Una «parola
nuova»
“L’Ordine Nuovo” nel
biennio rosso
Gabriele Donato
Un’analisi equilibrata del ruolo avuto
dall’“Ordine Nuovo” nel processo che ha portato alla nascita del Pcd’I passa
attraverso un’operazione indispensabile: la revisione delle letture che di
quell’esperienza sono state proposte dai dirigenti del Pci nel secondo
dopoguerra [1],
nel quadro di un’operazione complessivamente finalizzata alla mitizzazione di
un Gramsci tramutato in sostenitore ante
litteram del nuovo corso togliattiano. Non si tratta, naturalmente, di
esaminare la traiettoria di quella rivista «con la matita rossa e blu» [2];
si tratta, invece, di ritornare lucidamente sui passaggi fondamentali della vicenda
di quel gruppo con un obiettivo: metterla a disposizione dei militanti che oggi
la vogliano studiare finalmente libera dai tanti luoghi comuni che – a partire
dagli anni Cinquanta – non hanno smesso di sedimentarsi.
Vale la pena, in altri
termini, d’interrogarsi sui livelli di originalità teorica, omogeneità politica
e radicamento territoriale di un gruppo a cui tanti protagonisti del movimento
operaio italiano del Novecento si sono richiamati: le considerazioni che si propongono
seguono un percorso che tocca le questioni elencate per cercare di collegarle
in una riflessione finalizzata a evidenziare i meriti effettivi del settimanale
in questione, non quelli attribuitigli da quanti vi hanno cercato le nobili
origini della tanto celebrata “via italiana al socialismo”[3].
Si tratta di considerazioni che si basano sulla ripresa di tanti articoli
comparsi sulla rivista; esse, inoltre, si servono in modo significativo di
quanto dell’“Ordine Nuovo” si scrisse fra la seconda metà degli anni Sessanta e
gli anni Settanta, fase in cui l’esplosione delle lotte operaie impresse una
forte spinta agli studi riguardanti le tensioni rivoluzionarie degli anni
successivi alla Prima guerra mondiale.
Gli inizi
della rivista
Il primo numero dell’“Ordine Nuovo” uscì il 1
maggio del 1919, e fra i protagonisti di quell’esperienza editoriale il più autorevole
era sicuramente Angelo Tasca: coetaneo di Antonio Gramsci, Tasca godeva di una
fama sicuramente maggiore, che gli derivava dall’essere stato già protagonista
dei dibattiti della Federazione italiana della gioventù socialista (Figs) e,
soprattutto, dall’aver mantenuto un atteggiamento coerentemente
internazionalista al momento dello scoppio del conflitto mondiale[4].
Il percorso di Gramsci era stato meno lineare ideologicamente, tanto che il suo
impegno attivo nel Psi durante la guerra era ripreso – nel 1915 – solo dopo una
crisi politica determinata dalle sue simpatie interventiste del ’14[5].
I
principali collaboratori di Tasca furono Gramsci (che divenne rapidamente il
vero animatore della rivista), Palmiro Togliatti e Umberto Terracini, ma furono
protagonisti dell’esperienza anche altri militanti torinesi collocati in prima
linea nelle battaglie socialiste di quei mesi (Alfonso Leonetti, Mario Montagnana,
Ottavio Pastore e altri). “L’Ordine Nuovo” cui diedero vita non nacque,
tuttavia, come il giornale di una tendenza politica impegnata nella battaglia
all’interno del Psi: fu concepito inizialmente come una “Rassegna di cultura
socialista” pensata per ospitare interventi di argomenti e orientamenti vari,
animati – le parole sono di Gramsci – «da una vaga passione di una vaga cultura
proletaria»[6].
Ci
volle un vero e proprio «colpo di Stato redazionale» [7]
per farne quel che Gramsci (sostenuto da Terracini e Togliatti) voleva: il
giornale dei militanti socialisti più impegnati a Torino nella promozione dei
Consigli di fabbrica; il passaggio in questione viene tradizionalmente fatto
coincidere con la pubblicazione, alla fine del giugno del 1919, dell’articolo Democrazia operaia[8]
di Gramsci. La data merita attenzione: fu proprio l’estate del ‘19 a rappresentare
il momento culminante dell’ondata di agitazioni sociali scatenate dalle
conseguenze di più di tre anni di guerra: le proteste popolari sembravano
moltiplicarsi in un processo di radicalizzazione inarrestabile, e imponevano al
Psi di prendere l’iniziativa.
Non
tutte le valutazioni all’interno del partito, tuttavia, convergevano verso
l’esaltazione delle opportunità rivoluzionarie che si erano create: prevaleva,
al contrario, la preoccupazione. Filippo Turati e i riformisti (alla testa del
Gruppo parlamentare) temevano l’idea stessa che si stesse avvicinando la
rivoluzione, mentre Giacinto Serrati e i massimalisti (alla testa del partito)
temevano che il Psi non fosse ancora pronto per la battaglia decisiva; allora
la collocazione degli ordinovisti era interna alla sinistra massimalista [9].
Al
problema rappresentato dall’impreparazione del movimento socialista di fronte
alle opportunità rivoluzionarie, Gramsci iniziò allora a rispondere in termini
diversi non solo da quelli del capo dei massimalisti Serrati, ma anche da
quelli del capo della componente più “rigida” del massimalismo, Amadeo Bordiga:
in estrema sintesi, il comunista sardo riteneva che il compito fondamentale dei
socialisti non fosse tanto quello di rafforzare il partito in vista dello
scontro decisivo con la borghesia e il suo Stato, quanto quello di promuovere l’organizzazione
delle strutture consiliari grazie alle quali la classe operaia avrebbe costituito
«l’ossatura dello Stato socialista»[10]:
Lo Stato socialista esiste già
potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe
lavoratrice sfruttata. Collegare tra loro questi istituti, coordinarli e
subordinarli in una gerarchia di competenze e di poteri (...) significa creare
già fin d’ora una vera e propria democrazia operaia, in contrapposizione
efficiente ed attiva con lo Stato borghese, preparata già fin d’ora a
sostituire lo Stato borghese (...) È necessario dare una forma e una disciplina
permanente a queste energie disordinate e caotiche, assorbirle, comporle e potenziarle,
fare della classe proletaria e semiproletaria una società organizzata che si
educhi, che si faccia un’esperienza, che acquisti una consapevolezza
responsabile dei doveri che incombono alle classi arrivate al potere dello
Stato.
Dal suo punto di vista, sarebbe stata una presenza
diffusa e articolata di Consigli di fabbrica a consentire al movimento operaio
italiano di “fare come in Russia”, e realizzò (con il sostegno di Togliatti) il
“colpo di stato redazionale” ai danni di Tasca proprio per fare del giornale il
supporto principale a tale progetto: un progetto nel quale, al fianco
dell’originale valorizzazione del «momento costruttivo
dell’azione rivoluzionaria»[11],
non c’era ancora spazio per una riflessione significativa sul momento della
«rottura rivoluzionaria»[12],
della presa del potere politico, demandata all’iniziativa del Psi, visto ancora
come «il potere supremo che armonizza e conduce alla meta le forze organizzate
e disciplinate della classe operaia e contadina»[13].
Se
la scarsa attenzione al momento della rottura rivoluzionaria venne presto
indicata come il limite dell’impostazione ordinovista da Bordiga [14],
ciò nondimeno la novità di tali formulazioni («l’unica parola nuova»[15],
secondo Gramsci, discussa negli incontri di redazione) ebbe un impatto
rilevante sul dibattito del movimento operaio in quella fase, e le «piccole,
intense, riunioni» della redazione si trasferirono «tra le commissioni interne
delle officine»[16];
l’indicazione era chiara: la trasformazione sociale non poteva più essere pensata
come una correzione progressiva delle storture del sistema, ma non doveva nemmeno
essere concepita come «un atto taumaturgico»[17]
grazie al quale sarebbe stato creato, un giorno, «lo Stato proletario».
