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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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venerdì 1 febbraio 2013

"L'ORDINE NUOVO" NEL BIENNIO ROSSO di Gabriele Donato



Una «parola nuova»
“L’Ordine Nuovo” nel biennio rosso

 Gabriele Donato


Un’analisi equilibrata del ruolo avuto dall’“Ordine Nuovo” nel processo che ha portato alla nascita del Pcd’I passa attraverso un’operazione indispensabile: la revisione delle letture che di quell’esperienza sono state proposte dai dirigenti del Pci nel secondo dopoguerra [1], nel quadro di un’operazione complessivamente finalizzata alla mitizzazione di un Gramsci tramutato in sostenitore ante litteram del nuovo corso togliattiano. Non si tratta, naturalmente, di esaminare la traiettoria di quella rivista «con la matita rossa e blu» [2]; si tratta, invece, di ritornare lucidamente sui passaggi fondamentali della vicenda di quel gruppo con un obiettivo: metterla a disposizione dei militanti che oggi la vogliano studiare finalmente libera dai tanti luoghi comuni che – a partire dagli anni Cinquanta – non hanno smesso di sedimentarsi.
Vale la pena, in altri termini, d’interrogarsi sui livelli di originalità teorica, omogeneità politica e radicamento territoriale di un gruppo a cui tanti protagonisti del movimento operaio italiano del Novecento si sono richiamati: le considerazioni che si propongono seguono un percorso che tocca le questioni elencate per cercare di collegarle in una riflessione finalizzata a evidenziare i meriti effettivi del settimanale in questione, non quelli attribuitigli da quanti vi hanno cercato le nobili origini della tanto celebrata “via italiana al socialismo”[3]. Si tratta di considerazioni che si basano sulla ripresa di tanti articoli comparsi sulla rivista; esse, inoltre, si servono in modo significativo di quanto dell’“Ordine Nuovo” si scrisse fra la seconda metà degli anni Sessanta e gli anni Settanta, fase in cui l’esplosione delle lotte operaie impresse una forte spinta agli studi riguardanti le tensioni rivoluzionarie degli anni successivi alla Prima guerra mondiale. 
           


Gli inizi della rivista

Il primo numero dell’“Ordine Nuovo” uscì il 1 maggio del 1919, e fra i protagonisti di quell’esperienza editoriale il più autorevole era sicuramente Angelo Tasca: coetaneo di Antonio Gramsci, Tasca godeva di una fama sicuramente maggiore, che gli derivava dall’essere stato già protagonista dei dibattiti della Federazione italiana della gioventù socialista (Figs) e, soprattutto, dall’aver mantenuto un atteggiamento coerentemente internazionalista al momento dello scoppio del conflitto mondiale[4]. Il percorso di Gramsci era stato meno lineare ideologicamente, tanto che il suo impegno attivo nel Psi durante la guerra era ripreso – nel 1915 – solo dopo una crisi politica determinata dalle sue simpatie interventiste del ’14[5].
            I principali collaboratori di Tasca furono Gramsci (che divenne rapidamente il vero animatore della rivista), Palmiro Togliatti e Umberto Terracini, ma furono protagonisti dell’esperienza anche altri militanti torinesi collocati in prima linea nelle battaglie socialiste di quei mesi (Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Ottavio Pastore e altri). “L’Ordine Nuovo” cui diedero vita non nacque, tuttavia, come il giornale di una tendenza politica impegnata nella battaglia all’interno del Psi: fu concepito inizialmente come una “Rassegna di cultura socialista” pensata per ospitare interventi di argomenti e orientamenti vari, animati – le parole sono di Gramsci – «da una vaga passione di una vaga cultura proletaria»[6].
            Ci volle un vero e proprio «colpo di Stato redazionale» [7] per farne quel che Gramsci (sostenuto da Terracini e Togliatti) voleva: il giornale dei militanti socialisti più impegnati a Torino nella promozione dei Consigli di fabbrica; il passaggio in questione viene tradizionalmente fatto coincidere con la pubblicazione, alla fine del giugno del 1919, dell’articolo Democrazia operaia[8] di Gramsci. La data merita attenzione: fu proprio l’estate del ‘19 a rappresentare il momento culminante dell’ondata di agitazioni sociali scatenate dalle conseguenze di più di tre anni di guerra: le proteste popolari sembravano moltiplicarsi in un processo di radicalizzazione inarrestabile, e imponevano al Psi di prendere l’iniziativa.
            Non tutte le valutazioni all’interno del partito, tuttavia, convergevano verso l’esaltazione delle opportunità rivoluzionarie che si erano create: prevaleva, al contrario, la preoccupazione. Filippo Turati e i riformisti (alla testa del Gruppo parlamentare) temevano l’idea stessa che si stesse avvicinando la rivoluzione, mentre Giacinto Serrati e i massimalisti (alla testa del partito) temevano che il Psi non fosse ancora pronto per la battaglia decisiva; allora la collocazione degli ordinovisti era interna alla sinistra massimalista [9].
            Al problema rappresentato dall’impreparazione del movimento socialista di fronte alle opportunità rivoluzionarie, Gramsci iniziò allora a rispondere in termini diversi non solo da quelli del capo dei massimalisti Serrati, ma anche da quelli del capo della componente più “rigida” del massimalismo, Amadeo Bordiga: in estrema sintesi, il comunista sardo riteneva che il compito fondamentale dei socialisti non fosse tanto quello di rafforzare il partito in vista dello scontro decisivo con la borghesia e il suo Stato, quanto quello di promuovere l’organizzazione delle strutture consiliari grazie alle quali la classe operaia avrebbe costituito «l’ossatura dello Stato socialista»[10]:

