di Lorenzo Mortara
Rsu Fiom Rete28Aprile
Pubblichiamo la seconda parte (delle cinque previste) degli Appunti su Sabattini. Qua per comodità del lettore, segnaliamo a mo' di indice le cinque parti con il relativo link di quelle già pubblicate:
5) Conclusioni
LA FLM E I CONSIGLI DI FABBRICA
È
con il secondo scritto che la statura di Sabattini emerge in tutta la
sua grandezza. Siamo nel 1998, due anni dopo il XXI Congresso Fiom,
Claudio si trova a Brescia per un convegno sulla figura di Gastone
Sclavi. È qui che ha modo di ricordare l’esperienza memorabile dei
consigli di fabbrica, della FLM (Federazione
Lavoratori metalmeccanici)
che per oltre un decennio sostituì Fiom-Fim-Uilm, fondendole in
un’unica sigla. Ed è nelle prime quattro righe che il lettore che
sta ora scrivendo si è immediatamente riconciliato col sindacalista,
fugando i dubbi sulla sua persona avuti durante la lettura del primo
testo. Claudio infatti dice senza ambiguità che l’esperienza dei
consigli di fabbrica non fu «esaurita,
bensì stroncata alla fine di quel decennio con la vicenda dell’EUR
e con le sue inevitabili conseguenze».
Ancora oggi c’è chi prova ad arrampicarsi sui vetri cercando di
trovare qualcosa da difendere in quella scelta indifendibile.
L’abbiamo visto recentemente nella polemica intercorsa tra Eugenio
Scalfari e Susanna Camusso. Il primo, a cui si deve la memorabile
intervista con cui Luciano Lama annunciava la politica dei sacrifici
decisa all’Eur, la riprendeva per bacchettare la Camusso rea di non
allinearsi come il suo predecessore all’interesse generale. Quanti
pezzi di apparato sono subito accorsi in aiuto di “capelli corti
Generale Luciano Lama”, difendendo la sua intervista dalla
strumentalizzazione di Scalfari, come se Scalfari non avesse in
realtà strumentalizzato la Camusso, descrivendola come alternativa e
addirittura opposta a Luciano Lama. Ma la verità è che non c’è
soluzione di continuità tra il Lama di ieri e la Camusso di oggi,
fanno entrambi parte della stessa storia, la storia che va dalla
stroncatura dei consigli di fabbrica fino allo smantellamento del
Contratto Nazionale
passando attraverso tutte le capitolazioni senza colpo ferire che una
burocrazia sorda e senz’anima e senza dignità ha offerto
all’altare patrio dei padroni per il suo quieto vivere. Se la
Camusso è parsa recalcitrare più di Lama nel sacrificio dei
lavoratori, è perché a furia di svendere le loro conquiste, dal
1978 a oggi, si fa molto più fatica a fargli ingoiare i rospi, e
soprattutto è sempre più difficile trovare qualche altro diritto
ancora da svendere.
La stroncatura dei Consigli
avvenne ad opera della burocrazia sindacale della Cgil, e quindi del
Partito Comunista italiano, ovvero dell’accoppiata Lama-Berlinguer,
due burocrati per un solo storico compromesso, dopo un intero
decennio di tentativi di sabotaggi e contenimento. Qui la
storiografia non aiuta, perché anche gli storici più preparati
sacrificarono il loro talento per la causa dei burocrati di partito,
addomesticando la loro documentazione con giudizi al limite del
ridicolo. È quello che accade ad esempio a Paolo Spriano quando fa
il parallelo fra i Consigli di Gramsci del 1919-20 e quelli del
1968-69, nel libro «L’ordine
nuovo» e i consigli di fabbrica (Einaudi,
1971). Spriano
straripa di ottimismo quando descrive le differenze tra i due bienni
rossi. Secondo lui la differenza principale sta nel fatto che mentre
nel primo biennio la burocrazia sindacale non accettò i Consigli,
nel secondo furono le stesse direzioni sindacali a farsi
«sostenitrici e promotrici del rinnovamento dell’organizzazione e
della rappresentanza operaia in fabbrica attraverso il sistema dei
Consigli». Claudio Sabattini, per fortuna, la vede all’opposto.