Si
trattava di una frattura nettissima con tutte le concezioni, dominanti allora
nel Psi: la rivoluzione, secondo gli ordinovisti, non doveva essere né temuta,
né fatalisticamente attesa; configurandosi essa come «un processo di sviluppo»,
doveva essere organizzata, e il compito dei rivoluzionari doveva essere quello
di consentire a tale processo di assumere «una forma ricca di dinamismo e di
possibilità di sviluppo» [18].
In altri termini, essa doveva essere «imposta [grazie all’organizzazione e al
disciplinamento delle energie proletarie] e non proposta [grazie alla
propaganda astratta]»[19].
Era certamente forte in Gramsci
l’esigenza di proporre «una visione della rivoluzione come processo sociale,
come prodotto della maturazione delle masse», ma il bersaglio della sua
polemica non era affatto la «concezione leninista della rivoluzione», come pure
è stato scritto[20].
Erano
stati proprio gli avvenimenti russi, infatti, a rappresentare il modello cui
Gramsci aveva ritenuto di ricollegarsi: con l’eccezione di Turati, d’altro
canto, era l’intero partito a richiamarsi alle lezioni di quella rivoluzione; nella
primavera del 1919, infatti, la
Direzione del Psi aveva votato a grande maggioranza l’adesione
all’Internazionale comunista fondata dai bolscevichi. Ciò nonostante, la
ricezione delle dinamiche della rivoluzione russa era ancora piuttosto
approssimativa in Italia, e lo stesso Gramsci, sostenitore entusiasta di Lenin
dalla primavera del 1917[21],
nel ’19 dimostrava una comprensione ancora parziale di quel che era successo in
Russia [22].
Dal
suo punto di vista, l’intuizione dei bolscevichi era stata quella di aver
assecondato la spinta soviettista della classe operaia e di aver accettato, con
l’adesione all’invenzione proletaria [23]
dello Stato dei Consigli, una soluzione consiliare dei problemi posti dalla rivoluzione
di febbraio[24]. Nonostante
“L’Ordine Nuovo” avesse pubblicato nell’agosto del 1919 la relazione di Lenin
sui Soviet svolta al primo Congresso dell’Ic, nell’impegno degli ordinovisti la
battaglia per dare al movimento consiliare una direzione coerentemente comunista
era ancora trascurata rispetto allo sforzo altrettanto importante di estenderne
l’articolazione[25]:
Questo deve essere il compito immediato
della frazione comunista del Partito socialista italiano [la grande maggioranza
dell’organizzazione, per Gramsci]: promuovere lo sviluppo delle istituzioni
proletarie di fabbrica dove esse già esistono o farle nascere dove ancora non
sono sorte. Coordinarle localmente e nazionalmente. Mettersi a contatto con le
istituzioni simili d’Inghilterra e di Francia, e dal basso, dall’intimo della
vita industriale (...) far pullulare le forze comuniste (...).
Tutto lo sforzo dell’“Ordine Nuovo” di quei mesi –
sforzo sul quale Gramsci nel 1924 si sarebbe soffermato autocriticamente [26]
– andò in quella direzione: al grande lavoro dedicato allo sviluppo del
movimento dei Consigli – considerati, nel quadro di una concezione ancora
«spontaneistica»[27],
come gli spazi all’interno dei quali la posizione dei comunisti si sarebbe
affermata «automaticamente»[28]
- non si affiancò alcun impegno significativo finalizzato al raggruppamento
delle forze effettivamente comuniste presenti nel Psi[ 29].
Secondo
Gramsci, d’altro canto, il partito rivoluzionario c’era già, mentre quel che
mancava – nella prospettiva della rivoluzione – era una rete diffusa di
«istituzioni di tipo nuovo, di tipo statale, che appunto sostituiranno le
istituzioni private e pubbliche dello Stato democratico parlamentare»[30],
Stato che – e da questo punto di vista la lezione di Lenin era stata appresa
senza incertezze – non doveva essere conquistato, ma doveva essere
sostituito.
L’esaltazione
del «movimento spontaneo»
Non c’è da stupirsi, pertanto, se in ottobre, al
XVI congresso del Psi (così come al VII congresso della Federazione italiana
della gioventù socialista) fu proprio la tematica consiliare l’unica sulla
quale gli ordinovisti ritennero di doversi distinguere dalla maggioranza
massimalista; se Bordiga, abbandonato come ambito d’intervento «il terreno
delle lotte operaie»[31],
aveva schierato la sua componente “rigida” attorno a un programma fondato sulla
proposta dell’astensionismo elettorale e sulla polemica con i riformisti, gli
ordinovisti (nemmeno intervenuti al congresso di Bologna) avevano insistito
solo sull’importanza dei Consigli di fabbrica, trasformati – è stato lo stesso
Spriano a riconoscerlo – in un «vero e proprio mito ideologico»[32],
che avvicinava l’elaborazione ordinovista alle tendenze operaistiche presenti
allora nel movimento comunista europeo[33].
Mentre
nel Psi, pertanto, il ruolo dei riformisti (rafforzato a seguito
dell’affermazione elettorale socialista di novembre, che consentì di eleggere
156 deputati) era diventato il motivo di polemiche durissime, che avevano
convinto Bordiga ad avviare la battaglia per costruire un nuovo partito[34],
Gramsci e i suoi collaboratori privilegiavano la battaglia sul fronte
sindacale, convinti che la forza dei riformisti derivasse dal loro dominio nei
sindacati, prima che dalla loro influenza nel Psi: «I Partiti socialisti
acquistano sempre più un profilo nettamente rivoluzionario e internazionalista;
i Sindacati invece tendono a incarnare la teoria (!) e la tattica
dell’opportunismo riformista»[35].
Se la valutazione relativa all’evoluzione rivoluzionaria dei partiti socialisti
era evidentemente superficiale e inadeguata, la polemica contro il riformismo
sindacale si articolò in una serie di valutazioni solidamente fondate [36]:
Gli operai sentono che il complesso della
“loro” organizzazione [la Confederazione generale del lavoro] è diventato tale
enorme apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua
struttura e al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha
acquistato coscienza della sua missione storica di classe rivoluzionaria.
Sentono che la loro volontà di potenza non riesce a esprimersi, in un senso
netto e preciso, attraverso le attuali gerarchie istituzionali.
Tramite i Consigli la classe avrebbe potuto dare
concretezza alle proprie aspirazioni rivoluzionarie, e nella battaglia per far
prevalere questa tesi gli ordinovisti ottennero una serie di risultati
significativi: all’inizio di novembre, dopo essere stati protagonisti dell’assemblea
torinese dei commissari di reparto[37],
sconfissero il leader della Fiom torinese Bruno Buozzi e conquistarono la
maggioranza di quella struttura, mentre a metà dicembre si affermarono in
occasione del congresso della Camera del lavoro del capoluogo piemontese,
consentendo a Tasca di diventarne segretario.
Si
trattava di risultati importanti, ottenuti grazie al consenso che gli
ordinovisti avevano saputo conquistarsi in mezzo alla classe operaia [38],
con un energico lavoro di organizzazione, non solo di propaganda, sviluppato
sul terreno di massa in coerenza con la propria convinzione fondamentale: «il
movimento spontaneo, irresistibile»[39]
delle masse non doveva essere temuto, ma doveva essere valorizzato nelle sue
forme autonome di espressione, e orientato; tale convinzione, analoga a quelle
che avevano spinto Rosa Luxemburg una quindicina d’anni prima a esprimere «una
valutazione positiva della spontaneità»[40]
in antitesi al burocratismo della Spd, venne formulata apertamente [41]:
Promuovere il sorgere e il moltiplicarsi di
Consigli operai e contadini, determinarne il collegamento e la sistemazione
organica fino all’unità nazionale da raggiungersi in un congresso generale,
sviluppare una intensa propaganda per conquistarne la maggioranza, è il compito
attuale dei comunisti. L’urgere di questa nuova fioritura di poteri che sale
irresistibilmente dalle grandi masse lavoratrici, determinerà l’urto violento delle
due classi e l’affermarsi della dittatura proletaria. Se non si gettano le basi
del processo rivoluzionario nell’intimità della vita produttiva, la rivoluzione
rimarrà uno sterile appello alla volontà, un mito nebuloso (...).
