Da
quando la signora Lagarde si è installata alla guida del FMI,
numerosi osservatori, ovviamente di parte o superficiali, hanno
sottolineato un presunto cambio di passo e di filosofia del FMI, un
allontanamento dal cinismo neomonetarista ed iperliberista che da
sempre caratterizza l'impostazione, più ideologica che
tecnico/professionale, dell'Istituto, e che si trova scolpita nei
punti del Washington Consensus, che puntualmente si traducono in
“programmi” di austerità finanziaria e riforme strutturali sui
mercati monetario e del lavoro e nei sistemi di welfare pubblico
suggeriti ai Paesi iper-indebitati, e quindi in terribili recessioni
economiche, spaventose e rapide fasi di impoverimento degli strati
popolari, aumento delle diseguaglianze distributive, ulteriore
avvitamento dei problemi di finanza pubblica.
Certo
su una revisione dell'ortodossia del FMI hanno influito le pesanti
critiche provenute anche da economisti borghesi come Joseph Stiglitz,
che sulla critica alle ricette del FMI ci ha costruito un best
seller: La Globalizzazione E I Suoi Oppositori (edito da Einaudi in
italia), in cui analizza gli errori delle istituzioni economiche
internazionali – e in particolare del Fondo Monetario
Internazionale – nella gestione delle crisi finanziarie che si sono
susseguite negli anni novanta, dalla Russia ai paesi del sud est
asiatico all'Argentina. Stiglitz illustra come la risposta del FMI a
queste situazioni di crisi sia stata sempre la stessa, basandosi
sulla riduzione delle spese dello Stato, una politica monetaria
deflazionista e l'apertura dei mercati locali agli investimenti
esteri. Tali scelte politiche standardizzate venivano di fatto
imposte ai paesi in crisi ma non rispondevano alle esigenze delle
singole economie, e si rivelavano inefficaci o addirittura di
ostacolo per il superamento delle crisi.
Così
come sull'ortodossia del FMI pesa come un macigno il fallimento del
programma di rientro dal debito dei Paesi PIIGS della Ue: la Grecia,
la prima vittima sacrificale di un programma di austerità e di
riforme liberiste imposto anche dal FMI, passa da un rapporto
debito/PIL del 153% nel 2010 al 181,3% nel 2012, con la proiezione di
un aumento fino al 199,9% nel 2014, e non si sa quando potrà tornare
a rifinanziarsi sui mercati, trasformandosi in un paziente perenne
per la Ue, attaccato a tempo indefinito al tubo degli aiuti erogati
dall'ESM1.
Aiuti, peraltro, che si trasformano, per i Paesi che contribuiscono a
finanziare questo meccanismo, in ulteriore debito pubblico, generando
un contagio finanziario complessivo. E nel frattempo il fallimento
greco ha già imposto perdite al sistema finanziario globale, con un
haircut nel 2011 pari al 50% del valore nominale dei bond greci a
carico delle banche creditrici ed un riacquisto, a fine 2012, di
parte del debito nazionale a prezzi inferiori a quelli di mercato,
che di fatto è un ulteriore haircut (poiché i creditori hanno visto
riconosciuto un prezzo di riacquisto pari al 32-40% del valore
nominale dei titoli) per un valore di circa 15 miliardi con riguardo
alle banche creditrici estere. E con la Merkel che già annuncia un
nuovo haircut per il 2014, cui dovrebbero partecipare anche i governi
creditori della Grecia.
Questo
fallimento nel tentativo di raddrizzare le finanze pubbliche greche
con rimedi neoliberisti che ovviamente fanno pagare il conto solo ai
più poveri, ai più fragili, a chi dipende in misura più alta dai
trasferimenti pubblici, ha comportato conseguenze sociali da
Apocalisse, che a mio avviso non si sarebbero verificate, in una
simile dimensione, nemmeno se la Grecia fossa stata colpita da un
Tsunami analogo a quello che colpì l'Asia nel 2004:
- la percentuale di popolazione a rischio di povertà passa dal 19,7% del 2009 al 21,4% nel 2011,
- il tasso di grave deprivazione materiale, che misura la quota di popolazione più disperata, balza dall'11% al 15,2% sul medesimo periodo,
- i disoccupati passano da 593.100 a giugno 2010 a 1.228.300 a settembre 2012,
- la struttura sociale greca si sudamericanizza, con la popolazione appartenente al quintile più povero della distribuzione del reddito che assorbe il 6,7% del reddito nazionale equivalente nel 2011, in diminuzione dal 7% del 2009, mentre il quinto più ricco della popolazione non è stato toccato affatto dalla crisi, e continua ad assorbire il 40,4% del reddito nazionale equivalente.
