PRIMARIE: UNO SPETTACOLARE NULLA DI FATTO
di
Norberto Fragiacomo
Qualche sera fa, su Facebook, lo scrivente ha
provocatoriamente paragonato le primarie del PD (pardon, “di coalizione”) al calcio d’agosto.
D’accordo, la similitudine ha poco di
manzoniano: immaginare Bersani, Renzi e compagnia che, palla al piede, si
sfidano in maglietta e mutandoni suscita il riso. Il senso, però, è
sufficientemente chiaro: al pari delle amichevoli estive – che servono a
provare gli schemi, galvanizzare i tifosi e riempire i giornali – la
competizione di fine autunno non “fa classifica”, è spettacolo puro, fine a se
stesso.
Una prima prova di quanto detto la forniscono
le dichiarazioni del dopopartita: se il segretario commenta soddisfatto l’exploit, anche i renziani cantano
vittoria (Matteo no, questo gli va riconosciuto); nel frattempo dalla panchina
di SeL si levano grida di giubilo, e perfino il n.e. (non entrato) Tabacci
rivendica un ruolo da protagonista. La stampa non fa quasi distinzioni, e
incensa tutti: calcio d’agosto, appunto – stagione in cui, mancando l’assillo
dei tre punti, anche una sconfitta netta può essere spacciata per un successo o
un “punto di partenza”, se gli spettatori hanno applaudito singole prodezze.
Ora, non è nostra intenzione ribadire l’ovvio –
che l’unico premio per il vincitore delle primarie è la sicura partecipazione alle elezioni vere – né,
tantomeno, schernire i votanti: le persone in fila ai seggi esprimevano quasi
tutte una decisa volontà di cambiamento (rispetto alla Giunta Monti), e meritano
perciò rispetto. Non c’è dubbio che l’elettorato di centro-sinistra sia
mediamente più informato, generoso e serio (in una parola: migliore) di quello
berlusconiano o leghista; il problema, però, è che il livello di consapevolezza
della situazione attuale lascia alquanto a desiderare.
Sebbene vengano percepite la gravità della
crisi e l’iniquità delle scelte fin qui adottate, si continua a ritenere,
contro ogni evidenza, che un’ipotetica affermazione elettorale del
centrosinistra possa mutare radicalmente la sostanza delle cose. Un credo quia absurdum, insomma, che in
parte è figlio di un disperato bisogno di illudersi, in parte (in gran parte) è il prodotto di un
colossale raggiro.
La questione è semplice: il c.d.
“centrosinistra”, al quale tanti italiani affidano le proprie speranze di
salvezza, ha subito, oltre vent’anni fa [1], una
mutazione genetica, riciclandosi come “centro liberale”: la definizione è di
Marco Ferrando che, ben prima dell’inizio
della crisi, descriveva (2003!) lo schieramento antiberlusconiano come “l’area di rappresentanza in questo Paese
degli interessi del grande capitale”, cui imputare “l’infinita sequenza di
privatizzazioni, flessibilizzazioni, rottamazioni (delle auto, non di politici
usati ndr), regalie fiscali alle imprese vecchie e nuove”.
I fatti davano ragione, già allora, al barbuto
leader trotskista. Citeremo un esempio locale, sconosciuto ai più e – proprio
perché “piccolo” – indicativo di una tendenza. Nel lontano 2002, la Giunta
regionale del Friuli Venezia Giulia (presieduta, al pari di oggi, dal
berlusconiano Renzo Tondo [2])
approvava il testo di quella che sarebbe diventata la legge 2, contenente la
“disciplina organica del turismo”.