Ma in seno al gruppo che pubblicava il giornale
c’era coesione attorno alle posizioni apertamente consiliariste di Gramsci?
Niente affatto, tanto che quando, alla fine del 1919, la sezione socialista di
Torino promosse la costituzione di un comitato di studio sui Consigli di fabbrica,
Gramsci non venne chiamato a farne parte; prevalse, allora, l’orientamento di
Tasca: i Consigli avrebbero dovuto rappresentare un’articolazione del movimento
sindacale, e avrebbero dovuto essere promossi nel quadro di un’intesa con le
istanze rappresentate dalla Cgdl, quando per Gramsci[42],
invece, le potenzialità dei Consigli stavano proprio nella capacità che
potevano dimostrare di superare i limiti e le rigidità delle organizzazioni
sindacali tradizionali e di diventare, nel momento insurrezionale, veri e
propri organismi di potere, alla stregua dei Soviet russi: «la costruzione dei
Soviet politici comunisti – Gramsci chiarì
bene il passaggio – non può che succedere storicamente a una fioritura e a una
prima sistemazione dei Consigli di fabbrica»[43].
All’inizio
del 1920, comunque, i Consigli di fabbrica divennero argomento di discussione
nell’intero movimento socialista, smettendo di essere oggetto di dibattito solo
a Torino: il confronto si sviluppò sulle
principali riviste del partito, e costrinse i vertici del Psi a prendere
ufficialmente posizione; il massimalista Bombacci venne incaricato di redigere
un progetto complessivo che orientasse l’attività delle sezioni nell’impegno
per la costituzione dei soviet. Tuttavia, il riconoscimento dell’importanza dei
Consigli da parte dei massimalisti era puramente formalistico: al di là delle
«promesse di rivoluzione» – scrisse Tasca nella sua ricostruzione di quegli
anni – «non vi era assolutamente niente»[44];
per costoro «tutto consisteva – ha spiegato Leonetti – nel compilare progetti,
statuti, piani, in cui ogni cosa era perfettamente prevista, salvo la realtà in
cui la classe che produce e deve liberarsi si muoveva: il luogo di lavoro»[45].
I
massimalisti (in assonanza con Bordiga [46])
sostenevano che i Consigli avrebbero dovuto essere istituiti in vista della
presa del potere, come semplice articolazione politica della dittatura del
partito, mentre Gramsci considerava assurda la pretesa di «costringere il
processo rivoluzionario nelle forme del Partito»[47],
cui pure attribuiva la direzione del processo stesso: «abbiamo semplicemente il
torto – scrisse nell’autunno del 1920 – di credere che la rivoluzione comunista
possano attuarla solo le masse, e non possa attuarla né un segretario di
partito né un presidente di repubblica a colpi di decreto»[48].
A essere visto con
diffidenza dai massimalisti era proprio il ruolo rivoluzionario che tante
pagine dell’“Ordine Nuovo” avevano attribuito agli organismi che erano sorti
spontaneamente nelle fabbriche torinesi durante i mesi precedenti e presso i
quali gli ordinovisti si erano conquistati una grande autorità, quei Consigli
di fabbrica considerati da Gramsci «l’espressione storica di forze e volontà
immanenti nella classe operaia di fabbrica»[49].
Si trattava di un’autorità consolidata grazie a un approccio di grande
attenzione e sensibilità verso le iniziative della classe, tutt’altro che
libresco[50]:
La soluzione non la si trova sui libri, la
soluzione sarà preparata dalla discussione e dall’esperienza comune (...) a
tutti, noi vogliamo dire: Fate, lavorate, cercate voi; le cose lette sul
giornale, ripensatele, vedetele coi vostri occhi, trovatene le applicazioni
pratiche che fanno al caso vostro. Si faranno degli errori, ci saranno delle
incertezze, ma questa è la vera scuola, la scuola vivente, la concreta scuola
di rivoluzionarismo, di autonomia, di libertà.
Fu nel corso del dibattito sui Soviet che Gramsci si
allontanò definitivamente dal massimalismo, contestato anche per la sudditanza
manifestata nei confronti delle manovre dei riformisti[51]:
la sua polemica nei confronti del formalismo con il quale Bombacci e Serrati
avevano affrontato la questione fu estremamente aspra, e lo spinse ad
avvicinarsi agli astensionisti torinesi, che avevano accettato di misurarsi
assieme agli ordinovisti con i problemi concreti posti dalle forme nuove di
organizzazione operaia che erano venute configurandosi [52].
Quando
esplose, pertanto, lo scontro sui poteri dei commissari di reparto all’interno
degli stabilimenti torinesi, la sezione socialista del capoluogo, guidata da
ordinovisti e astensionisti e forte dell’influenza maggioritaria in seno alla
Fiom, fu costretta ad affrontare praticamente da sola la serrata organizzata
contro la classe operaia dagli industriali: lo scontro, iniziato alla fine di
marzo, culminò nello sciopero generale convocato in Piemonte a metà aprile. Proprio
nel corso dello sciopero generale a Torino avrebbe dovuto svolgersi la riunione
della Direzione nazionale del Psi: essa, tuttavia, venne spostata a Milano, e
in quell’occasione respinse l’appello di Terracini (l’unico membro legato
all’“Ordine Nuovo”, integrato nella Direzione a gennaio) a generalizzare lo
scontro aperto in Piemonte e a tramutarlo in un’occasione insurrezionale.
Se
i riformisti avevano avversato apertamente l’appello in questione, i
massimalisti avevano deciso di non sostenerlo (e anche Bordiga – pur polemico
contro l’inerzia socialista – decise di criticarne l’ispirazione, dopo aver
definito le prime occupazioni «vani e continui conati della massa lavoratrice»[53]):
il movimento operaio piemontese – schierato grazie all’impegno degli
ordinovisti su posizioni più avanzate che altrove [54]
– era stato abbandonato dalla Direzione socialista, e ciò indusse gli
ordinovisti stessi a prendere apertamente le distanze dal gruppo dirigente del
partito, e ad avviare una riconsiderazione complessiva del proprio orientamento [55].
Gli scontri
nel Psi
La rottura con i massimalisti venne esplicitata
l’8 maggio dalla pubblicazione sull’“Ordine Nuovo” del documento che Gramsci, a
nome dell’Esecutivo della sezione socialista torinese, aveva scritto agli inizi
di aprile: Per un rinnovamento del
Partito socialista. Se da alcuni il documento in questione è stato
presentato come il punto più alto raggiunto dall’elaborazione ordinovista di
quei mesi, esso presenta – con tutta evidenza – un’altra configurazione: al suo
interno, infatti, si trova espressa una prima sintesi compiuta fra le istanze degli
ordinovisti e quelle degli astensionisti torinesi, legati da un rapporto di
grande collaborazione (nei confronti della quale Bordiga nutriva una forte
diffidenza [56]).
Al
centro del documento, infatti, si colloca il tema dell’insufficienza di un
partito sollecitato dalle asprezze della lotta di classe ma dimostratosi
incapace di coglierne le sfide: se nei mesi precedenti Gramsci aveva insistito
nel mettere al centro delle proprie riflessioni la centralità degli organismi
consiliari per lo sviluppo degli avvenimenti rivoluzionari [57],
nella primavera del 1920 egli dimostrò di aver maturato una consapevolezza
nuova della centralità del ruolo del partito rivoluzionario; i toni del
documento sono perentori [58]:
L’esistenza di un Partito comunista coeso e
fortemente disciplinato, che attraverso i suoi nuclei di fabbrica, di
sindacato, di cooperativa coordini e accentri nel suo comitato esecutivo
centrale tutta l’azione rivoluzionaria del proletariato, è la condizioni
fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet;
nell’assenza di una tale condizione ogni proposta di esperimento deve essere
rigettata come assurda e utile solo ai diffamatori dell’idea soviettista.
Si trattava di parole chiare, che segnavano
l’allontanamento degli ordinovisti da quella «concezione feticistica dei soviet
considerati come fattori autonomi della rivoluzione» contro la quale Trotskij
avrebbe scritto un capitolo importante delle Lezioni dell’ottobre [59].