Se
il FMI fosse stato un normale istituto di consulenza privato, un
simile fallimento (le cui responsabilità, ovviamente, sono condivise
con la Bce dominata dall'ortodossia monetarista della Bundesbank e
con la Commissione Europea dominata dall'egoismo nazionale tedesco)
ne avrebbe comportato la scomparsa dal mercato. Invece, trattandosi
del braccio armato del capitalismo finanziario globale, se l'è
cavata con una ammissione di errore, a cose fatte (ed ampiamente
prevedibili ex-ante) in cui la direttrice, la signora Lagarde, ha
criticato l'impostazione eccessivamente spostata sul lato
dell'austerità finanziaria e non della crescita delle politiche
imposte dalla trojka ai poveri PIIGS. Un candore assolutamente
irritante: perché la Lagarde non si è preoccupata, dall'alto del
suo scranno di direttore generale, di modificare l'asse delle
politiche, anziché criticarle a danno fatto, visto che proprio lei
ha partecipato, appena nominata, all'elaborazione del secondo piano
di rientro per la Grecia? E nel frattempo, nonostante una inchiesta
giudiziaria a carico per complicità in falso, abuso d'ufficio e
sviamento di beni pubblici, per un fatto riasalente all'epoca in cui
era Ministro dell'Economia francese, bada bene a non dimettersi dal
suo incarico, ed anzi rilascia dichiarazioni odiose, in cui si dice
più preoccupata per i bambini del Niger che per il popolo greco,
che, a suo dire, sarebbe affetto da una insopprimibile tendenza ad
evadere le imposte (e quindi, implicitamente, meriterebbe la triste
sorte affibiatagli).
La
tendenza a rilasciare dichiarazioni mielose sembra far parte
integrante di questa distinta signora, dall'algido aspetto e dalla
lunga militanza politica nella destra neogollista francese. Al
recente vertice di Davos, la nostra amica si è lasciata andare ad un
lacrimoso discorso sulla dignità delle donne in India e nei Paesi
arabi (ma il tasso di disoccupazione femminile, in Grecia, con le sue
cure, è passato dal 13,2% del 2009 al 21,4% nel 2011) e
sull'esigenza di costruire condizioni di maggiore equità
distributiva, arrivando addirittura a citare Roosevelt, quando diceva
che “il test del nostro progresso è se diamo abbastaza a chi ha
troppo poco” (ma l'indice del Gini, l'indicatore che misura
l'equità distributiva, peggiora in tutti i PIIGS).
A
prescindere dalle dichiarazioni della Lagarde, in cosa consisterebbe,
concretamente, quel “delicato equilibrio” fra crescita e
risanamento delle finanze pubbliche attraverso il quale il nuovo
direttore generale vorrebbe riformare la linea di condotta
tradizionale del FMI, per metterlo al riparo dalle critiche per i
suoi continui fallimenti? Una risposta viene dalle raccomandazioni
che il FMI indica nell'ultimo “World Economic Update”, di fine
gennaio 2013. Ed è una risposta da far venire i brividi: come se ci
si trovasse in un esperimento in un ambiente controllato di
laboratorio, gli analisti del FMI applicano all'intero globo un
modellino astratto, una equazione che bilancia crescita e rigore
finanziario, distribuendo arbitrariamente i compiti, fra Paesi che
devono sostenere la crescita e Paesi, o aree geoeconomiche, che
devono applicarsi a implementare le tradizionali ricette di
austerità, lotta all'inflazione e liberalizzazioni. Questo
modellino, e la relativa distribuzione globale dei compiti assegnati
ai diversi Paesi, sono assolutamente astratti, semplificano in modo
inquietante la complessità delle relazioni fra Paesi stessi, e fra
economia, politica e società, e non tengono conto degli enormi
rischi sottostanti, che potrebbero far deflagrare il mondo intero, se
fossero applicati alla lettera.