Lo Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata. Collegare tra loro questi istituti, coordinarli e subordinarli in una gerarchia di competenze e di poteri (...) significa creare già fin d’ora una vera e propria democrazia operaia, in contrapposizione efficiente ed attiva con lo Stato borghese, preparata già fin d’ora a sostituire lo Stato borghese (...) È necessario dare una forma e una disciplina permanente a queste energie disordinate e caotiche, assorbirle, comporle e potenziarle, fare della classe proletaria e semiproletaria una società organizzata che si educhi, che si faccia un’esperienza, che acquisti una consapevolezza responsabile dei doveri che incombono alle classi arrivate al potere dello Stato.  

Dal suo punto di vista, sarebbe stata una presenza diffusa e articolata di Consigli di fabbrica a consentire al movimento operaio italiano di “fare come in Russia”, e realizzò (con il sostegno di Togliatti) il “colpo di stato redazionale” ai danni di Tasca proprio per fare del giornale il supporto principale a tale progetto: un progetto nel quale, al fianco dell’originale valorizzazione del «momento costruttivo dell’azione rivoluzionaria»[11], non c’era ancora spazio per una riflessione significativa sul momento della «rottura rivoluzionaria»[12], della presa del potere politico, demandata all’iniziativa del Psi, visto ancora come «il potere supremo che armonizza e conduce alla meta le forze organizzate e disciplinate della classe operaia e contadina»[13].
            Se la scarsa attenzione al momento della rottura rivoluzionaria venne presto indicata come il limite dell’impostazione ordinovista da Bordiga [14], ciò nondimeno la novità di tali formulazioni («l’unica parola nuova»[15], secondo Gramsci, discussa negli incontri di redazione) ebbe un impatto rilevante sul dibattito del movimento operaio in quella fase, e le «piccole, intense, riunioni» della redazione si trasferirono «tra le commissioni interne delle officine»[16]; l’indicazione era chiara: la trasformazione sociale non poteva più essere pensata come una correzione progressiva delle storture del sistema, ma non doveva nemmeno essere concepita come «un atto taumaturgico»[17] grazie al quale sarebbe stato creato, un giorno, «lo Stato proletario».
            Si trattava di una frattura nettissima con tutte le concezioni, dominanti allora nel Psi: la rivoluzione, secondo gli ordinovisti, non doveva essere né temuta, né fatalisticamente attesa; configurandosi essa come «un processo di sviluppo», doveva essere organizzata, e il compito dei rivoluzionari doveva essere quello di consentire a tale processo di assumere «una forma ricca di dinamismo e di possibilità di sviluppo» [18]. In altri termini, essa doveva essere «imposta [grazie all’organizzazione e al disciplinamento delle energie proletarie] e non proposta [grazie alla propaganda astratta]»[19]. Era certamente forte in Gramsci l’esigenza di proporre «una visione della rivoluzione come processo sociale, come prodotto della maturazione delle masse», ma il bersaglio della sua polemica non era affatto la «concezione leninista della rivoluzione», come pure è stato scritto[20].
