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sabato 24 novembre 2012

LA TRAPPOLA PER LA CGIL di R. Achilli






di Riccardo Achilli




La firma dell'accordo sulla parziale detassazione del cosiddetto salario di produttività, o di secondo livello, cui la CGIL non ha aderito, rappresenta l’ennesima Caporetto della storica organizzazione sindacale. Intendiamoci: quell’accordo, dal punto di vista macroeconomico, non serve a niente. Si tratta di un incentivo fiscale (peraltro parziale, perché è comunque prevista una tassazione forfettaria sostitutiva di quella ordinaria) sui salari di secondo livello, sostanzialmente sugli incrementi salariali, negoziati in sede di contratto aziendale o accordi territoriali, connessi a straordinario, lavoro supplementare nel part‐time, lavoro notturno, lavoro festivo, indennità di turno o comunque le maggiorazioni retributive corrisposte per lavoro normalmente prestato in base a un orario articolato su turni, sempre a condizione che le stesse siano correlate ad incrementi di produttività, competitività e redditività.
È del tutto evidente che un incentivo fiscale di questo genere, con una disoccupazione elevata e crescente, è addirittura controproducente perché, per dirla con Marx, un incentivo all’estrazione di maggior plusvalore relativo rende superflua l’estrazione di maggior plusvalore assoluto, quindi contrasta con l’obiettivo di aumentare l’occupazione. E non è che la fuffa sulla cosiddetta “staffetta giovani-anziani”, prevista dall’accordo stesso, possa cambiare molto tale situazione. Anche come intervento di sostegno ai redditi ed ai consumi, tale provvedimento appare molto inadeguato. Stime fatte dalla CGIL conducono a ritenere che la contrattazione di secondo livello copra fra il 40% ed il 50% circa degli occupati di industria e servizi. Secondo il rapporto Ocsel della Cisl, poi, solo il 55% degli accordi di secondo livello riguarda il salario. Quindi sostanzialmente i lavoratori interessati dalla detassazione parziale del salario di produttività sono una minoranza, forse il 20-30% dell’intera platea occupazionale extragricola. Ed anche rispetto a chi è incluso, il beneficio in termini di maggior salario netto scatta, evidentemente, al raggiungimento degli obiettivi di produttività. Quindi l’effetto reale di tale accordo sulla domanda aggregata, e dunque sul potenziale di crescita dell’economia, è quasi nullo. Ricordiamo infatti che ci troviamo in un contesto in cui, in termini reali, la produttività del lavoro, seppur poco dinamica, è cresciuta molto più rapidamente del salario, negli ultimi dieci anni, quindi il problema vero è quello di una domanda catatonica, perché se non si può vendere sul mercato la maggior produzione ottenuta con l’incremento di produttività, è tutto inutile. La realtà è che l’unica vera finalità della detassazione del salario di produttività è quella di fornire un ulteriore incentivo alla demolizione del contratto collettivo nazionale ed allo spostamento della “ciccia”, cioè del salario, dalla contrattazione collettiva a quella aziendale/territoriale, contribuendo alla balcanizzazione in atto del mercato del lavoro. Balcanizzazione che, cela va sans dire, penalizza i lavoratori più deboli, le imprese meno sindacalizzate, ecc.
Il problema però è che per la CGIL l’accordo sulla detassazione della produttività era una vera e propria trappola, dalla quale non poteva che uscire sconfitta, quale che fosse la sua decisione, se firmare o meno. La Camusso ha scelto la strada meno dolorosa, evitando di firmare, ma è evidente che la sconfitta sia comunque grave, e lo stesso isolamento dell’organizzazione dimostra in modo plastico la sua sconfitta. E non può essere imputata agli avversari, che hanno fatto il loro gioco, ma soltanto ed esclusivamente all’inesistenza di una strategia da parte del più grande sindacato. La Camusso non può più, dopo aver firmato l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, dire che la CGIL è contraria ad un accordo che consente di travasare quote degli aumenti salariali decisi a livello nazionale sul livello aziendale e che rafforza tale livello di contrattazione a scapito di quella collettiva. Aver aperto la porta all’indebolimento del CCNL in cambio di un accordo sulla rappresentanza sindacale (che fra l’altro deve ancora essere ufficializzato e definito normativamente) fa sì che oggi la Camusso non possa dire “non abbiamo firmato perché la defiscalizzazione della produttività, e la possibilità di far transitare quote di aumenti collettivi sui contratti aziendali, rafforza un modello di balcanizzazione contrattuale e di competizione fra i lavoratori, a tutto vantaggio delle imprese”. Allora si rifugia in formule vaghe, del tipo “questo accordo penalizza i più deboli”, che i Ministri del governo Monti possono facilmente smontare, con conferenze-stampa in cui illustrano i benefici salariali per i (pochi) lavoratori che ne avranno diritto, oppure in rivendicazioni francamente ridicole, come la defiscalizzazione delle tredicesime, che si sapeva già non far parte dell'accordo.
Non è rifiutando la firma di un accordo nazionale, per poi accettarlo “de facto” in migliaia di contrattazioni aziendali a livello di Rsu/Rsa, che la CGIL uscirà dalla processione di continue sconfitte che sta subendo. Uscirà quando comprenderà che non si può essere massimalisti a giorni alterni, e si darà una strategia coerente, da seguire in modo univoco.   
    

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