In estrema sintesi, si può con ragionevolezza affermare che la “conquista” del
leninismo coincise in Gramsci con la rielaborazione di alcuni dei tratti
fondanti su cui si era basato l’ordinovismo. Non è un caso che dalla sconfitta
dello sciopero di aprile in poi, cambiò la parola d’ordine su cui Gramsci
insistette con più energia: la priorità non fu più la costituzione dei
Consigli, ma la promozione dei «gruppi comunisti» nelle fabbriche, i quali
avrebbero avuto il compito di conquistare alle posizioni rivoluzionarie le
organizzazioni sindacali e di formare i «Soviet politici» attraverso i quali scatenare
la lotta per la dittatura proletaria.
Il
documento in questione merita di essere considerato con attenzione in quanto
venne citato da Lenin, nel corso del secondo congresso dell’Internazionale che
si tenne fra Pietroburgo e Mosca nel corso dell’estate del 1920, come la
sintesi delle posizioni più avanzate presenti all’interno del dibattito del Psi [60];
tale autorevole citazione è stata in più occasioni ricordata come
l’esplicitazione del consenso dei vertici del bolscevismo per le posizioni difese
fino allora dall’“Ordine Nuovo”, ma l’analisi che abbiamo sviluppato ci
consente di evitare conclusioni tanto sbrigative [61].
Fino all’inizio dell’estate del 1920, d’altro canto, i vertici dell’Ic – poco
informati sull’Italia [62]
– non avevano fatto mancare il proprio sostegno a Serrati e ai massimalisti, e
fu solo a giugno che essi si rivolsero apertamente al gruppo dirigente del Psi
sollecitandolo con durezza a cacciare i riformisti dal partito.
L’esito
negativo dello sciopero di aprile doveva aver messo i dirigenti dell’Ic (che
non disponevano di efficaci canali di comunicazione con l’Italia) nelle
condizioni di comprendere i limiti di un partito che, forte della fama che si
era conquistato nel corso della guerra, nell’ottobre del 1919 non aveva esitato
a votare la propria adesione all’Internazionale (al suo «programma finalistico»[63],
prima ancora che alla strategia che proponeva). Nel tentativo di trovare altri
interlocutori oltre a Serrati, Lenin ottenne di poter leggere il documento
citato grazie al collegamento assicurato da un emissario in Italia [64],
e nel corso del congresso intervenne più volte per sollecitare la delegazione
italiana (composta da Serrati, Graziadei, Bombacci, Polano e Bordiga) ad
abbracciare tali posizioni.
Il
consenso di Lenin rafforzò le posizioni dell’“Ordine Nuovo” in Italia? Niente
affatto, perché all’interno del gruppo in questione, nel frattempo, erano
esplose tutte le contraddizioni che per mesi si erano accumulate; già a maggio
Gramsci e Tasca avevano iniziato a scontrarsi apertamente sulle pagine della
rivista, dimostrando la fragilità delle basi politiche dell’accordo che era
intercorso fra i due: se il comunista sardo insisteva nel considerare i
Consigli uno strumento per sottrarre il movimento operaio all’influenza dei
dirigenti sindacali, Tasca ribadì che tali organismi avrebbero dovuto essere
inseriti all’interno dell’ambito dell’iniziativa sindacale. Era ormai
incolmabile la distanza da questa posizione delle convinzioni di Gramsci, che
vale la pena di citare [65]:
I Consigli di fabbrica hanno la loro legge
in se stessi, non possono e non debbono accettare la legislazione degli
organismi sindacali che appunto essi hanno il fine immediato di rinnovare
fondamentalmente. Allo stesso modo: il movimento dei Consigli di fabbrica vuole
che le rappresentanza operaie siano emanazione diretta delle masse e siano
legate alla massa da un mandato operativo.
La frattura fra i due non si sarebbe più
ricomposta: essa fu fra le cause del riposizionamento dei riformisti ai vertici
della Cdl di Torino (grazie all’accordo con Tasca), e provocò poi altre rotture
in seno al gruppo ordinovista; ad agosto, infatti, Togliatti, Terracini e
Montagnana (sostenuti da Tasca) ruppero con Gramsci e con gli astensionisti per
formare, assieme ai massimalisti di Roveda, una nuova maggioranza in seno
all’Esecutivo della sezione socialista.
Poche
settimane dopo il prestigioso riconoscimento ottenuto a Mosca, pertanto, Gramsci
si ritrovò clamorosamente isolato nel partito a Torino; decise di mettere in
piedi un gruppo di “Educazione comunista” assieme a una ventina di operai della
sezione, e proprio nel corso dell’estate portò a compimento, in un alcuni
scritti di grande valore, la sintesi fra le intuizioni della fase precedente e
le acquisizioni determinate dall’esperienza della primavera. La “scoperta”
della centralità del ruolo di un partito coerentemente rivoluzionario non
significò affatto l’abbandono dell’attenzione dedicata al «movimento cosciente
delle masse proletarie rivolto a sostanziare col potere economico il potere
politico», né condusse Gramsci alla negazione della loro «autonomia», al
ridimensionamento del loro «spirito di iniziativa storica positiva», che anzi
continuavano a essere rivendicati come decisivi [66]:
(...) noi abbiamo sempre ritenuto che
dovere dei nuclei comunisti esistenti nel Partito sia quello di non cadere
nelle allucinazioni particolaristiche (problema dell’astensionismo elettorale,
problema della costituzione di un partito “veramente” comunista) ma di lavorare
a creare le condizioni di massa in cui sia possibile risolvere tutti i problemi
particolari come problemi dello sviluppo organico della rivoluzione comunista.
Può infatti esistere un partito comunista (che sia partito d’azione e non
accademia di puri dottrinari e di politicanti, che pensano “bene” e si
esprimono “bene” in materia di comunismo) se non esiste in mezzo alla massa lo
spirito di iniziativa storica e la aspirazione all’autonomia industriale che
devono trovare il loro riflesso e la loro sintesi nel Partito comunista?
Nell’imminenza dell’avvio del grande movimento di
occupazione delle fabbriche (che sarebbe iniziato proprio alla fine di agosto),
l’elaborazione gramsciana era giunta a un livello importante di maturazione, ma
il gruppo dell’“Ordine Nuovo” si presentava diviso al proprio interno: esso fu incapace,
pertanto, di esercitare nel Psi un’influenza significativa in una fase decisiva
per la lotta di classe nel paese, anche a causa di un radicamento che non
andava al di là del Piemonte; certo, Tasca dirigeva la Cdl di Torino, Togliatti
dirigeva la sezione socialista della stessa città, Terracini stava nella
Direzione del Psi, ma il vero animatore della rivista, Gramsci, si era
ritrovato in una posizione di sostanziale marginalità.
Nell’agosto,
egli aveva preferito l’isolamento all’accomodamento con le posizioni di Tasca:
irriducibilmente ostile, dopo le vicende dell’aprile, alla politica inerte dei
massimalisti, già a maggio Gramsci si era presentato come osservatore alla
riunione nazionale che la frazione astensionista aveva svolto a Firenze; pur
confermando in quell’occasione la propria distanza dall’astensionismo, il
comunista sardo aveva ormai le idee chiare sulla priorità della battaglia per
la costruzione di un vero partito comunista in Italia.
La questione
del partito rivoluzionario
Tale consapevolezza si rafforzò alla luce delle
indicazioni che provenivano dal secondo congresso dell’Ic, i cui materiali
preparatori vennero proposti in forma riassuntiva dall’“Ordine Nuovo” a fine
luglio [67];
a settembre, nel pieno dell’occupazione delle fabbriche, fu proprio attorno a
quella posizione che “L’Ordine Nuovo” si ricompattò, tanto che venne pubblicato
un editoriale significativo intitolato Il
Partito Comunista; nel ragionamento di Gramsci, era la questione del
partito, non più quella dei Consigli, a rappresentare l’urgenza del momento[68]:
(...) i tratti caratteristici della
rivoluzione proletaria possono essere ricercati solo nel Partito della classe
operaia, nel Partito Comunista, che esiste e si sviluppa in quanto è
l’organizzazione disciplinata della volontà di fondare uno Stato, della volontà
di dare una sistemazione proletaria all’ordinamento delle forze fisiche
esistenti e di gettare le basi della libertà popolare (...) nella formazione
del Partito Comunista è dato cogliere il germe di libertà che avrà il suo
sviluppo e la sua piena espansione dopo che lo Stato operaio avrà organizzato
le condizioni materiali necessarie.