            Erano stati proprio gli avvenimenti russi, infatti, a rappresentare il modello cui Gramsci aveva ritenuto di ricollegarsi: con l’eccezione di Turati, d’altro canto, era l’intero partito a richiamarsi alle lezioni di quella rivoluzione; nella primavera del 1919, infatti, la Direzione del Psi aveva votato a grande maggioranza l’adesione all’Internazionale comunista fondata dai bolscevichi. Ciò nonostante, la ricezione delle dinamiche della rivoluzione russa era ancora piuttosto approssimativa in Italia, e lo stesso Gramsci, sostenitore entusiasta di Lenin dalla primavera del 1917[21], nel ’19 dimostrava una comprensione ancora parziale di quel che era successo in Russia [22].
            Dal suo punto di vista, l’intuizione dei bolscevichi era stata quella di aver assecondato la spinta soviettista della classe operaia e di aver accettato, con l’adesione all’invenzione proletaria [23] dello Stato dei Consigli, una soluzione consiliare dei problemi posti dalla rivoluzione di febbraio[24]. Nonostante “L’Ordine Nuovo” avesse pubblicato nell’agosto del 1919 la relazione di Lenin sui Soviet svolta al primo Congresso dell’Ic, nell’impegno degli ordinovisti la battaglia per dare al movimento consiliare una direzione coerentemente comunista era ancora trascurata rispetto allo sforzo altrettanto importante di estenderne l’articolazione[25]:

Questo deve essere il compito immediato della frazione comunista del Partito socialista italiano [la grande maggioranza dell’organizzazione, per Gramsci]: promuovere lo sviluppo delle istituzioni proletarie di fabbrica dove esse già esistono o farle nascere dove ancora non sono sorte. Coordinarle localmente e nazionalmente. Mettersi a contatto con le istituzioni simili d’Inghilterra e di Francia, e dal basso, dall’intimo della vita industriale (...) far pullulare le forze comuniste (...).

Tutto lo sforzo dell’“Ordine Nuovo” di quei mesi – sforzo sul quale Gramsci nel 1924 si sarebbe soffermato autocriticamente [26] – andò in quella direzione: al grande lavoro dedicato allo sviluppo del movimento dei Consigli – considerati, nel quadro di una concezione ancora «spontaneistica»[27], come gli spazi all’interno dei quali la posizione dei comunisti si sarebbe affermata «automaticamente»[28] - non si affiancò alcun impegno significativo finalizzato al raggruppamento delle forze effettivamente comuniste presenti nel Psi[ 29].
            Secondo Gramsci, d’altro canto, il partito rivoluzionario c’era già, mentre quel che mancava – nella prospettiva della rivoluzione – era una rete diffusa di «istituzioni di tipo nuovo, di tipo statale, che appunto sostituiranno le istituzioni private e pubbliche dello Stato democratico parlamentare»[30], Stato che – e da questo punto di vista la lezione di Lenin era stata appresa senza incertezze – non doveva essere conquistato, ma doveva essere sostituito.  
           