Leggiamo insieme alcuni passaggi della
relazione di minoranza, assai critica, scritta all’epoca dal consigliere Enrico
Gherghetta (DS):
"la norma
nazionale è una riforma che liberalizza il settore, lo fa crescere e interviene sui fattori di competitività
e di compatibilità ambientale e sociale. Si potrebbe dire: di turismo moderno e
consapevole. La norma regionale è
invece tutto tranne una riforma, in quanto prosegue
su una strada centralista e assistenziale che non corrisponde alle necessità
del mercato e dell’economia, e ancor meno si pone l’obiettivo di realizzare
una svolta di qualità. (…) Sono tra quelli che in sostanza amano ripetere con
una battuta che “l’economia va nonostante
la Regione”. (…) Il tipo di intervento è quello classico del pubblico che
interviene in economia per creare le condizioni di un volano allo sviluppo. La logica è un po’ quella del
dopoguerra, fortemente Keynesiana, ed
è ovviamente portatrice di una logica
assistenziale, che però con il
tempo, sempre per lo stesso principio, dovrebbe
lasciare il posto ad una crescente impostazione imprenditoriale. (…) La soluzione è meno ingerenza e più
accompagnamento, meno Regione e più impresa (in grassetto nel testo; due
pagine dopo si ribadisce il concetto, con un imperioso “sempre più impresa”)."
Ora, queste parole si commentano da sole, e
potremmo riassumerle nel ritornello – sentito infinite volte – “privato è bello, pubblico è brutto”. Da
chi professa idee siffatte è lecito attendersi, al massimo, una rivoluzione
conservatrice (non si affatichino: è già in atto). La successiva nascita del
Partito Democratico ha semmai peggiorato le cose, e l’irrompere della crisi
nelle nostre esistenze (ma non in
quelle di chi vive agiatamente di politica) non ha provocato, ai piani alti,
alcuna crisi di coscienza, alcun mea
culpa – per non parlare di cambi di rotta. Si sono uditi, è vero, balbettii
vagamente imbarazzati (dai vari Bersani, Fassina ecc.), e qualche promessa da
marinaio, ma la realtà è sotto gli occhi di tutti: il PD ha sottoscritto in
massa le decisioni ideologiche di Monti su pensioni, lavoro, pareggio di
bilancio, tagli ai servizi ecc., dopo averne imbellettato qualche comma; non
paghi, i suoi vertici hanno fatto professione di rigorismo (cioè di montismo)
nella c.d. Carta di intenti, assicurando che gli ordini verranno eseguiti;
infine, per quanto riguarda la comunicazione, si sono specializzati nel gioco
delle tre carte, sproloquiando di “eccessi” del neoliberismo da correggere, ma
guardandosi bene dall’ammettere che eccessi, diseguaglianza e sfruttamento sono
i dati anagrafici (e non segni particolari!) del capitalismo trionfante.
In verità, il derby Bersani-Renzi è stato uno
spettacolarizzato (dai media) nulla
di fatto, ossia, per essere chiari, una partita assolutamente ininfluente. Nessuno intende negare che il sindaco di
Firenze sia più spregiudicato e “duttile” (è passato dai Te Deum a Mario Monti
e Marchionne ad una timida critica a quest’ultimo, provando addirittura, ormai
vicino al capolinea, ad imparare a memoria qualche frasetta “di sinistra”[3]), mentre
il candidato premier resta, come forma
mentis, un uomo di apparato – si tratta, però, di particolari di scarso
rilievo, come il gusto nella scelta delle cravatte, la predilezione per le
maniche lunghe o rimboccate ecc. Per quanto esteriormente
diversi, i due principali concorrenti condividono la stessa fede politica
liberista, e si comporteranno di conseguenza: è praticamente sicuro (ed è
ammesso dall’entourage del segretario) che, se riuscisse a farsi eleggere a
Palazzo Chigi, Pierluigi Bersani avallerebbe la candidatura del professor Monti
alla Presidenza della Repubblica, con ciò garantendo all’Unione e ai mercati la
prosecuzione delle politiche di smantellamento di welfare ed aziende pubbliche.
Perciò, nella “migliore delle ipotesi” (quella
che loro si augurano), i tre milioni e rotti delle primarie si troveranno ad
affrontare, nel prosieguo della storia, i tagli ventennali del fiscal compact, la precarizzazione a
tempo indeterminato del lavoro, le sforbiciate alle pensioni, la notte dei diritti. Verosimilmente (e
questa sarebbe una buona notizia, almeno per i diretti interessati, vittime di
un’autentica truffa commessa dallo Stato) un Governo Bersani non potrebbe
esimersi dal risolvere, in qualche modo, il problema degli esodati, ma
risulterebbe impotente/connivente su un fronte ben più vasto: quello della privatizzazione della sanità pubblica.