Togliatti si riavvicinò a Gramsci, e assieme
sostennero la proposta di creare a Torino un Soviet cittadino, nel quale i
comunisti potessero concentrare e dirigere, con lo scopo di difendere le
occupazioni, le migliori energie proletarie espresse dal movimento consiliare;
tutti i dirigenti della sezione socialista, con gli ordinovisti e gli
astensionisti in prima linea, s’impegnarono nella lotta, moltiplicando i comizi
all’interno degli stabilimenti occupati [69]:
la motivazione principale che li animò fu quella di evitare che il movimento
rimanesse privo di una direzione politica all’altezza dello scontro, e che gli
operai torinesi venissero per l’ennesima volta «lasciati soli»[70].
Se
la fascinazione spontaneista dell’anno precedente, «intrisa di motivi
libertari»[71], era
stata superata, tanto che Gramsci chiarì che «un movimento rivoluzionario non
può fondarsi che sull’avanguardia proletaria»[72],
fu anche la «sfiducia totale e definitiva nella classe dirigente socialista»[73]
a indurre gli ordinovisti a non insistere per la radicalizzazione dello scontro[74]
e a privilegiare l’impegno per il raggruppamento delle avanguardie – «uno stato
maggiore operaio»[75],
scrisse ancora Gramsci – in vista delle battaglie successive; la decisione,
infatti, della Direzione socialista di non prendere le redini del movimento e
di lasciarne il controllo ai riformisti che dirigevano la Cgdl convinse
definitivamente gli ordinovisti che l’impegno ineludibile della fase era
diventato quello per la costruzione di un nuovo partito, coerentemente
rivoluzionario, prima ancora di quello per il rilancio e l’ulteriore diffusione
delle esperienze consiliari [76]:
I comunisti, che nella lotta metallurgica
hanno, con la loro energia e il loro spirito d’iniziativa, salvato da un
disastro la classe operaia, devono giungere fino alle ultime conclusioni del
loro atteggiamento e della loro azione: salvare la compagine primordiale
(ricostruendola) del Partito della classe operaia, dare al proletariato
italiano il Partito Comunista che sia capace di organizzare lo Stato operaio e
le condizioni per l’avvento della Società comunista.
In quest’impegno Togliatti e Terracini si
ritrovarono al fianco di Gramsci, nella consapevolezza che questa battaglia
avrebbe dovuto essere condotta – in sintonia con le nuove indicazioni provenienti
dai vertici dell’Ic, convinti che in Italia si fosse «alla vigilia della
rivoluzione»[77] – assieme
al vecchio gruppo astensionista legato a Bordiga e ai massimalisti di sinistra
disposti a rompere con Serrati: fu proprio Bordiga (affiancato da, Bombacci, Terracini
e da Bruno Fortichiari) a capeggiare la nuova frazione comunista che si
costituì a Milano a metà ottobre, per preparare la battaglia al nuovo congresso
del Psi (che le conclusioni del secondo congresso dell’Ic avevano imposto). In
questa nuova frazione l’incidenza politica delle tematiche dell’ordinovismo,
nonostante il pieno impegno dei torinesi, fu trascurabile, tanto che nel
Manifesto della frazione era quasi completamente assente tutta la problematica
consiliare[78].
Fu
incontestabilmente Bordiga (che, in coerenza con i dettati dell’Ic, aveva
rinunciato all’astensionismo) a egemonizzare il processo che portò, nei mesi
successivi, alla nascita del Pcd’I: tutta la polemica contro i massimalisti di
Serrati venne condotta sulla base degli argomenti tipici che avevano
caratterizzato la sua battaglia per la scissione iniziata un anno prima, e gli
ordinovisti la sostennero senza sentire l’esigenza di distinguersene, tanto che,
quando al convegno della frazione che si tenne a Imola si aprì un confronto
sulla rigida impostazione bordighiana, Gramsci non ebbe nulla da eccepire in
relazione all’approccio alla battaglia congressuale proposto dall’ingegnere
napoletano, nonostante nutrisse delle riserve [79].
In nome dell’unità della frazione, Gramsci, e con ancora più convinzione Togliatti
e Terracini, si allinearono a Bordiga, e – come ha correttamente scritto
Giuseppe Berti – il loro gruppo «si dissolse»[80].
Quando
il settimanale, pertanto, chiuse a dicembre i battenti, per trasformarsi – a
partire dal gennaio del 1921 e sotto la direzione di Gramsci – nel quotidiano
della frazione comunista che stava per costituirsi in partito,
dell’ordinovismo, inteso come elaborazione originale scaturita dalla
riflessione sulle lotte operaie torinesi, sembrava essere rimasto ben poco [81].
Un patrimonio estremamente significativo di esperienze di lotta, tuttavia, era
stato acquisito: nel corso di tali esperienze si era formata una generazione di
militanti (Gramsci su tutti) che, grazie alle battaglie intraprese dall’“Ordine
Nuovo”, avevano rotto con la tradizione del socialismo riformista, rifiutando
contestualmente d’intendere la militanza rivoluzionaria come una semplice missione
di testimonianza proiettata verso l’attesa finalistica della rivoluzione che
sarebbe venuta.
Il
problema che quei militanti si erano posti, al di là delle conclusioni cui
giunsero in quei mesi e negli anni successivi[82],
era uno di quelli che non potevano essere ignorati: come costruire, una volta
rotti tutti i legami con i riformisti, un’organizzazione che non fosse «un’accolta
di dottrinari»[83], ma
che sapesse essere «il partito delle masse che vogliono liberarsi coi propri
mezzi, autonomamente, dalla schiavitù politica e industriale»; ciò che Gramsci
comprese di dover contribuire a costruire non era «un partito che si serva
delle masse per tentare imitazioni eroiche dai giacobini francesi», «ma un
partito d’azione comunista rivoluzionaria, un partito che abbia coscienza
esatta della missione storica del proletariato e sappia guidare il proletariato
all’attuazione della sua missione» [84].
Questa
convinzione maturò grazie a un apprendistato appassionante svolto delle lotte
torinesi, «un movimento proletario di massa autentico»[85]:
fu proprio la capacità autonoma di sviluppare iniziativa espressa da quel
settore di classe operaia a sollecitare la riflessione dell’“Ordine Nuovo”, a
costringere quel gruppo di intellettuali socialisti a mettere le proprie intuizioni
alla prova nella concretezza dei conflitti che esplodevano; Gramsci lo scrisse
con chiarezza: non bastava che le azioni rivoluzionarie, per essere realmente
tali, risultassero coerenti con la logica astratta della dottrina; il loro
«valore»[86]
reale si doveva dimostrare nella loro capacità di aderire effettivamente ai
processi di trasformazione, di essere veri e propri «atti di liberazione»
all’interno di questi processi.
Senza
un legame vivo con le masse, non c’è partito che meriti di chiamarsi rivoluzionario:
questa fu la certezza che ispirò le pagine dell’“Ordine Nuovo” e che ci
consente di collocarne le riflessioni all’interno dell’elaborazione
rivoluzionaria che l’Ic venne definendo negli anni dei suoi primi congressi [87];
tale certezza consentì a quel gruppo di comunisti, partiti dall’entusiasmo
idealistico per le vittorie della rivoluzione russa, di collocarsi alla testa
della classe operaia torinese e di conquistarsi l’attenzione di Lenin; forti di
un metodo contrapposto a quello dei «predicatori di esteriorità», dei «freddi
alchimisti di parolette»[88],
essi vollero e seppero essere «comunisti che non si accontentano di rimasticare
monotonamente i primi elementi del comunismo e del materialismo storico, ma che
vivono nella realtà della lotta e comprendono la realtà, così com’è, dal punto
di vista del materialismo storico e del comunismo»[89].