L’esaltazione del «movimento spontaneo»

Non c’è da stupirsi, pertanto, se in ottobre, al XVI congresso del Psi (così come al VII congresso della Federazione italiana della gioventù socialista) fu proprio la tematica consiliare l’unica sulla quale gli ordinovisti ritennero di doversi distinguere dalla maggioranza massimalista; se Bordiga, abbandonato come ambito d’intervento «il terreno delle lotte operaie»[31], aveva schierato la sua componente “rigida” attorno a un programma fondato sulla proposta dell’astensionismo elettorale e sulla polemica con i riformisti, gli ordinovisti (nemmeno intervenuti al congresso di Bologna) avevano insistito solo sull’importanza dei Consigli di fabbrica, trasformati – è stato lo stesso Spriano a riconoscerlo – in un «vero e proprio mito ideologico»[32], che avvicinava l’elaborazione ordinovista alle tendenze operaistiche presenti allora nel movimento comunista europeo[33].
            Mentre nel Psi, pertanto, il ruolo dei riformisti (rafforzato a seguito dell’affermazione elettorale socialista di novembre, che consentì di eleggere 156 deputati) era diventato il motivo di polemiche durissime, che avevano convinto Bordiga ad avviare la battaglia per costruire un nuovo partito[34], Gramsci e i suoi collaboratori privilegiavano la battaglia sul fronte sindacale, convinti che la forza dei riformisti derivasse dal loro dominio nei sindacati, prima che dalla loro influenza nel Psi: «I Partiti socialisti acquistano sempre più un profilo nettamente rivoluzionario e internazionalista; i Sindacati invece tendono a incarnare la teoria (!) e la tattica dell’opportunismo riformista»[35]. Se la valutazione relativa all’evoluzione rivoluzionaria dei partiti socialisti era evidentemente superficiale e inadeguata, la polemica contro il riformismo sindacale si articolò in una serie di valutazioni solidamente fondate [36]:

Gli operai sentono che il complesso della “loro” organizzazione [la Confederazione generale del lavoro] è diventato tale enorme apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura e al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza della sua missione storica di classe rivoluzionaria. Sentono che la loro volontà di potenza non riesce a esprimersi, in un senso netto e preciso, attraverso le attuali gerarchie istituzionali. 
  
Tramite i Consigli la classe avrebbe potuto dare concretezza alle proprie aspirazioni rivoluzionarie, e nella battaglia per far prevalere questa tesi gli ordinovisti ottennero una serie di risultati significativi: all’inizio di novembre, dopo essere stati protagonisti dell’assemblea torinese dei commissari di reparto[37], sconfissero il leader della Fiom torinese Bruno Buozzi e conquistarono la maggioranza di quella struttura, mentre a metà dicembre si affermarono in occasione del congresso della Camera del lavoro del capoluogo piemontese, consentendo a Tasca di diventarne segretario.
            Si trattava di risultati importanti, ottenuti grazie al consenso che gli ordinovisti avevano saputo conquistarsi in mezzo alla classe operaia [38], con un energico lavoro di organizzazione, non solo di propaganda, sviluppato sul terreno di massa in coerenza con la propria convinzione fondamentale: «il movimento spontaneo, irresistibile»[39] delle masse non doveva essere temuto, ma doveva essere valorizzato nelle sue forme autonome di espressione, e orientato; tale convinzione, analoga a quelle che avevano spinto Rosa Luxemburg una quindicina d’anni prima a esprimere «una valutazione positiva della spontaneità»[40] in antitesi al burocratismo della Spd, venne formulata apertamente [41]:

Promuovere il sorgere e il moltiplicarsi di Consigli operai e contadini, determinarne il collegamento e la sistemazione organica fino all’unità nazionale da raggiungersi in un congresso generale, sviluppare una intensa propaganda per conquistarne la maggioranza, è il compito attuale dei comunisti. L’urgere di questa nuova fioritura di poteri che sale irresistibilmente dalle grandi masse lavoratrici, determinerà l’urto violento delle due classi e l’affermarsi della dittatura proletaria. Se non si gettano le basi del processo rivoluzionario nell’intimità della vita produttiva, la rivoluzione rimarrà uno sterile appello alla volontà, un mito nebuloso (...).  