Ricorda che la Cgil pur sancendoli già nel 1970 come struttura base
del sindacato, non dette alcun vero potere ai Consigli che «non
ebbero alcuna influenza rispetto alle strategie essenziali che […]
elaborò successivamente». E non glielo dette perché «il sindacato
nel suo complesso rimase quello che era, soprattutto nei suoi vertici
confederali che non mutarono per nulla di fronte all’esplosione del
’68-’69». Se la burocrazia si fosse fatta davvero promotrice dei
Consigli, non avremmo avuto dopo dieci anni della sua promozione, la
bocciatura senza appello e definitiva venuta dagli stessi professori
che in teoria avrebbero dovuto sostenerli. Spriano vede un progresso
semplicemente perché crede basti chiamare la rappresentanza
Consiglio di Fabbrica
perché lo sia davvero. Di conseguenza non si accorge che i Consigli
di fabbrica di Gramsci divergono dalla FLM come la rivoluzione
diverge dalla riforma. La burocrazia sindacale non accettò tanto i
Consigli, quanto la carica controrivoluzionaria con cui riuscì ad
addomesticarli. Infatti, nati dall’esplosione spontanea del ‘68,
i “nuovi” Consigli, videro subito ridotte le loro funzioni
dall’intromissione nelle loro faccende delle burocrazie sindacali.
L’apparato della Cgil manomise immediatamente il delegato
di reparto,
delimitando rigorosamente i suoi compiti. In pratica da un delegato
di reparto che si occupa un po’ di tutto e rappresenta il potere
operaio in fabbrica in alternativa a quello del capitalista, si passa
a un delegato di reparto che si occupa grosso modo solo di cottimo e
nocività, e rappresenta più che altro la regolazione del potere
padronale che non mette in discussione più di tanto. In questo modo
i Consigli persero il loro embrionale carattere politico, per
rientrare pian piano in una dimensione puramente economica. Non solo,
se all’inizio del ’68, i Consigli esplosero con tutta la loro
carica rivoluzionaria solo in alcune fabbriche, anche se tra queste
le più importanti, la Cgil decise di estenderli dappertutto solo a
patto di impedirne il loro collegamento. I Consigli, grazie
“all’accettazione” delle burocrazie sindacali, crebbero di pari
passo con il loro isolamento gli uni dagli altri. In breve, si estese
il loro carattere riformista importato dall’esterno, a scapito del
lato radicale inculcato spontaneamente dall’interno. Perciò, a
grandi linee, si può dire che quelli del 1919-’20 erano i Consigli
di Gramsci, i soviet della rivoluzione italiana; quelli degli anni
settanta, anche se presero in prestito la dizione dal primo biennio
rosso, restarono pur sempre i Consigli dei nipotini di Buozzi, i
consigli di una burocrazia che fa l’impossibile per dividerli e non
sfruttare tutto il loro potenziale. Se a differenza del primo Buozzi,
i suoi nipotini furono costretti ad accettare i Consigli, lo fecero
perché capirono che solo così avrebbero potuto, dieci anni dopo,
farli fallire più o meno come riuscì a fare subito il loro odioso
zio del 1919-20.
Rispetto alle Commissioni
Interne, i “nuovi”
Consigli rappresentano un enorme passo avanti che contribuisce molto
alle conquiste del decennio, ma rispetto ai “vecchi” Consigli e a
quelli nati spontaneamente subito all’inizio del ’68,
rappresentano un passo indietro. Se non interviene qualcosa che
riporti in avanti tutto il processo, sono destinati al fallimento
perché contengono già al loro interno il germe della sconfitta.
Questo germe è il cappello della moderazione messo da una
maggioranza burocratica sulla spontaneità di una minoranza radicale
che ha dato il via all’intero rinnovamento. La minoranza deve
diventare maggioranza se non vuole vedere il suo lavoro soffocato
dalla istanze burocratiche della maggioranza. Purtroppo, nel decennio
che va dal ’68 alla svolta dell’Eur del ’78, la minoranza resta
tale, anche per il passaggio nei ranghi delle moderazione dei due
principali esponenti, Trentin e Carniti, di quella che fino allora
era l’ala sinistra di Cgil e Cisl. È soprattutto per questo che
l’analisi di Sabattini resta valida, perché evidentemente lui è
restato sempre all’interno di questa minoranza e non è mai passato
dall’altra parte, perdendo di credibilità come gli altri due. È
quello che ci fa capire lui stesso quando dice di essere «diventato
segretario generale della Fiom per caso», in un momento di crisi
particolare del sindacato, perché altrimenti in un altro momento,
più normale, la maggioranza burocratica non l’avrebbe mai
permesso.