NOTE
[1]
Si veda due esempi significativi: l’intervento di Palmiro Togliatti al primo
Convegno di studi gramsciani tenutosi a Roma nel gennaio 1958, Gramsci e il leninismo (anticipato dagli
appunti preparatori intitolati Il
leninismo nel pensiero e nell’azione di A. Gramsci), ora in AA.VV., Studi gramsciani, Editori Riuniti, Roma
1969 [prima ediz. 1958], pp. 419-444; l’introduzione di Giorgio Amendola, Rileggendo Gramsci, ad AA.VV., Prassi rivoluzionaria e storicismo in
Gramsci, “Critica marxista – Quaderni”, n. 3, Roma 1967, pp. 3-45.
[2]
P. Spriano, Fortuna e impopolarità dell’
“Ordine Nuovo”, in P. Spriano, Sulla
rivoluzione italiana. Socialisti e comunisti nella storia d’Italia,
Einaudi, Torino 1978, p. 76.
[3]
Una riproposizione recente di un Gramsci interpretato come anticipatore della
proposta togliattiana della “democrazia progressiva” si trova in L. Vinci, Gramsci e Lenin, Togliatti e Gramsci.
Continuità e discontinuità, in AA. VV., Seminario
su Gramsci, Edizioni Punto Rosso, Milano 2010, pp. 119-137. Le difficoltà
insormontabili presenti in un’operazione del genere erano già state rilevate in
L. Magri, “Via italiana” e strategia
consiliare, in AA.VV., Classe,
consigli, partito, Quaderno n. 2 del Manifesto, Alfani editore, Roma 1974.
[4]
«Nel periodo in cui Gramsci inizia a farsi strada l’elemento più attivo a
Torino è Tasca, il quale era stato molto vivace nel periodo della guerra e
nell’anteguerra, molto attivo anche negli scontri con la polizia, sempre in
prima linea». B. Fortichiari, Comunismo e
revisionismo in Italia. Testimonianza di un militante rivoluzionario,
Mimesis, Milano 2006 [prima ediz. 1978], p. 127.
[5]
Ancora nel 1919 la sua riflessione
politica non appariva del tutto libera dai condizionamenti della sua formazione
idealistica, e «una certa influenza crociana» appariva ancora «assai sensibile»
– si tratta delle parole di Spriano – nella prima parte del percorso della
rivista». P. Spriano, Sulla
rivoluzione italiana cit., p. 71.
[6]
«(...) ecco cosa fu “L’Ordine Nuovo” nei suoi primi numeri, un disorganismo, il
prodotto di un mediocre intellettualismo che zampelloni cercava un approdo
ideale e una via per l’azione». A. Gramsci, Il
programma dell’“Ordine Nuovo” [14 agosto 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929, Einaudi,
Torino 1955, p. 148. Attualmente è disponibile on line una raccolta completa
dell’“Ordine Nuovo” all’indirizzo del Centro Gramsci di Educazione e di
Cultura: www.centrogramsci.it/ordine%20nuovo.html.
[7]
Ibid.
[8]
A. Gramsci, Democrazia operaia [21
giugno 1919], in A. Gramsci, L’Ordine
Nuovo 1919-1929 cit., pp. 10-13.
[9]
A Torino Gramsci faceva parte,
assieme ai cosiddetti “intransigenti rigidi” Boero e Parodi, della Commissione
esecutiva della sezione socialista cittadina
[10]
A. Gramsci, Democrazia operaia cit.,
pp. 10-11.
[11]
P. Spriano, Gramsci e Gobetti.
Introduzione alla vita e alle opere, Einaudi, Torino1977, p. 139.
[12]
Si veda L. Magri, “Via italiana” e
strategia consiliare cit., p. 90.
[13]
A. Gramsci, Democrazia operaia cit., p.
11.
[14]
«L’approssimarsi della messa in pratica del programma Socialista non deve
essere considerato senza tenere sempre presente la barriera che ce ne separa
nettamente nel tempo; lo stabilirsi di una condizione pregiudiziale; cioè la
conquista di tutto il potere politico alla classe lavoratrice, problema che
precede l’altro (...)». A. Bordiga, L’Ordine
Nuovo, in A. Bordiga, A. Gramsci, Dibattito
sui consigli di fabbrica, Edizioni Savelli, Roma 1973, p. 21.
[15]
A. Gramsci, Il programma dell’“Ordine
Nuovo” cit., p. 146.
[16]
P. Spriano, Gramsci e Gobetti cit.,
p. 46.
[17]
A. Gramsci, La conquista dello Stato
[12 luglio 1919], in A. Gramsci, L’Ordine
Nuovo 1919-1929 cit., p. 18.
[18]
Ivi, p. 18.
[19]
A. Gramsci, Lo sviluppo della rivoluzione
[13 settembre 1919], in A. Gramsci, L’Ordine
Nuovo 1919-1929 cit., p. 27.
[20]
L. Magri, “Via italiana” e strategia
consiliare cit., p. 77.
[21]
A. Gramsci, La rivoluzione contro il
«Capitale», “Avanti!”, 24 novembre 1917. Ha sottolineato Spriano che Gramsci è
stato «uno dei pochi, nel 1917, tra i socialisti italiani, a non pronosticare
alla rivoluzione russa la sorte tragica della Comune parigina». P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Da
Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1967, p. 13.
[22]
Valentino Gerratana ha correttamente definito come «idealizzata» la
rappresentazione che Gramsci diede in questa fase della rivoluzione russa. V.
Gerratana, Gramsci come pensatore
rivoluzionario, in AA.VV., Politica e
storia in Gramsci, vol. II, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 75.
[23]
Si veda l’articolo di A. Gramsci, Maggioranza
e minoranza nell’azione socialista [15 maggio 1919], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., pp.
371-373.
[24]
Il rapporto fra il Partito bolscevico e i Soviet nella rivoluzione russa si
pose in termini diversi, come ha spiegato Trotskij: «(...) la dittatura dei
Soviet è stata possibile solo attraverso la dittatura di partito. Grazie alla
chiarezza di visione teorica e alla sua forte organizzazione politica, il
partito ha dato ai Soviet la possibilità di trasformarsi da informi parlamenti
del lavoro nell’apparato della supremazia del lavoro». L. Trotsky, Terrorismo e comunismo, SugarCo
Edizioni, Milano 1977, pp. 154-155.
[25]
A. Gramsci, Per l’Internazionale
comunista [26 luglio 1919], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 22.
[26]
«Nel 1919-20 noi abbiamo commesso errori gravissimi che in fondo adesso
scontiamo. Non abbiamo, per paura di essere chiamati arrivisti e carrieristi,
costituito una frazione e cercato di organizzarla in tutta Italia. Non abbiamo
voluto dare ai Consigli di fabbrica di Torino un centro direttivo autonomo e
che avrebbe potuto esercitare un’immensa influenza in tutto il paese, per paura
della scissione nei sindacati e di essere troppo prematuramente espulsi dal
partito socialista». Lettera di A. Gramsci ad A. Leonetti del 28 gennaio 1924,
ora in P. Togliatti, La formazione del
gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923.1924, Editori
Riuniti, Roma 1974, p. 183.
[27]
Nella dura polemica della ricostruzione storica di Bordiga, l’articolo citato
viene presentato come una «formulazione estrema di economismo spontaneista». A. Bordiga, Storia della Sinistra comunista 1919-1920, Edizioni Il programma
comunista, Milano 1972, p. 232 (si tratta della ricostruzione di quegli anni
elaborata dal comunista napoletano e pubblicata, dopo la sua morte, senza che
comparisse il nome dell’autore, in coerenza con le norme editoriali della sua
corrente politica).
[28]
A. Gramsci, Lo sviluppo della rivoluzione
cit., p. 30. La critica fondata di Bordiga a queste formulazioni è stata
valorizzata in A. De Clementi, Amadeo
Bordiga, Einaudi, Torino 1971, pp. 105-108.
