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sabato 15 dicembre 2012

Il progetto europeo pericolante, di Riccardo Achilli


di Riccardo Achilli




L'economia tedesca su un crinale pericoloso

I recenti dati congiunturali sull'economia tedesca sono univoci, e preoccupanti. La crescita del PIL, che è stata, in volume, pari al 3,1% nel 2011, nel 2012 dovrebbe attestarsi su un modesto 0,9%, per poi scendere ulteriormente allo 0,6% nel 2013. I segnali di rallentamento del ciclo sono peraltro colti dagli indicatori anticipatori. L'indice IFO è in caduta libera: il sub-indice sul clima di business scende dal valore di 108,3 di gennaio 2012 a 101,4 a novembre, e certo il lieve incremento congiunturale sul mese precedente (+1,4 punti) non basta a tratteggiare una aspettativa di recupero; il sub-indice sulle aspettative di business scende, sul medesimo periodo, da 100,9 a 95,2, ed anche qui il lieve recupero fra ottobre e novembre non è tale da configurare alcuna prospettiva di ripresa economica in futuro. Ciò anche perché il saldo fra risposte positive e negative circa il clima degli affari, anche a novembre 2012, permane negativo per tutti i settori produttivi (seppur con un recupero rispetto ad ottobre), ad eccezione del solo commercio all'ingrosso. Il superindice Ocse, un indice composito con elevata capacità di anticipare l'andamento futuro del ciclo, nell'ultima release aggiornata ad ottobre 2012, anticipa un peggioramento per il ciclo economico tedesco per i prossimi mesi, con un outlook di “crescita debole”.
Tutto ciò ha evidenti riflessi sul mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione tedesco, secondo le proiezioni dell'Ocse, dovrebbe passare dall'attuale 5,3% stimato per il 2012 al 5,5% nel 2013, fino al 5,6% nel 2014, per oltre 130.000 disoccupati in più rispetto al valore attuale. Il ciclo economico tedesco, come era prevedibile, si avvia verso la stagnazione. Alcuni dei principali mercati di esportazione della Germania sono infatti localizzati proprio in gran parte di quei Paesi PIIGS che le politiche di austerità imposte dalla Merkel hanno distrutto. Fra 2012 e 2014, l'Ocse prevede infatti un tracollo delle esportazioni nette tedesche del 16,9%. Inoltre, poiché a quanto pare, nonostante lo spread, le banche tedesche continuano a fidarsi dell'Italia, visto che la sola Deutsche Bank, nel secondo trimestre del 2012, ha accresciuto la sua esposizione su titoli del debito pubblico italiano del 29%, arrivando a 2,52 miliardi di euro, è chiaro che la persistente recessione economica dei Paesi PIIGS, con il conseguente continuo aumento del debito pubblico, endogeno alla crescita stessa, non potrà che avere effetti depressivi sul mercato creditizio interno alla Germania, e quindi sugli investimenti.