Oltre alla capitolazione a Lama
di Trentin, pesarono forse, nell’incapacità della minoranza di
conquistare la testa del sindacato, i limiti dell’impostazione di
Sabattini e dei compagni che come lui la formarono. Abbiamo visto i
primi nella questione legata all’indipendenza sindacale. Ne vediamo
altri nella conclusione della sua relazione sui consigli. Il decennio
che va dal 1968 al ’78, deve le sue principali conquiste alla lotta
unitaria dal basso per l’egualitarismo. Il contromovimento che
comincia grosso modo con la svolta dell’Eur e dura ancora oggi,
riesce al contrario per l’imposizione dall’alto della
concertazione senza combattere. Sabattini, come un leone sfinito da
anni di militanza e battaglie, sembra arrendersi a questo fatto. Non
propone infatti una vera e propria strategia per il ripristino della
FLM che riporti in vita i Consigli di Fabbrica, e li superi magari
spingendo la FLM riformista fino ai consigli rivoluzionari di
Gramsci, unica strada reale, perché in direzione ostinata e
contraria, per battere la concertazione, ma si limita a enumerare le
rivendicazioni necessarie alla sua alternativa. E tuttavia queste
rivendicazioni differiscono da quelle degli anni settanta, quasi che
queste fossero un errore o qualcosa di superato. È con
l’egualitarismo spinto che gli operai del ’68 ottennero la
riduzione d’orario per tutti. Per la riduzione odierna dell’orario,
invece, Sabattini propone una riduzione «inversamente proporzionale
alla struttura gerarchica dell’impresa». Insomma più lavori di
“concetto”, meno fai fatica a sopportare il lavoro. Perciò più
sgobbi fisicamente più è giusto che la tua fatica venga ridotta.
Sabattini però non s’accorge che in questo modo la lotta per la
riduzione dell’orario passa meno attraverso gli scioperi e più
attraverso improbabili accordi a tavolino. Perché a meno persone si
vuol fare avere la riduzione d’orario, e meno persone si avranno
nella dura lotta per ottenerle. Ed è anche per questo, seppure non
solo, che Sabattini la riduzione d’orario non la ottenne. Perché
solo nell’egualitarismo gli operai ottengono qualcosa per tutti,
quando lottano solo per qualcuno, invece, non ottengono niente per
nessuno.
Stazione dei Celti
Gennaio 2013
Stazione dei Celti
Gennaio 2013
Nota unica
Per
vedere la polemica Camusso Scalfari sulla svolta dell’Eur e la
“responsabilità” di Lama, si digiti sul motore di ricerca di
google il loro nome e apparirà tutta la documentazione
necessaria.
Capelli
Corti Generale, è l’espressione
con cui il grande Fabrizio De André, nella canzone Coda di
lupo (riportata come sfondo
musicale dell’articolo), con una felice metafora, definisce e
sbugiarda il burocrate Luciano Lama al momento della sua cacciata a
pedate dagli studenti dalla Sapienza di Roma nel 1977.
Lo
scontro sui consigli tra il socialista riformista Bruno Buozzi e il
rivoluzionario Antonio Gramsci, è documentato da Paolo Spriano,
oltre che nel libro citato, anche nel suo libro complementare:
L’occupazione delle fabbriche settembre 1920
(Einaudi, 1964).
Sull’intreccio
ineludibile della Svolta dell’Eur con il compromesso storico di
Enrico Berlinguer, la ricostruzione magistrale è a mio parere quella
di Marco Ferrando, riportata
sul blog del compianto
compagno Bagarolo.
Sul
tentativo sistematico di addomesticamento dei Consigli di Fabbrica da
parte della burocrazia Cgil, si veda Consigli Sindacato e
Stato, in Sinistra e
potere di Antonio Moscato
(Sapere 2000, 1983). Altro materiale si trova a bizzeffe sul suo sito
qui.
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