di Riccardo Achilli
Come ho già scritto in precedenza
(cfr. Il progetto europeo pericolante) la via di uscita (si fa per dire) alla crisi dei debiti suggerita da un
impasto di liberismo e nazionalismo economico dei Paesi egemoni ha creato le
condizioni affinché l’unione monetaria europea venga strutturalmente indebolita
e resa più vulnerabile, anche quando la crisi sarà passata. Il non aver voluto
adottare i criteri delle aree valutarie ottimali, che fondamentalmente
richiedono condizioni di omogeneità/coordinamento delle economie reali e delle
politiche fiscali, in nome di una omogeneità concentrata esclusivamente sui
parametri inflazionistici e finanziari, come previsto dall’accordo di
Maastricht, ha creato le premesse per la situazione esplosiva che viviamo oggi.
Il nazionalismo delle economie forti (Germania in testa) che ha scaricato sui
PIIGS tutto il peso del riaggiustamento fiscale imposto dalla speculazione sui
debiti sovrani ha fatto il resto.
Il riaggiustamento fiscale è
stato anche l’occasione per imporre un processo di ristrutturazione sociale dei
mercati del lavoro e dei sistemi di welfare dei Paesi PIIGS, inappropriato e
controproducente rispetto all’obiettivo di ridurre rapidamente il rapporto fra
debito pubblico e PIL (atteso che i saldi di finanza pubblica sono endogeni al
ciclo, e naturalmente il processo di ristrutturazione sociale, o di massacro
sociale per essere più appropriati, ha effetti depressivi sul ciclo stesso) ma
appropriato per creare quelle condizioni strutturali, cioè di medio e lungo
termine, attraverso le quali far ripartire il saggio di profitto (sia
attraverso un maggior sfruttamento del lavoro, reso possibile dalla
riforma-Fornero, sia attraverso nuove opportunità di business, attraverso
annunci, mai realmente smentiti, di parziale privatizzazione di importanti
comparti del welfare pubblico) e, soprattutto, attraverso le quali far
ripartire l’investimento finanziario, rassicurando gli operatori circa la
sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico dei PIIGS, di fatto abbattendo
l’incidenza sul trend del debito della spesa pubblica previdenziale e sociale
(cioè, riducendo il cosiddetto “debito implicito”).
Tale processo è però denso di
contraddizioni esplosive che rischiano di farlo fallire, azzerando i risultati
attesi dai “ristrutturatori”. Tale processo infatti non incide sul debito
implicito delle economie egemoni (Germania e Francia) proprio perché il peso
della crisi è stato scaricato sui PIIGS, ma ciò ovviamente significa che il
problema dell’aggregato di debito dell’intera area euro è stato risolto solo in
parte, poiché, ovviamente, le economie egemoni sono anche quelle che hanno la
maggiore incidenza del loro debito nazionale sul debito europeo totale. E
peraltro la Germania, in primis, utilizza alcuni artifici contabili (ovviamente
resi legittimi dalle regole di calcolo del debito di Maastricht) per celare una
parte importante del suo debito pubblico. Poi vi sono le contraddizioni già
analizzate nel mio articolo precedente (potenziale riduzione della coesione politica
europea derivante dall’allargamento della forbice del benessere fra Nord e Sud
dell’area, entrata in stagnazione del ciclo economico delle stesse economie
egemoni, per distruzione dei loro mercati di esportazione mediterranei, aumento
delle disparità nei fondamentali macroeconomici reali fra le diverse economie
nazionali, che rende sempre più difficile gestire in forma univoca gli
strumenti di politica monetaria, anche a fronte di possibili attacchi
speculativi futuri sul tasso di cambio dell’euro).
L’unica possibilità di uscita da
queste contraddizioni è costituita da due componenti: in primis, dalla riattivazione
della crescita economica, in modo da avere le risorse aggiuntive per gestire
una situazione debitoria che, a livello aggregato europeo, ma anche a livello
dei singoli Paesi PIIGS, continua ad essere critica, ed in secondo luogo dalla
preparazione di strumenti di politica economica in grado di garantire qualche
forma di maggiore omogeneizzazione dei cicli economici reali delle singole
economie, e di maggiore coordinamento delle politiche fiscali, cercando cioè di
correggere le maggiori distorsioni del concetto monetarista dell’area valutaria
comune introdotto dal trattato di Maastricht.