Ma in seno al gruppo che pubblicava il giornale c’era coesione attorno alle posizioni apertamente consiliariste di Gramsci? Niente affatto, tanto che quando, alla fine del 1919, la sezione socialista di Torino promosse la costituzione di un comitato di studio sui Consigli di fabbrica, Gramsci non venne chiamato a farne parte; prevalse, allora, l’orientamento di Tasca: i Consigli avrebbero dovuto rappresentare un’articolazione del movimento sindacale, e avrebbero dovuto essere promossi nel quadro di un’intesa con le istanze rappresentate dalla Cgdl, quando per Gramsci[42], invece, le potenzialità dei Consigli stavano proprio nella capacità che potevano dimostrare di superare i limiti e le rigidità delle organizzazioni sindacali tradizionali e di diventare, nel momento insurrezionale, veri e propri organismi di potere, alla stregua dei Soviet russi: «la costruzione dei Soviet politici comunisti – Gramsci chiarì bene il passaggio – non può che succedere storicamente a una fioritura e a una prima sistemazione dei Consigli di fabbrica»[43].
            All’inizio del 1920, comunque, i Consigli di fabbrica divennero argomento di discussione nell’intero movimento socialista, smettendo di essere oggetto di dibattito solo a Torino:  il confronto si sviluppò sulle principali riviste del partito, e costrinse i vertici del Psi a prendere ufficialmente posizione; il massimalista Bombacci venne incaricato di redigere un progetto complessivo che orientasse l’attività delle sezioni nell’impegno per la costituzione dei soviet. Tuttavia, il riconoscimento dell’importanza dei Consigli da parte dei massimalisti era puramente formalistico: al di là delle «promesse di rivoluzione» – scrisse Tasca nella sua ricostruzione di quegli anni – «non vi era assolutamente niente»[44]; per costoro «tutto consisteva – ha spiegato Leonetti – nel compilare progetti, statuti, piani, in cui ogni cosa era perfettamente prevista, salvo la realtà in cui la classe che produce e deve liberarsi si muoveva: il luogo di lavoro»[45].
            I massimalisti (in assonanza con Bordiga [46]) sostenevano che i Consigli avrebbero dovuto essere istituiti in vista della presa del potere, come semplice articolazione politica della dittatura del partito, mentre Gramsci considerava assurda la pretesa di «costringere il processo rivoluzionario nelle forme del Partito»[47], cui pure attribuiva la direzione del processo stesso: «abbiamo semplicemente il torto – scrisse nell’autunno del 1920 – di credere che la rivoluzione comunista possano attuarla solo le masse, e non possa attuarla né un segretario di partito né un presidente di repubblica a colpi di decreto»[48].
A essere visto con diffidenza dai massimalisti era proprio il ruolo rivoluzionario che tante pagine dell’“Ordine Nuovo” avevano attribuito agli organismi che erano sorti spontaneamente nelle fabbriche torinesi durante i mesi precedenti e presso i quali gli ordinovisti si erano conquistati una grande autorità, quei Consigli di fabbrica considerati da Gramsci «l’espressione storica di forze e volontà immanenti nella classe operaia di fabbrica»[49]. Si trattava di un’autorità consolidata grazie a un approccio di grande attenzione e sensibilità verso le iniziative della classe, tutt’altro che libresco[50]:

La soluzione non la si trova sui libri, la soluzione sarà preparata dalla discussione e dall’esperienza comune (...) a tutti, noi vogliamo dire: Fate, lavorate, cercate voi; le cose lette sul giornale, ripensatele, vedetele coi vostri occhi, trovatene le applicazioni pratiche che fanno al caso vostro. Si faranno degli errori, ci saranno delle incertezze, ma questa è la vera scuola, la scuola vivente, la concreta scuola di rivoluzionarismo, di autonomia, di libertà.
   