[29]
In questo senso, risultano approssimative le valutazioni di Livio Maitan
relative alla perfetta consapevolezza che Gramsci avrebbe avuto fra il 1919 e
il ’20 della necessità della rottura con il massimalismo; si veda a questo
proposito L. Maitan, Il marxismo
rivoluzionario di Antonio Gramsci, Nuove Edizioni Internazionali, Milano
1987, p. 15.
[30]
A. Gramsci, La conquista dello Stato cit.,
pp. 17-18.
[31]
La sottolineatura è in A. De Clementi, Amadeo
Bordiga cit., p. 108.
[32]
«In effetti, prese a sé, e non solo nel 1919, ma anche nel 1920, alcune
formulazioni di Gramsci avvalorano simile critica. Si ha in più punti la
sensazione che venga talmente ravvicinata in Gramsci la prospettiva massima
della rivoluzione proletaria, quella della costruzione della società comunista,
da trascurare il momento minimo, cioè il modo della conquista e del trapasso di
potere politico». P. Spriano, “L’Ordine
Nuovo” e i Consigli di fabbrica, Einaudi, Torino 1971, pp. 74-75.
[33]
L’analogia con alcune delle posizioni degli “estremisti” tedeschi e olandesi
viene proposta, in termini certamente esasperati ma non infondati, in A.
Bordiga, Storia della Sinistra comunista
1919-1920 cit., pp. 191-205. D’altro canto, l’influenza della tradizione
sindacalistica e consiliaristica non venne nascosta da Gramsci, che espresse in
più articoli la sua attenzione per pensatori come Georges Sorel e Daniel De
Leon.
[34]
«Il fatto che Bordiga abbia per primo intuito la necessità di creare
un’organizzazione politica autonoma, e che i suoi collaboratori, da Fortichiari
a Repossi a Grieco, abbiano recato un contributo decisivo alla sua
strutturazione, sono i motivi di fondo che faranno del leader napoletano il
segretario del partito a Livorno». G. Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, Edizioni Il Formichiere,
Milano 1976, p. 40.
[35]
A. Gramsci, I Sindacati e la Dittatura
[25 ottobre 1919], in A. Gramsci, L’Ordine
Nuovo 1919-1929 cit., p. 40.
[36]
A. Gramsci, Sindacati e Consigli [11
ottobre 1919], in A. Gramsci, L’Ordine
Nuovo 1919-1929 cit., pp. 35.
[37]
A. Bordiga, Storia della Sinistra
comunista cit., p. 123.
[38]
Su questi mesi di impegno il giudizio il giudizio che Gramsci formulò nel 1925
appare estremamente lucido: «La corrente costituitasi intorno all’“Ordine
Nuovo” e all’“Avanti!” piemontese non aveva suscitato una frazione nazionale e
neppure una vera frazione nei limiti della regione piemontese in cui era sorta
e si era sviluppata. La sua attività fu prevalentemente di massa; i problemi
interni di partito furono da essa sistematicamente collegati con i bisogni e le
aspirazioni della lotta generale di classe, generale della popolazione
lavoratrice piemontese e specialmente del proletariato di Torino: ciò, se diede
ai suoi componenti una migliore preparazione politica e una capacità maggiore
nei suoi singoli membri, anche di massa, a guidare dei movimenti reali, la pose
in condizione di inferiorità nella organizzazione generale del partito». Cit.
in P. Spriano, “L’Ordine Nuovo” e i
Consigli di fabbrica cit., p. 91.
[39]
A. Gramsci, Il Partito e la Rivoluzione
[27 dicembre 1919], in A. Gramsci, L’Ordine
Nuovo 1919-1929 cit., p. 69.
[40]
Si veda le considerazioni molto pertinenti contenute in S. Bologna, Composizione di classe e teoria del partito
alle origini del movimento consiliare, in AA.VV., Operai e stato. Lotte operaie e riforma dello stato capitalistico tra
rivoluzione d’Ottobre e New Deal, Feltrinelli, Milano 1972, p. 31.
[41]
A. Gramsci, Lo sviluppo della rivoluzione
cit., pp. 30-31.
[42]
Nella polemica con Tasca sul rapporto fra Consigli e sindacato, Gramsci si
trovò in più occasioni in sintonia con gli anarchici impegnati nel movimento
dei Consigli, come si può leggere in A. Gramsci, La relazione Tasca e il congresso camerale di Torino [5 giungo
1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., pp.
127-131.
[43]
A. Gramsci, Lo strumento di lavoro[14
febbraio 1920], in A. Gramsci, L’Ordine
Nuovo 1919-1929 cit., p. 79.
[44]
A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo.
L’Italia dal 1918 al 1922, La Nuova Italia, Firenze 1963 [prima ediz.
1950], pp. 11-112.
[45]
A. Leonetti, Introduzione ad A.
Bordiga, A. Gramsci, Dibattito sui
consigli di fabbrica cit., p. 9.
[46]
Si veda A. Bordiga, Storia della Sinistra
comunista cit., p. 131.
[47]
A. Gramsci, Il Partito e la Rivoluzione cit.,
p. 70.
[48]
A. Gramsci, Cronache dell’ «Ordine Nuovo»,
“L’Ordine Nuovo”, 9 ottobre 1920.
[49]
A. Gramsci, Che cosa intendiamo per
“demagogia”? [29 agosto 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 411.
[50]
P. Togliatti, Cronache dell’ «Ordine
Nuovo», “L’Ordine Nuovo”, 19 luglio 1919.
[51]
Si veda A. Gramsci, Programma d’azione
della sezione socialista torinese [24-31 gennaio 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., pp.
392-396.
[52]
Se nel dibattito nazionale sui
Soviet, infatti, Bordiga aveva respinto duramente le posizioni dell’“Ordine
Nuovo” sul movimento dei Consigli, polemizzando contro la loro
caratterizzazione sindacalistica e gradualista, presso il capoluogo piemontese
i suoi sostenitori come Boero e Parodi avevano dato un grosso contributo allo
sviluppo di quel movimento: «La corrente astensionista si era
invischiata nella capitale piemontese coll’esperimento dei Consigli di fabbrica
secondo la dottrina Gramsci, nonostante le critiche aperte di Bordiga». B.
Fortichiari, Comunismo e revisionismo in
Italia cit., p. 54.
[53]
Prendere la fabbrica o prendere il
potere?, “Il Soviet”, 22 febbraio 1920, cit. in A. Bordiga, Storia della Sinistra comunista cit., p.
177.
[54]
«(...) il movimento dei Consigli di fabbrica si era caratterizzato con una
parola d’ordine coraggiosa ma non ancora persuasiva per i più larghi strati
operai eccitati alla lotta: il “controllo operaio sulla produzione”». B.
Fortichiari, Comunismo e revisionismo in
Italia cit., p. 50.
[55]
Come ha scritto Luigi Cortesi, «La
sconfitta dello “sciopero delle lancette”, sancita dal concordato del 24
aprile, segnò l’inizio di una svolta nella storia dell’ “Ordine Nuovo”». L.
Cortesi, Le origini del Pci. Studi e
interventi sulla storia del comunismo in Italia, Franco Angeli, Milano
1999, p. 207.
[56]
A. Bordiga, Storia della Sinistra
comunista cit., pp. 324-327.
[57]
« “L’Ordine Nuovo” non ha una linea definitiva per più di un anno sul tema [del
partito]». P. Spriano, Gramsci e Gobetti
cit., p. 48.
[58]
A. Gramsci, Per un rinnovamento del
Partito socialista [8 maggio 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 122.
[59]
L. Trotskij, Le lezioni dell’Ottobre [1924],
in G. Walter, La Rivoluzione russa,
De Agostini, Novara 1990, pp. 341.
[60]
«Circa il Partito socialista italiano, il II Congresso della Terza
Internazionale riconosce che (...) le proposte presentate dalla sezione
torinese al Consiglio nazionale del partito e pubblicate nella rivista L’Ordine
Nuovo dell’8 maggio 1920 sono in linea con tutti i principi fondamentali della
Terza Internazionale». A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, vol. I, tomo I, Editori Riuniti, Roma 1974,
pp. 223-224.