Mentre è oramai probabile che i
trattati europei, ed il fiscal compact in particolare, verranno rinegoziati nel
giro di un anno al fine di riattivare, seppur in modo prudente, la crescita
economica, la strategia europea complessiva per tentare di riattivare le
crescita e garantire maggiore omogeneità e coordinamento (cioè per rispondere
alle due condizioni sopra richiamate necessarie per salvare l’euro dalle sue
contraddizioni) è contenuta in un documento appena proposto dalla Commissione,
chiamato “Blueprint for a deep and genuine economic and monetary union”. Tale
documento prevede una strategia di corto, medio e lungo termine. Le misure per
la crescita ed il coordinamento da attivare entro i prossimi 6-18 mesi
prevedono la creazione di uno strumento finanziario destinato a supportare il
ribilanciamento ed il riaggiustamento del ciclo delle economie nazionali
partecipanti alla UE, sanando quello che è uno dei maggiori limiti di tale area
valutaria, ovvero l’assenza di un sistema di controbilanciamento di shock
asimmetrici che dovessero colpire soltanto alcune e non tutte le economie
partecipanti, in vista della creazione di un sistema che garantisca una
migliore convergenza dei cicli economici nazionali.
Nel medio termine (18 mesi-5
anni) si prevede la creazione di una politica fiscale comune, con la
possibilità di imporre modifiche vincolanti alle manovre finanziarie nazionali
non allineate agli obiettivi comunitari, un coordinamento delle politiche
fiscali e del lavoro, la creazione di una capacità fiscale autonoma dell’Unione
Europea per condurre le sue proprie politiche, superando in parte il
finanziamento del bilancio comunitario ad opera dei bilanci dei singoli Stati
membri che vige oggi. Si prevedono forme molto timide di mutualizzazione del
debito pubblico europeo, alternativamente tramite lo strumento del redemption
fund (essenzialmente un fondo che acquista i debiti pubblici nazionali che
eccedono la soglia del 60% del PIL, finanziandosi con l’emissione di titoli
garantiti da tutti i Paesi Ue, e nei confronti del quale i Paesi che hanno
versato il loro extra debito rimangono responsabili del pagamento a scadenza
della quota capitale ed interessi dei titoli pubblici dell’extradebito stesso)
oppure tramite gli euro-bill (titoli a breve scadenza, non superiore ai 2 anni,
emessi dalla Ue in sostituzione dei singoli Stati membri, e garantiti dalla
Germania, una forma di mutualizzazione del debito pubblico nazionale limitata
al solo debito a breve scadenza).
Nel lungo termine (oltre i 5
anni) si prevede una completa unificazione fiscale, monetaria e della gestione
debitoria, con un parallelo processo politico di unificazione istituzionale,
con accresciuti livelli di democraticità, rappresentatività e accountability
delle istituzioni comunitarie.
Purtroppo, il disegno in
questione (che rappresenta solo una proposta, che deve essere approvata, ma
soprattutto implementata, dal Consiglio Europeo) è al contempo troppo ambizioso
e troppo rinunciatario. In altri termini, è velleitario. E’ troppo ambizioso perché recupera
quell’idea, politica prima ancora che economica, di Stati Uniti di Europa, che
è stata propria dei suoi padri fondatori, e che però se non si è mai
realizzata, soccombendo a nazionalismi e rendite di posizione. Poiché per
l’unificazione politica ed economica la Commissione, nel suo documento, prevede
un orizzonte superiore ai 5 anni, cioè un orizzonte entro il quale i meccanismi
di crescita si saranno prevedibilmente riattivati, non si capisce perché,
superata l’angoscia della crisi, quegli stessi nazionalismi e quelle stesse
rendite di posizione dovrebbero farsi da parte, quando non lo hanno fatto negli
ultimi 60 anni. Finita l’emergenza della crisi, se finirà, non basterà il
richiamo secondo cui ciò che è successo potrà succedere di nuovo, se l’area
euro non si dota delle caratteristiche di area valutaria ottimale e solidale.