Fu nel corso del dibattito sui Soviet che Gramsci si allontanò definitivamente dal massimalismo, contestato anche per la sudditanza manifestata nei confronti delle manovre dei riformisti[51]: la sua polemica nei confronti del formalismo con il quale Bombacci e Serrati avevano affrontato la questione fu estremamente aspra, e lo spinse ad avvicinarsi agli astensionisti torinesi, che avevano accettato di misurarsi assieme agli ordinovisti con i problemi concreti posti dalle forme nuove di organizzazione operaia che erano venute configurandosi [52].
            Quando esplose, pertanto, lo scontro sui poteri dei commissari di reparto all’interno degli stabilimenti torinesi, la sezione socialista del capoluogo, guidata da ordinovisti e astensionisti e forte dell’influenza maggioritaria in seno alla Fiom, fu costretta ad affrontare praticamente da sola la serrata organizzata contro la classe operaia dagli industriali: lo scontro, iniziato alla fine di marzo, culminò nello sciopero generale convocato in Piemonte a metà aprile. Proprio nel corso dello sciopero generale a Torino avrebbe dovuto svolgersi la riunione della Direzione nazionale del Psi: essa, tuttavia, venne spostata a Milano, e in quell’occasione respinse l’appello di Terracini (l’unico membro legato all’“Ordine Nuovo”, integrato nella Direzione a gennaio) a generalizzare lo scontro aperto in Piemonte e a tramutarlo in un’occasione insurrezionale.
            Se i riformisti avevano avversato apertamente l’appello in questione, i massimalisti avevano deciso di non sostenerlo (e anche Bordiga – pur polemico contro l’inerzia socialista – decise di criticarne l’ispirazione, dopo aver definito le prime occupazioni «vani e continui conati della massa lavoratrice»[53]): il movimento operaio piemontese – schierato grazie all’impegno degli ordinovisti su posizioni più avanzate che altrove [54] – era stato abbandonato dalla Direzione socialista, e ciò indusse gli ordinovisti stessi a prendere apertamente le distanze dal gruppo dirigente del partito, e ad avviare una riconsiderazione complessiva del proprio orientamento [55].  
           


Gli scontri nel Psi

La rottura con i massimalisti venne esplicitata l’8 maggio dalla pubblicazione sull’“Ordine Nuovo” del documento che Gramsci, a nome dell’Esecutivo della sezione socialista torinese, aveva scritto agli inizi di aprile: Per un rinnovamento del Partito socialista. Se da alcuni il documento in questione è stato presentato come il punto più alto raggiunto dall’elaborazione ordinovista di quei mesi, esso presenta – con tutta evidenza – un’altra configurazione: al suo interno, infatti, si trova espressa una prima sintesi compiuta fra le istanze degli ordinovisti e quelle degli astensionisti torinesi, legati da un rapporto di grande collaborazione (nei confronti della quale Bordiga nutriva una forte diffidenza [56]).
            Al centro del documento, infatti, si colloca il tema dell’insufficienza di un partito sollecitato dalle asprezze della lotta di classe ma dimostratosi incapace di coglierne le sfide: se nei mesi precedenti Gramsci aveva insistito nel mettere al centro delle proprie riflessioni la centralità degli organismi consiliari per lo sviluppo degli avvenimenti rivoluzionari [57], nella primavera del 1920 egli dimostrò di aver maturato una consapevolezza nuova della centralità del ruolo del partito rivoluzionario; i toni del documento sono perentori [58]:

L’esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato, che attraverso i suoi nuclei di fabbrica, di sindacato, di cooperativa coordini e accentri nel suo comitato esecutivo centrale tutta l’azione rivoluzionaria del proletariato, è la condizioni fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet; nell’assenza di una tale condizione ogni proposta di esperimento deve essere rigettata come assurda e utile solo ai diffamatori dell’idea soviettista.