La
componente relativa alla crescita dell'equazione crescita/risanamento
finanziario viene affidata essenzialmente agli Stati Uniti. Nel caso
degli USA, infatti, il FMI abbandona completamente la sua
tradizionale fobia per il controllo dei conti pubblici, ed arriva a
suggerire di rialzare il tetto legale al debito, al fine di “evitare
un consolidamento fiscale eccessivo”. Ciò in un'economia che ha un
rapporto fra debito pubblico e PIL del 140% (considerando anche il
debito degli Stati e delle contee, nonché delle agenzie federali),
ben più alto del 120% della tanto disprezzata Italia, e che
soprattutto è ancora il Paese di riferimento nel sistema dei
pagamenti mondiali (che è ancora un sistema di “dollar standard”).
E' saggio consigliare agli USA, in queste condizioni, di lasciare
crescere ulteriormente un debito pubblico che oramai aumenta al ritmo
di 3,6 miliardi di dollari al giorno? Non c'è nessuna considerazione
circa l'eventualità che le autorità monetarie cinesi, che detengono
1.155 miliardi di Treasury Bonds, possano spaventarsi per l'ulteriore
crescita del debito degli USA senza misure correttive, e decidano di
liquidare la loro posizione creditoria, facendo fallire, di fatto, il
governo statunitense, e comunque, anche non si verificasse il
default, facendo perdere al dollaro la sua posizione centrale nel
sistema globale dei pagamenti (già minacciata, poiché su alcuni
mercati petroliferi già oggi si usa il renmibi al posto del
dollaro), inondando i mercati di titoli del debito denominati in
dollari con valutazione da titoli-spazzatura. Non c'è nessuna
considerazione circa il fatto che i cambiamenti nel sistema valutario
internazionale in generale scatenano guerre mondiali, perché sono
accompagnate da modifiche radicali nella distribuzione globale del
potere economico e politico.
Ma
al di là delle relazioni finanziarie e politiche fra USA e Cina, i
suggerimenti sostanzialmente orientati al mantenimento, nel breve
periodo, di politiche fiscali moderatamente espansive negli USA, non
tengono conto della destabilizzazione economica del resto del mondo
derivante dall'ulteriore aggravamento del saldo di bilancia
commerciale che politiche fiscali accomodanti genererebbero. Va
rilevato che la bilancia commerciale degli USA passa da un disavanzo
di 454 miliardi di dollari nel periodo gennaio-novembre 2010 ad un
saldo negativo, sostanzialmente stabile, di 501-508 miliardi nei
corrispondenti periodi del 2011 e del 2012. Ciò ovviamente alimenta
la debolezza del tasso di cambio del dollaro, indotto anche dai
quantitative easing varati dalla FED in questi anni, e la debolezza
del tasso di cambio del dollaro viene pagata soprattutto
dall'economia europea, poiché spinge verso l'alto l'euro e deprime
l'export europeo (mentre il tasso di cambio fra renmibi e dollaro ha
oscillazioni molto contenute, essendosi mosso di circa l'1,2% fra
gennaio 2012 e 2013, poiché la fluttuazione del renmibi è ad
oscillazione controllata).
Non
vi è nemmeno un accenno al rischio dell'innesco di una nuova bolla
proveniente dal debito privato. Questa componente è arrivata oramai
al 250% del PIL statunitense, fra debito delle famiglie per consumi
(2.700 miliardi) debito delle imprese (12.000 miliardi) e debiti
immobiliari (13.000 miliardi) il tutto mentre il credito al consumo a
novembre 2012 è cresciuto del 7% su base annua, e le vendite di
nuovi immobili nel 2012 sono aumentate del 20% circa. Insomma, si sta
ricreando il meccanismo di esplosione di una nuova bolla, fra
espansione del mercato immobiliare e rapido peggioramento del debito
delle famiglie acquirenti e delle imprese edili costruttrici, del
tutto analogo al 2007, che diede luogo alla crisi attuale, e il FMI
consiglia ad Obama di far finta di niente, rialzare ulteriormente il
tetto legale del debito pubblico, e rinviare l'aggiustamento fiscale
al medio periodo!
Tutti
questi rischi non sono nemmeno valutati dagli analisti del FMI, che
assegnano agli USA il ruolo di locomotiva della crescita mondiale, a
qualsiasi costo, anche abbandonando ogni più elementare prudenza.