Com’è sua abitudine, Monti ha gettato con
nonchalance, giorni addietro, un primo sasso dello stagno; poi, viste le
reazioni negative, ha fatto un passettino di lato, ma il 4 dicembre è tornato
all’attacco… indovinate dove? Semplice, a casa del suo mentore, al Quirinale.
Una lezione in pessimo italiano, roba da esame a ottobre, e tuttavia
comprensibilissima: “la nostra sanità pubblica ha dato un contributo
determinante al conseguimento di questo grande successo (il fatto che si
invecchi stando in salute più a lungo ndr). Ora, anche in virtù del proprio
stesso successo, essa è chiamata a
ripensarsi in vista di una rimodulazione fatta di innovazioni e adattamenti di
cui dobbiamo avere consapevolezza. Dobbiamo insomma imparare a gestire il
divenire del processo demografico in modo più esigente.” Tradotto dal
bocconese: bisogna aprire ai privati, perché si spartiscano le spoglie della
sanità pubblica (che pure, rispetto ad altri Paesi europei, costa relativamente
poco).
Subito l’ex migliorista del Colle ha dato
manforte al suo pupillo, ripescando le solite filastrocche sulla “grande sfida
di solidarietà”, il “patto fra le generazioni” e l’immancabile “modello di
sviluppo sostenibile per la costruzione di una società più giusta (!)”: in
sintesi, l’abituale musica da disco rotto, che ha riscosso il plauso di un Gad
Lerner [4] sempre
meno critico nei confronti del duo (si invitano i lettori a confrontare gli
ospiti de L’infedele autunno-inverno con gli invitati di un anno fa).
Una cosa l’abbiamo appresa, in questi 13 mesi:
a differenza del funambolo Berlusconi, Mario
Monti non parla mai a vanvera. Questo implica che, nei prossimi mesi, dopo
quelli inflitti alle pensioni, al diritto del lavoro, agli enti locali ecc.
sarà inferto un colpo mortale anche alla sanità ed all’assistenza pubbliche,
già oggi boccheggianti per mancanza di risorse – quanto alle perplessità inscenate da Bersani, al governo o
all’opposizione, vedrete bene che saranno fugate, se del caso, a colpi di
spread [5].
A questo punto immagino che la morale sarà
chiara: malgrado la passione degli iscritti e l’animosità dei contendenti (che,
come può avvenire in qualsivoglia organizzazione - partitica, imprenditoriale o
mafiosa - cullavano il desiderio di farsi le scarpe a vicenda, per interessi personali non incompatibili
con quelli generali del gruppo) le primarie sono state un match di
esibizione, e nulla più [6].
Avere Monti alla Presidenza della Repubblica o
del Consiglio è perfettamente identico; del pari, risulta già scritto il copione
per le spalle di “centrosinistra”, quali che siano l’età e il colore di giacca
e cravatta. Sulla vanteria vendoliana di poter influenzare questo o quello
stendiamo, invece, un velo pietoso: chi monta, nel rispetto delle regole, su un
aereo di linea diretto a Bruxelles (o a Washington) non ha alcuna chance di modificarne il percorso,
specie se l’aviogetto è opportunamente affiancato da due F 35 con compiti “di
scorta”.
[1] Il muro di Berlino è caduto nel 1989: quindi, ad
essere precisi, gli anni sono 23.
[2] Che, sia ben chiaro, non ci sogniamo lontanamente di
difendere: di lui abbiamo apprezzato solo la gestione (ricca di tatto e
umanamente apprezzabile) della disgraziata vicenda di Eluana Englaro.
[3] Guadagnandosi il fulminante commento di un utente di
Twitter: “finalmente Renzi ha fatto qualcosa di sinistra: ha perso.”
[5] Sarà sufficiente una fiammata, visto che sono già
convinti, in cuor loro, che il mercato ha sempre ragione.
[6] Questo non significa, però, che siano state inutili a
chi le ha organizzate (il PD ha guadagnato in visibilità, oltre a qualche punto
virtuale nei sondaggi). Lo spettacolo ha accontentato pure i tecnici: un
pubblico pagante (2€ o anche più, a piacere) distratto e euforico non sta
troppo a domandarsi cosa succede dietro le quinte.
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