[61]
D’altro canto, quello fu probabilmente
il primo testo pubblicato dalla rivista torinese cui Lenin dedicò un’attenzione
significativa: sugli ordinovisti egli doveva essere poco documentato (come
conferma, d’altronde, una nota dell’ “Ordine Nuovo” del 9 ottobre 1920), tanto
che nel celeberrimo Estremismo, malattia
infantile del comunismo (pubblicato proprio nella aprile di quell’anno),
essi non vennero nemmeno citati fra le varie tendenze interne al Psi.
[62]
A. Bordiga, Storia della Sinistra
comunista cit., p. 47.
[63]
P. Spriano, Storia del Partito comunista
italiano cit., p. 28.
[64]
La vicenda è ben descritta in G. Berti, I
primi dieci anni di vita del P.C.I. Documenti inediti dell’archivio Angelo
Tasca, Feltrinelli, Milano 1967, pp. 91-92.
[65]
A. Gramsci, Il programma dell’“Ordine
Nuovo” cit., p. 153.
[66]
A. Gramsci, Due rivoluzioni [3 luglio
1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo
1919-1929 cit., pp. 137-138.
[67]
Si veda Il II Congresso della Terza
Internazionale, “L’Ordine Nuovo”, 31 luglio 1920. La rivista pubblicò una
tradizione del riassunto di una parte dei materiali preparatori del congresso
elaborata per il quotidiano francese “L’Humanité”, fra i quali le tesi sul
ruolo del partito comunista elaborate da Zinovev; si può leggere: «Il
proletariato non può fare la rivoluzione se non ha un suo partito politico
indipendente. Ogni lotta di classe è una lotta politica e lo scopo di questa
lotta è la conquista del potere politico (...) Il lavoro nei Soviet deve essere
diretto sistematicamente dal P.C., avanguardia organizzata della classe
operaia; questa deve agire sulla politica dei Soviet. L’idea soviettista si
farà tanto più presto strada, quanto più noi sapremo creare un forte P.C. in
tutti i paesi».
[68]
A. Gramsci, Il Partito Comunista [4
settembre 1920], in A. Gramsci, L’Ordine
Nuovo 1919-1929 cit., pp. 156-157.
[69]
Si veda P. Spriano, L’occupazione delle
fabbriche. Settembre 1920, Einaudi, Torino 1977 [prima ediz. 1964], p.
72.
[70]
Ivi, p. 104.
[71]
P. Spriano, Gramsci e Gobetti cit., p. 142.
[72]
«È compito dell’avanguardia proletaria tener sempre desto nelle masse lo
spirito rivoluzionario, creare la condizione in cui le masse siano predisposte
all’azione, in cui le masse rispondano immediatamente alle parole d’ordine
rivoluzionarie». A. Gramsci, Capacità
politica [24 settembre 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 171.
[73]
G. Bosio, L’occupazione delle fabbriche e
i gruppi dirigenti e di pressione del movimento operaio, “Il Ponte” (numero
monografico intitolato 1920. La grande
speranza. L’occupazione delle fabbriche in Italia), La Nuova Italia , Firenze
1970, p. 1149.
[74]
«Gramsci rammenterà qualche anno dopo di aver dovuto frenare gli operai più
impazienti, decisi a una sortita armata» P. Spriano, Ivi, p. 51.
[75]
A. Gramsci, Capacità politica cit.,
p. 171.
[76]
A. Gramsci, Il Partito Comunista cit.,
p. 163. La delusione provocata dell’inerzia del Psi indusse gli astensionisti
torinesi capeggiati da Boero e Parodi a sollecitare Bordiga a realizzare
immediatamente la scissione dal partito; a questo proposito si veda A. De
Clementi, Amadeo Bordiga cit., p.
136, e G. Bosio, L’occupazione delle
fabbriche cit., pp. 1157-1159.
[77]
V. I. Lenin, Falsi discorsi sulla libertà
[11 dicembre 1920], in V. I. Lenin, Sul
movimento operaio italiano, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 218.
[78]
«Nel manifesto – programma di Milano, redatto da Bordiga – infatti, il pensiero
di Gramsci c’è poco», ha scritto Camilla Ravera in AA.VV., La frazione comunista al convegno di Imola, Editori Riuniti, Roma
1971, p. 30. Tale assenza colpisce, tanto più che le tesi approvate a Mosca sui
consigli di fabbrica avevano confermato una delle principali intuizioni degli
ordinovisti: «(...) la lotta per il controllo operaio sulla produzione porterà
alla lotta per la conquista del potere da parte della classe operaia». A.
Agosti, La Terza Internazionale
cit., p. 264.
[79]
Sui dubbi di Gramsci in questa fase si veda B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia cit.,
p. 131. Lo stesso Gramsci avrebbe poi scritto: «La scissione di Livorno (il
distacco della maggioranza del proletariato italiano dalla Internazionale
comunista) è stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione». Cit. in
P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente
del Partito comunista italiano cit., p. 102.
[80]
G. Berti, I primi dieci anni di vita del
P.C.I. cit., p. 29. Del nucleo
redazionale che aveva fatto sorgere – un anno e mezzo prima – “L’Ordine Nuovo”,
fu il solo Tasca – schierato con i massimalisti Graziadei e Marabini – a
rifiutare l’appiattimento sulle posizioni estremiste degli ex astensionisti del
“Soviet”.
[81]
Nel CC del Pcd’I eletto a Livorno entrarono solo due ordinovisti, Gramsci e
Terracini, su quindici membri; ha spiegato Togliatti che, visti i limiti
dell’influenza di quell’esperienza, non fu nemmeno ipotizzata una presenza
maggiore di compagni di quella provenienza. Si veda P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del
Partito comunista italiano cit., p. 15.
[82]
Fra il 1924 e il 1926 le problematiche al centro della riflessione dell’“Ordine
Nuovo” sarebbero riemerse nell’elaborazione del Pcd’I, la quale trovò
compimento nelle cosiddette Tesi di Lione.
[83]
A. Gramsci, Due rivoluzioni cit., in A.
Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929
cit., pp. 139.
[84]
Ivi, pp. 139-140.
[85]
E. J. Hobsbawm, Gramsci e la teoria
politica marxista, in AA.VV., Politica
e storia in Gramsci cit., p. 50. Lo storico inglese ha valorizzato proprio
l’esperienza del comunista sardo in mezzo agli operai torinesi: «ai suoi tempi
era raro trovare marxisti rivoluzionari che avessero tale esperienza», propria
invece di tanti dirigenti riformisti.
[86]
A. Gramsci, Il Consiglio di fabbrica,
in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929
cit., p. 127.
[87]
Si consideri, a questo proposito, l’analogia dei ragionamenti gramsciani del
1920 con i termini con i quali Trotsky sintetizzò gli insegnamenti della
Comune di Parigi e dell’Ottobre nel 1921: «La difficoltà sta nel collegare
l’organizzazione centralizzata del partito, fusa al suo interno da una
disciplina di ferro, al movimento delle masse con i suoi flussi e riflussi. La
conquista del potere è possibile, certo, solo grazie alla pressione
rivoluzionaria irresistibile delle masse lavoratrici; ma, in tale atto,
l’elemento della preparazione è assolutamente indispensabile (…) Collegare
un’azione accuratamente preparata e il movimento delle masse: ecco il compito
politico strategico della presa del potere». L. Trotsky, Gli insegnamenti della Comune di Parigi [1921], in N. Bucharin, L.
Trotsky, Ottobre 1917: dalla dittatura
dell’imperialismo alla dittatura del proletariato, Iskra edizioni, Milano
1980, p. 121.
[88]
Cit. in P. Spriano, “L’Ordine Nuovo” e i
Consigli di fabbrica cit., p. 23.
[89]
A. Gramsci, Due rivoluzioni cit., p.
139. Furono proprio queste le
capacità rivendicate da Gramsci nel 1924, nella lettera di bilancio di
quell’esperienza già citata: «I nostri meriti sono molto inferiori a quello che
abbiamo dovuto strombazzare per necessità di propaganda e di organizzazione;
abbiamo solo, e certo questo non è piccola cosa, ottenuto di suscitare e
organizzare un forte movimento di massa che ha dato al nostro partito la sola
base reale che esso ha avuto negli anni scorsi».
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