Si trattava di parole chiare, che segnavano l’allontanamento degli ordinovisti da quella «concezione feticistica dei soviet considerati come fattori autonomi della rivoluzione» contro la quale Trotskij avrebbe scritto un capitolo importante delle Lezioni dell’ottobre [59]. In estrema sintesi, si può con ragionevolezza affermare che la “conquista” del leninismo coincise in Gramsci con la rielaborazione di alcuni dei tratti fondanti su cui si era basato l’ordinovismo. Non è un caso che dalla sconfitta dello sciopero di aprile in poi, cambiò la parola d’ordine su cui Gramsci insistette con più energia: la priorità non fu più la costituzione dei Consigli, ma la promozione dei «gruppi comunisti» nelle fabbriche, i quali avrebbero avuto il compito di conquistare alle posizioni rivoluzionarie le organizzazioni sindacali e di formare i «Soviet politici» attraverso i quali scatenare la lotta per la dittatura proletaria.
            Il documento in questione merita di essere considerato con attenzione in quanto venne citato da Lenin, nel corso del secondo congresso dell’Internazionale che si tenne fra Pietroburgo e Mosca nel corso dell’estate del 1920, come la sintesi delle posizioni più avanzate presenti all’interno del dibattito del Psi [60]; tale autorevole citazione è stata in più occasioni ricordata come l’esplicitazione del consenso dei vertici del bolscevismo per le posizioni difese fino allora dall’“Ordine Nuovo”, ma l’analisi che abbiamo sviluppato ci consente di evitare conclusioni tanto sbrigative [61]. Fino all’inizio dell’estate del 1920, d’altro canto, i vertici dell’Ic – poco informati sull’Italia [62] – non avevano fatto mancare il proprio sostegno a Serrati e ai massimalisti, e fu solo a giugno che essi si rivolsero apertamente al gruppo dirigente del Psi sollecitandolo con durezza a cacciare i riformisti dal partito.
            L’esito negativo dello sciopero di aprile doveva aver messo i dirigenti dell’Ic (che non disponevano di efficaci canali di comunicazione con l’Italia) nelle condizioni di comprendere i limiti di un partito che, forte della fama che si era conquistato nel corso della guerra, nell’ottobre del 1919 non aveva esitato a votare la propria adesione all’Internazionale (al suo «programma finalistico»[63], prima ancora che alla strategia che proponeva). Nel tentativo di trovare altri interlocutori oltre a Serrati, Lenin ottenne di poter leggere il documento citato grazie al collegamento assicurato da un emissario in Italia [64], e nel corso del congresso intervenne più volte per sollecitare la delegazione italiana (composta da Serrati, Graziadei, Bombacci, Polano e Bordiga) ad abbracciare tali posizioni.
            Il consenso di Lenin rafforzò le posizioni dell’“Ordine Nuovo” in Italia? Niente affatto, perché all’interno del gruppo in questione, nel frattempo, erano esplose tutte le contraddizioni che per mesi si erano accumulate; già a maggio Gramsci e Tasca avevano iniziato a scontrarsi apertamente sulle pagine della rivista, dimostrando la fragilità delle basi politiche dell’accordo che era intercorso fra i due: se il comunista sardo insisteva nel considerare i Consigli uno strumento per sottrarre il movimento operaio all’influenza dei dirigenti sindacali, Tasca ribadì che tali organismi avrebbero dovuto essere inseriti all’interno dell’ambito dell’iniziativa sindacale. Era ormai incolmabile la distanza da questa posizione delle convinzioni di Gramsci, che vale la pena di citare [65]:

I Consigli di fabbrica hanno la loro legge in se stessi, non possono e non debbono accettare la legislazione degli organismi sindacali che appunto essi hanno il fine immediato di rinnovare fondamentalmente. Allo stesso modo: il movimento dei Consigli di fabbrica vuole che le rappresentanza operaie siano emanazione diretta delle masse e siano legate alla massa da un mandato operativo. 

La frattura fra i due non si sarebbe più ricomposta: essa fu fra le cause del riposizionamento dei riformisti ai vertici della Cdl di Torino (grazie all’accordo con Tasca), e provocò poi altre rotture in seno al gruppo ordinovista; ad agosto, infatti, Togliatti, Terracini e Montagnana (sostenuti da Tasca) ruppero con Gramsci e con gli astensionisti per formare, assieme ai massimalisti di Roveda, una nuova maggioranza in seno all’Esecutivo della sezione socialista.
            Poche settimane dopo il prestigioso riconoscimento ottenuto a Mosca, pertanto, Gramsci si ritrovò clamorosamente isolato nel partito a Torino; decise di mettere in piedi un gruppo di “Educazione comunista” assieme a una ventina di operai della sezione, e proprio nel corso dell’estate portò a compimento, in un alcuni scritti di grande valore, la sintesi fra le intuizioni della fase precedente e le acquisizioni determinate dall’esperienza della primavera. La “scoperta” della centralità del ruolo di un partito coerentemente rivoluzionario non significò affatto l’abbandono dell’attenzione dedicata al «movimento cosciente delle masse proletarie rivolto a sostanziare col potere economico il potere politico», né condusse Gramsci alla negazione della loro «autonomia», al ridimensionamento del loro «spirito di iniziativa storica positiva», che anzi continuavano a essere rivendicati come decisivi [66]:

