non perché il nazionalismo sia di per sé brutto, o
evochi chissà quali scenari catastrofici, ma semplicemente perché la
ristrutturazione del capitalismo per uscire dalla crisi è globale, non
nazionale; i centri decisionali che stanno operando per portare a termine
questo doloroso processo di ricostruzione prescindono dalle frontiere
nazionali. Occorre che il panorama dell'azione politica mirata ad imporre un
paradigma economico e sociale nuovo sia internazionale, altrimenti rischieremmo
di combattere contro i centri di potere globali dal provincialismo delle nostre
piccole frontiere. L'Europa, per noi, deve essere un traguardo, non una cosa da
abbandonare. Deve essere profondamente trasformata rispetto alla sovrastruttura
burocratica e dirigista attuale, che lavora solo per opprimere i popoli, deve
essere resa un'Europa democratica e popolare, ma rifugiandoci dietro le frontiere
nazionali non faremmo altro che dividerci, e fare lotte fra poveri. Se il
baricentro del potere economico si sposta dall'Europa, che dovrà soltanto
impoverirsi sempre più, è necessario che l'Europa resista, unitariamente,
contro tale destino;
4)
occorre un forte
orientamento antimperialista, occorre un modello di sviluppo armonioso e
collaborativo, non competitivo, che guardi alle speranze di sviluppo e
democrazia del Sud del mondo come se fossero le nostre stesse speranze di
liberarci da un destino che ci si sta preparando e che, veramente, non è
affatto bello;
5)
ad ogni modo la
tendenza al declino del tasso di profitto, nel lungo periodo, è evidente. La
transizione da un modo di produzione ad un altro è però un fatto che, nella sua
fase iniziale e pre-rivoluzionaria, dipende dal progressivo emergere di
elementi “in fieri” del nuovo modo di produzione all’interno di quello
esistente. Il modo di produzione schiavistico iniziò ad essere superato nel
momento in cui, a partire dal III Secolo, il sistema del colonato pose le basi
per il modo di produzione feudale, creando la servitù della gleba, il
radicamento sulla terra, le prime forme di gerarchia feudale. Il feudalesimo iniziò
ad essere superato quando l’economia mercantile, stimolata dalla
colonizzazione, generò le prime forme di accumulazione originaria. Poi
naturalmente arrivarono i salti rivoluzionari veri e propri, che però si
verificarono quando le condizioni erano oramai mature. Questo significa che un
programma economico di sinistra non può che stimolare la realizzazione di forme
e modi di produzione diversi da quelli capitalistici, anche mediante
esperimenti dal basso. Se il capitalismo assume forme oligopolistiche e
finanziarizzate, allora occorre lavorare sull’autogestione dal basso, sul
cooperativismo dei piccoli produttori autonomi che producono per sé stessi o per
forme eque e solidali di scambio.
Caro Achilli, il suo scritto è di grandissimo interesse, ma la prego di spiegare come arriva alla formula p=s/(q+1). Mi risulta infatti incomprensibile non logicamente ma algebricamente.
RispondiEliminaMolte Grazie
Adalberto Belfiore