Perché la memoria delle tragedie di questa crisi sarà rapidamente perduta in
una nuova orgia di crescita, consegnata a sbiaditi libri di storia, ed ognuno
tornerà a coltivare il proprio orticello nazionale, cercando, come sempre, di
massimizzare a suo vantaggio, ed a svantaggio del vicino, i frutti della
ritrovata crescita. Se invece la crisi non sarà stata superata entro i prossimi
5 anni…beh…avremo altro a cui pensare di più urgente rispetto ai problemi di
integrazione europea. La verità è che i processi di integrazione politica non
dipendono dalla spinta dell’economia, ma da fattori culturali, storici,
etnografici, sociali e relazionali,
persino attinenti alla psicologia di massa dei popoli e dei loro simboli aggregativi.
Quindi tali processi camminano da soli, oppure non camminano. Se si cerca di
farli camminare con la forza, con un disegno burocratico calato dall’alto, non
attecchiscono nel profondo, ed esplodono, spesso in modo sanguinoso.
Non sono le Blueprints della
Commissione a poter creare i presupposti per l’integrazione. E’ la scuola, che
deve avere un approccio profondamente europeistico e multiculturale sin dalle
prime classi, è la politica dei singoli Stati, che deve dare maggiore esempio
di europeismo agli elettori, anziché rifugiarsi in comodi richiami alla Terra
ed al Sangue ogni volta che c’è da negoziare a livello comunitario foss’anche
la più futile delle questioni, che so, la proposta di regolamento europeo che
stabilisce quanta percentuale minima di burro di cacao debba esserci dentro il
cioccolato prodotto in Europa, o stronzate simili. E’ il mercato del lavoro che
deve essere più aperto, eliminando i residui di regolamentazioni nazionali ed
incentivando maggiormente i lavoratori a girare per l’Europa, foss’anche per
brevi periodi.
Oltre che essere esageratamente
ambizioso, questo documento della Commissione riesce anche nella mirabile
impresa di risultare timido. Non una parola, tranne una chiacchiera generica
sul concetto di “economia sociale di mercato” (che ovviamente implica l’accettazione
dei meccanismi di mercato, “emendata” da qualche mancetta caritatevole,
assolutamente inadeguata per correggere le distorsioni del mercato e per
affrontare il grave impoverimento in atto di ampi strati della società) e
sull’ovvietà che le politiche sociali andrebbero coordinate e rafforzate anche
tramite il FSE (ma senza dire come) sulla progressiva realizzazione di un
welfare europeo, che potrebbe essere generosissimo, poiché basato sul debito
pubblico europeo, e non su quello dei singoli Stati. Con la risultante pazzesca
che non si ammette che le regole sulla vigilanza bancaria, ad esempio, possano
essere diverse da Stato a Stato, ma si ammette che la tutela dei lavoratori,
dei malati, degli anziani possa essere diversa da Stato a Stato. E poi si
pretende di creare una unificazione politica!!! Basata sulle ingiustizie!!! Non
si punta con decisione agli eurobond, cercando compromessi di basso livello
(eurobill per mutualizzare soltanto il debito pubblico a breve, che rappresenta
meno dell’11% del debito pubblico totale dell’area euro, redemption fund, che
lascia assolutamente immutati gli obblighi di pagamento dell’extra debito da
parte degli Stati membri, confidando soltanto in un eventuale calo dei rendimenti
dovuto alla garanzia tedesca, che non si sa quanto possa essere solida, alla
prova dei mercati). Non si fissa un valore minimale di dotazione finanziaria
dello strumento finanziario per il controbilanciamento degli shock asimmetrici.