I trattati europei saranno ammorbiditi

Sono quindi chiare almeno due cose. In primis, che certamente la politica della Merkel ha parzialmente messo al riparo l'economia tedesca dalla recessione. Scaricando sui PIIGS praticamente tutto il peso della ristrutturazione del debito pubblico europeo necessaria per preservare l'area euro dal crollo (ricordiamo che l'area euro è di fondamentale importanza per l'industria tedesca, poiché ha di fatto eliminato le politiche di svalutazione competitiva messe in campo dalle altre economie europee sue concorrenti dirette, in primis quella italiana), ha potuto preservare l'economia del suo Paese dal crollo subito dai PIIGS, avviandola verso una ordinata stagnazione. Il tutto in una condizione in cui, in realtà, la condizione di maggiore “virtuosità” dei conti pubblici tedeschi è frutto in parte anche di trucchi contabili. Come evidenziano gli studi fatti dalla Fondazione tedesca Markwirtschaft e dalla Facoltà di Economia di Friburgo, e come conferma Eurostat, il fatto che il debito pubblico, come calcolato in base alle regole scritte nel trattato di Maastricht, non includa il cosiddetto “debito pubblico implicito”, ovvero la proiezione sul debito pubblico futuro della spesa attualizzata per pensioni, sanità ed assistenza sociale, fa si che non si considerino i rischi di sostenibilità futura del debito tedesco. Infatti, il welfare pubblico tedesco, di gran lunga il più dispendioso di tutta l'area-euro, porterebbe ad un “divario di sostenibilità” del futuro debito tedesco pari a 111,8 punti di PIL aggiuntivi, a fronte di un divario di sostenibilità del debito implicito pari soltanto a 28 punti di PIL per l'Italia. Ciò significa che, a bocce ferme, se oggi il debito pubblico tedesco è certamente notevolmente più sostenibile di quello italiano, nel futuro sarà vero il contrario, e la Germania correrà verso un baratro finanziario. Strana concezione del calvinismo, quella di castigare le future formiche da parte di una futura cicala. Senza poi contare il fatto che, contabilizzando anche i titoli emessi dal Kfw (la Cassa Depositi e Prestiti tedesca) il debito pubblico tedesco schizzerebbe in alto di ben 428 miliardi (ben di più dei 300 miliardi di obbligazioni analoghe emesse dalla nostra CDDPP).
In secundis, diviene oramai evidente che la stessa Germania non potrà che farsi promotore di una revisione dei trattati europei, il fiscal compact in primis, perché il tracollo dei mercati di esportazione nell'Europa mediterranea sta portando la crisi anche a Berlino, e la potenziale deflagrazione di una crisi da doppio deficit negli USA rischia di dare un colpo ferale ad una Europa indebolita dalle politiche liberiste attuate sinora. Quindi, vi sarà quasi certamente un allentamento del fiscal compact, probabilmente ottenuto scomputando gli investimenti pubblici dal calcolo del deficit, tramite una sorta di golden rule, così come, a livello interno italiano, una qualche forma di redistribuzione del carico fiscale, riducendo di qualche grado l'imposizione diretta sul lavoro, ed introducendo qualche forma, sia pur imbastardita, di patrimoniale, oppure di tassazione sulle rendite patrimoniali. E ci sarà anche, a livello europeo, qualche forma, molto leggera per non spaventare i mercati, di regolamentazione dei mercati finanziari, con l'introduzione di agenzie di rating pubbliche, qualche sistema di early warning per anticipare bolle finanziarie con effetti sistemici, una più rigida vigilanza, di livello europeo, sulla solidità finanziaria delle banche, che già si sta predisponendo. Forse, più per motivi simbolici che reali, stante la sua inefficacia concreta nel disincentivare gli investimenti finanziari over the counter, vi sarà una vera e propria Tobin tax europea. Prevedo che l'allentamento dei trattati avverrà dopo le elezioni tedesche di autunno, che molto probabilmente costringeranno la Merkel a fare un governo di compromesso con la Spd.