L'altro lato dell'equazione, ovvero il risanamento finanziario, viene
invece spostato sull'Unione Europea, cui si raccomanda di mantenere
una elevata disciplina, in materia di consolidamento fiscale e
riforme strutturali di tipo liberista, a carico dei “Paesi
periferici” (modo diplomatico per definire i PIIGS, ma che è anche
una specie di lapsus freudiano, poiché evidenzia la realtà di una
Unione Europea in cui vi è una gerarchia fra Paesi centrali –
Francia e Germania e loro addentellati nordici – e Paesi
periferici, a sovranità limitata).
La
stessa maggiore integrazione europea è vista esclusivamente in
termini di rafforzamento dei controlli, sia sul sistema bancario che
sulle singole politiche fiscali nazionali, utili a ridurre
complessivamente il rischio per gli investitori finanziari (da questo
punto di vista, le evidenze secondo cui gli investimenti starebbero
riaffluendo nei Paesi PIIGS – con un afflusso di circa 100 miliardi
a fine 2012 – non sono necessariametne un buon segno, perché
potrebbero semplicemente significare che il capitale finanziario
scommette sulla prosecuzione ad infinitum dell'austerità, che gli
fornisce le necessarie garanzie affinché i propri investimenti
vengano restituiti a scadenza). Naturalmente, una integrazione
europea meramente finanziaria, fiscale e bancaria, e non politica e
sociale, rischia solo di peggiorare l'assetto attuale delle
istituzioni europee, che già oggi ha tratti simili a quelli di una
sovrastruttura burocratica e non molto democratica, più attenta alle
esigenze dei mercati che a quelle dei popoli. Una ulteriore
evoluzione in tal senso porterebbe l'Europa a diventare un Leviatano.
Non può essere un progetto economico ad unificare l'Europa, ma un
progetto politico, quindi sociale, altrimenti gli esiti potrebbero
essere disastrosi, o in direzione di una definitiva sottomissione
della rappresentanza politica agli interessi economici, oppure in
direzione di rinascenti nazionalismi, estremamente pericolosi, se
associati ad una crisi economica profonda.
Ma
anche questo rischio è del tutto trascurato dagli analisti del FMI,
che condannano allegramente i PIIGS a continuare indefinitamente a
fare la parte dell'agnello sacrificale del risanamento delle finanze
pubbliche globali, cioè a proseguire nella spirale mortale di un
continuo impoverimento e di una continua precarizzazione delle
proprie società. In buona compagnia con il Giappone, il cui
recentemente annunciato piano di stimolo all'economia viene
considerato pericoloso nel medio periodo, se non verrà soffocato,
per così dire, da una successiva riforma fiscale restrittiva.
Per
finire, la Cina dovrebbe proseguire sulla strada di una ulteriore
svolta in senso capitalistico delle sue strutture economiche,
adottando riforme strutturali “market oriented” e stimolando i
consumi privati, anche in questo caso ignorando bellamente alcune
delle contraddizioni strutturali della Cina, ovvero la costante
minaccia della pressione della gigantesca popolazione rurale sulle
città, che rischia di far saltare lo stesso modello politico ed
economico cinese, con conseguenze inimmaginabili, e che ovviamente
una crescita dei consumi privati, che generalmente è tirata dalle
grandi città, renderebbe ancor più forte.
Nell'insieme,
il “new thinking” del FMI appare ancor più pericoloso della
dottrina tradizionale dell'istituto. Sembra totalmente scollegato
dalla realtà e dalle sue complessità e contraddizioni,
drammaticamente e pericolosamente semplicistico, pur senza
abbandonare il suo tradizionale cinismo, per cui gli Stati
politicamente più deboli sullo scenario globale, come i PIIGS,
vengono condannati a sopportare il costo del mantenimento di una
crescita totalmente squilibrata, e sempre più basata sul nulla, del
Paese padrone del mondo, ovvero gli USA. Se questa era la svolta
della Lagarde, beh, era meglio tenerci Strauss-Kahn. Meglio un
puttaniere che una cinica ipocrita ed incompetente.
1Ovviamente
qui espongo solo, per brevità, il caso greco, ma avrei potuto
tranquillamente anche parlare degli altri Paesi PIIGS sottoposti
alla stessa amara medicina.
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