Un documento al contempo
velleitario e rinunciatario ha un solo, reale obiettivo: dare fondamento a
qualche limitata azione, di piccolo cabotaggio: per l’appunto, gli euro-bills
piuttosto che il redemption fund, qualche contrattino stipulabile fra Stato
nazionale e Commissione per avere qualche soldarello in caso di crisi
asimmetrica, un maggiore controllo
comunitario sulle manovre finanziarie degli Stati membri che, in assenza di una
maggiore democrazia politica nell’agire degli organi europei (poiché come detto
tale obiettivo è velleitario) si traduce soltanto in un controllo burocratico
ed antidemocratico sulle decisioni di Governi e Parlamenti nazionali.
Serve maggior coraggio. Serve l’immediata
e completa mutualizzazione del debito nazionale, serve un ridisegno completo
delle strategie di politica economica, che sia basato su crescita, ma anche
redistribuzione della ricchezza, altrimenti la crescita da sola non serve. Serve
una politica industriale di scala europea che preservi, rafforzandoli, i
campioni industriali, anche tramite la creazione di imprese di proprietà multigovernativa
nei settori strategici. Serve una politica di sostegno alla domanda, che allarghi
lo spazio del welfare pubblico, identificando dei criteri di tutela minimi che
ogni Stato deve assicurare, iniziando dal reddito minimo garantito pari ad
almeno il 60% del reddito mediano. Occorre costruire un mercato del lavoro
europeo basato sui diritti e sulle opportunità, che da un lato uniformizzi il
costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) tramite un parametro omogeneo di variazione
delle retribuzioni in base alla produttività, e d’altro lato determini un “core”
comune di diritti sindacali e del lavoro da garantire in ogni Stato membro, più
ampio di quello attualmente identificato dalla Ue (davvero striminzito, tale
cioè da consentire una ampia riduzione dei diritti del lavoro preesistenti),
nonché meccanismi incentivanti la cogestione e la compartecipazione dei
lavoratori alle decisioni aziendali, servono meccanismi fiscali e di
trasferimenti pubblici in grado di controbilanciare shock macroeconomici asimmetrici
su singoli Stati, serve un rafforzamento, finanziario ma anche di miglioramento
dei meccanismi di programmazione e governance, dei fondi strutturali, per
ridurre le sacche di disoccupazione e ritardo di sviluppo esistenti nei
Mezzogiorni d’Europa (segnalo che nel documento economico Achilli/Gatti della Lega
ei Socialisti si fanno numerose proposte per rendere più snella e flessibile la
programmazione dei fondi strutturali, e per ridefinire in modo statisticamente
più rigoroso le regioni europee a ritardo di sviluppo; per informazioni e per
visionare il documento si può scrivere a r.achilli@libero.it oppure a
renatocostanzogatti@gmail.com). Servono infine regole automatiche che
impongano, agli Stati membri in condizioni di avanzo strutturale delle partite
correnti, l’attivazione di politiche a sostegno della domanda per consumi, in
modo da migliorare il saldo delle partite correnti dei Paesi deficitari tramite
l’aumento dell’export negli Stati membri eccedentari.
Serve una ridefinizione oggi, non
domani, dell’assetto istituzionale europeo, in modo da renderlo più democratico,
più partecipativo, de-burocratizzandolo, e togliendo alla Commissione gran
parte dei poteri di iniziativa, per attribuirli al Parlamento Europeo. Così come
il Consiglio Europeo va sostituito con un organo di garanzia super partes
eletto dal Parlamento. Serve poi una definizione di tipo ocnfederativo a maglie
larghe delle autonomie che rimarranno in capo ai singoli Stati membri. E tale
ridefinizione serve oggi, non va posposta a quando saranno stati omogeneizzati
i meccanismi di gestione dell’economia e delle politiche sociali e del lavoro. Perché
la costruzione politica e democratica deve precedere la costruzione economica,
altrimenti il rischio è quello di rimanere dentro un assetto euro-burocratico,
in cui le decisioni vengono assunte da ristrette oligarchie tecnocratiche,
autoreferenziali rispetto alla volontà popolare. Come avviene oggi. Le Blueprint
della Commissione esaminate sopra, questo documento inutile e velleitario, sono
esattamente il prodotto di un’Europa burocratica ed oligarchica.
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