L'inevitabile indebolimento dell'area-euro, anche dopo la crisi

Tuttavia, è da vedere se si possa uscire dalla recessione con un po' di revisioni all'acqua di rose del fiscal compact, atteso che nei prossimi mesi ed anni vi saranno da disinnescare una serie di bombe, che potranno prolungare la crisi. Le bombe sono rappresentate dal doppio disavanzo statunitense, la cui soluzione è oramai non più rinviabile da Obama, perché il fiscal cliff è oramai giunto al momento in cui qualsiasi scelta di politica economica comporterà effetti recessivi; anche lo scenario in cui il fiscal cliff verrà evitato, il rapporto fra deficit federale e PIL scenderà di almeno due punti entro il 2014. Inoltre, poiché il dollaro, come valuta di riferimento internazionale, è sotto serio attacco (alcuni acquisti internazionali di petrolio già si effettuano in renmibi), e la sua difesa richiede un forte riaggiustamento della bilancia commerciale statunitense, che sarà ovviamente pagato dalle esportazioni versi gli USA degli altri Paesi, tale riequilibrio genererà effetti recessivi sull'Europa. Una seconda bomba potrebbe provenire dalle contraddizioni interne del modello di crescita cinese, che potrebbero rallentarne il tasso di crescita potenziale.
Ammesso e non concesso che il capitalismo scansi questi pericoli, ciò che rimarrà in uscita dalla crisi, quando i trattati saranno rivisti per consentire la ripresa, prima che la crisi trascini verso il basso anche la Germania, sarà stata la pesante ristrutturazione del modello sociale europeo, ed uno schema di Unione europea in cui la Germania e i suoi addentellati nordici, seguita in parte dalla Francia, avrà rafforzato la sua egemonia economica sugli altri Paesi, e ci restituirà un'Unione europea più debole politicamente, influenzata in modo determinante nelle scelte economiche dagli egoismi nazionali. E ci sarà poco da illudersi: l'impoverimento dei paesi mediterranei, l'allargamento della forbice del benessere e dello sviluppo potenziale fra Nord e Sud dell'area euro, avrà effetti distruttivi non solo su ogni possibile prosecuzione dei processi di integrazione, ma finirà per creare i presupposti per l'esplosione di nazionalismi rovinosi, sulla spinta del risentimento. E' sostenibile una condizione in cui il PIL dei Paesi PIIGS, rispetto al PIL complessivo dell'area euro, passa dal 34,9% nel 2008 al 33,5% nel 2011, e scenderà ulteriormente, secondo le previsioni Eurostat, fino al 32,4% nel 2014? Tali differenze di benessere non faranno altro che alimentare rancori e nazionalismi. E saranno stati innescati dagli egoismi dei Paesi nordici, Germania in testa, che hanno scaricato a sud gli oneri della ristrutturazione dalla crisi dei debiti sovrani.
Non soltanto in termini politici, ma anche strettamente economici, l'area-euro che uscirà dalla crisi sarà strutturalmente più debole e più esposta ad attacchi speculativi o shock asimmetrici. Non a caso i modelli di area valutaria ottimale, persino quelli elaborati da economisti borghesi come Kenen e Mundell presuppongono, come postulato fondamentale per il funzionamento dell'area monetaria e per la sua resilienza di fronte ad attacchi speculativi, une elevato omogeneità nei parametri reali delle economie partecipanti all'area. In tali modelli, infatti, fra le condizioni di fondo di stabilità dell'area valutaria, si presume:
  • elevata omogeneità dei mercati del lavoro e dei capitali, per favorire la mobilità di tali fattori,
  • integrazione e centralizzazione delle politiche fiscali, al fine di rendere sostenibili le 'sacche di disoccupazione' che inevitabilmente si verificherebbero a seguito di oscillazioni nelle esportazioni combinate con una imperfetta mobilità del lavoro; in sostanza, trasferimenti, oppure crediti fiscali, dalle aree più "ricche" a favore di quelle più "povere"; ad esempio, Bayoumi e Masson (1995) hanno analizzato la politica fiscale federale negli USA e nel Canada (due unioni monetarie che funzionano da tempo, costante punto di riferimento negli studi sulle aree valutarie ottimali), rilevando che in entrambi i paesi sono previsti sia trasferimenti di lungo termine (erogazioni a favore delle regioni tradizionalmente più "povere") sia risposte di breve termine per gli shock asimmetrici; nell'area-euro esiste solo il primo tipo di trasferimento, attuato mediante le politiche di coesione ed i fondi strutturali, mentre non esiste il secondo tipo, che andrebbe realizzato tramite incentivi fiscali per le aree deboli, che invece la legislazione europea sugli aiuti di Stato alle imprese vieta (o perlomeno rende molto difficili, il punto è infatti controverso, e sembra che il muro ocmunitario contro incentivi fiscali localizzati territorialmente si stia lentamente sfaldando);
  • omogeneità nell'andamento del ciclo macroeconomico dei Paesi partecipanti (Mundell, 1961). Se, come avvenuto nell'area-euro, prendendo a riferimento le sue principali economie, fra 2007 e 2012 la Germania cresce, in termini reali, del 7,3%, la Francia del 2,7%, l'Italia invece subisce una decrescita di 5,1 punti, la Spagna è più o meno in stagnazione (-0,6%) è chiaro che gli enormi differenziali nazionali nel trend ciclico impediscono che si creino segnali univoci per stabilire la direzione (espansiva o restrittiva) della politica monetaria, che non può più essere utilizzata per fini anticiclici, ma nemmeno per il controllo di prezzi e tassi di interesse, atteso che qualunque decisione premierebbe una parte dei partecipanti dell'area, e penalizzerebbe un'altra parte. Inoltre, in presenza di imperfetta mobilità dei fattori, cicli macroeconomici divergenti creano bacini permanenti di sottocupazione nei paesi in recessione, non compensati dalla creazione di occupazione nei Paesi in crescita.
Un corollario della condizione di cui sopra è che, in presenza di barriere alla mobilità dei fattori, vi deve essere elevata omogeneità nel CLUP (rapporto fra costo e produttività del lavoro) fra i Paesi membri. Ciò infatti consente di omogeneizzare le condizioni di competitività, evitando di creare grossi squilibri fra le bilance commerciali, che si riflettono evidentemente in divergenti andamenti ciclici, con le conseguenze negative di cui sopra. Ora, se in Germania tale valore è, al terzo trimestre 2012, pari a 107,9 ed in Italia è di 114,7 (valore di riferimento media Ocse = 100 nel 2005), essenzialmente a causa di differenziali di produttività manifesti, ciò crea differenziali di competitività, che inevitabilmente si riflettono in differenziali sul ciclo macroeconomico dei due Paesi, ancora una volta con le controindicazioni di cui sopra.

Un modo di vedere il progressivo divergere fra ciclo economico italiano e tedesco è l'andamento degli indici di produzione industriale, che iniziano a differenziarsi, in peggio per il nostro Paese, dal 2004, come conseguenza dei divari di produttività (e dell'impossibilità per il nostro Paese, entrato nell'euro, di fare svalutazioni competitive)


Il problema è quindi chiaro: una Germania che, insieme ai suoi addentellati nordici (Olanda, Finlandia, ecc.) rafforza la sua egemonia economica sull'area-euro, scaricando sui PIIGS la ristrutturazione finanziaria e sociale derivante dalla crisi dei debiti sovrani, sta contemporaneamente indebolendo l'area-euro nel suo insieme, rendendola più vulnerabile a shock asimmetrici, che colpiscano solo alcuni Paesi e non altri (tipicamente quelli con i fondamentali macroeconomici reali più deboli). Se ad esempio l'Italia entra in una crisi derivante da un crollo delle sue esportazioni, magari addirittura favorendo il commercio estero tedesco, ecco che si genera immediatamente un differenziale nel ciclo macroeconomico fra tali Paesi, che neutralizza ogni possibile risposta di politica monetaria, o addirittura genera una politica monetaria restrittiva, che amplifica il differenziale, nel tentativo di difendere il tasso di cambio dell'euro dal declino dell'export extra-euro dell'Italia. La difficoltà di realizzare una politica monetaria in una direzione chiara, a causa di segnali macroeconomici discordanti fra i vari Paesi membri, fornisce incentivi immediati ad una ondata speculativa contro il tasso di cambio. Oppure, in assenza di una politica fiscale comune, la necessità per l'Italia di contrastare con ammortizzatori automatici di spesa e tassazione la sua recessione può fornire un segnale verso l'aumento dello spread dei titoli pubblici italiani contro quelli tedeschi, innescando una speculazione contro il debito sovrano italiano.

In sintesi

In sostanza, ogni azione che tende a creare, o a rafforzare, una situazione di vantaggio competitivo di uno o più membri dell'area valutaria sugli altri, in assenza di politiche fiscali unificate e quindi di meccanismi fiscali compensativi, non fa che indebolire inesorabilmente l'intera area valutaria di fronte ad attacchi esterni innescati da shock asimmetrici. Ad aggravare tale situazione, si vanno ad aggiungere anche fenomeni di indebolimento della coesione sociale interna, ed emergenti nazionalismi. Aver scaricato il peso della crisi sui PIIGS, preservando la propria domanda interna, da parte delle economie “egemoni”, Germania in primis, si rifletterà intevitabilmente su tutta l'area valutaria. D'altra parte, aver realizzato una ristrutturazione sociale in senso neoliberista nei Paesi PIIGS (molti dei quali sono mercati prioritari di esportazione per le economie nordiche “egemoni”) potrebbe contribuire ad indebolire la domanda interna di tali Paesi per tanti di quegli anni, anche quando tornasse la ripresa grazie alla revisione imminente dei trattati, che ciò si convertirebbe in una penalizzazione duratura sulla crescita delle stesse economie egemoni, in una sorta di gioco a somma negativa in cui perdono tutti. Va considerato infatti che, per le differenti propensioni marginali al consumo delle diverse classi di percettori di reddito, il peggioramento delle condizioni di equità distributiva indotto dalle riforme neoliberiste potrebbe impedire un incremento sostanziale della domanda per consumi, anche in presenza di una vivace crescita economica complessiva: se i frutti di tale crescita vanno sorpattutto ai più ricchi, che hanno una propensione marginale al consumo stutturalmente inferiore rispetto ai più poveri, potrebbe aversi la condizione di una crescita economica con una domanda che cresce di meno.
Un disastro, propiziato da una visione prettamente monetarista del concetto di area valutaria ottimale, propiziata da un approccio Bundesbank mirato a favorire di fatto gli investimenti sui mercati finanziari europei, che predilige l'omogeneità nei fondamentali finanziari ed inflazionistici, anziché in quelli reali. A differenza dei modelli di area valutaria ottimale di Mundell e Kenen sopra analizzati, che puntano l'attenzione sull'omogeneità delle economie reali, il trattato di Maastricht, base dell'attuale area-euro, punta tutta l'attenzione sull'omogeneità dei fattori finanziari e nominali, ovvero sui saldi di finanza pubblica dei Paesi membri e sui differenziali di inflazione e di costo del denaro. Tale approccio, scelto evidentemente per privilegiare e stabilizzare gli investimenti finanziari sui mercati europei (chi investe in attività finanziarie ha bisogno di un quadro di stabilità dei prezzi e dei tassi di interesse, quindi della neutralità dei bilanci pubblici, perché un quadro stabile riduce il rischio dell'investimento finanziario) si rifletterà disastrosamente su tutti, e rischia seriamente di minare alla radice la stessa coesione ed unità europea. Senza una politica fiscale comune e solidale, senza strumenti di omogeneizzazione e stabilizzazione degli shock asimmetrici, senza la ricostruzione di condizioni di crescita della domanda interna dei PIIGS, i risultati saranno pessimi per tutti, cara signora Merkel, cari burocrati ottusi della Bundesbank.

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