(...) noi abbiamo sempre ritenuto che dovere dei nuclei comunisti esistenti nel Partito sia quello di non cadere nelle allucinazioni particolaristiche (problema dell’astensionismo elettorale, problema della costituzione di un partito “veramente” comunista) ma di lavorare a creare le condizioni di massa in cui sia possibile risolvere tutti i problemi particolari come problemi dello sviluppo organico della rivoluzione comunista. Può infatti esistere un partito comunista (che sia partito d’azione e non accademia di puri dottrinari e di politicanti, che pensano “bene” e si esprimono “bene” in materia di comunismo) se non esiste in mezzo alla massa lo spirito di iniziativa storica e la aspirazione all’autonomia industriale che devono trovare il loro riflesso e la loro sintesi nel Partito comunista?

Nell’imminenza dell’avvio del grande movimento di occupazione delle fabbriche (che sarebbe iniziato proprio alla fine di agosto), l’elaborazione gramsciana era giunta a un livello importante di maturazione, ma il gruppo dell’“Ordine Nuovo” si presentava diviso al proprio interno: esso fu incapace, pertanto, di esercitare nel Psi un’influenza significativa in una fase decisiva per la lotta di classe nel paese, anche a causa di un radicamento che non andava al di là del Piemonte; certo, Tasca dirigeva la Cdl di Torino, Togliatti dirigeva la sezione socialista della stessa città, Terracini stava nella Direzione del Psi, ma il vero animatore della rivista, Gramsci, si era ritrovato in una posizione di sostanziale marginalità.
            Nell’agosto, egli aveva preferito l’isolamento all’accomodamento con le posizioni di Tasca: irriducibilmente ostile, dopo le vicende dell’aprile, alla politica inerte dei massimalisti, già a maggio Gramsci si era presentato come osservatore alla riunione nazionale che la frazione astensionista aveva svolto a Firenze; pur confermando in quell’occasione la propria distanza dall’astensionismo, il comunista sardo aveva ormai le idee chiare sulla priorità della battaglia per la costruzione di un vero partito comunista in Italia.
           


La questione del partito rivoluzionario

Tale consapevolezza si rafforzò alla luce delle indicazioni che provenivano dal secondo congresso dell’Ic, i cui materiali preparatori vennero proposti in forma riassuntiva dall’“Ordine Nuovo” a fine luglio [67]; a settembre, nel pieno dell’occupazione delle fabbriche, fu proprio attorno a quella posizione che “L’Ordine Nuovo” si ricompattò, tanto che venne pubblicato un editoriale significativo intitolato Il Partito Comunista; nel ragionamento di Gramsci, era la questione del partito, non più quella dei Consigli, a rappresentare l’urgenza del momento[68]:

(...) i tratti caratteristici della rivoluzione proletaria possono essere ricercati solo nel Partito della classe operaia, nel Partito Comunista, che esiste e si sviluppa in quanto è l’organizzazione disciplinata della volontà di fondare uno Stato, della volontà di dare una sistemazione proletaria all’ordinamento delle forze fisiche esistenti e di gettare le basi della libertà popolare (...) nella formazione del Partito Comunista è dato cogliere il germe di libertà che avrà il suo sviluppo e la sua piena espansione dopo che lo Stato operaio avrà organizzato le condizioni materiali necessarie.  

Togliatti si riavvicinò a Gramsci, e assieme sostennero la proposta di creare a Torino un Soviet cittadino, nel quale i comunisti potessero concentrare e dirigere, con lo scopo di difendere le occupazioni, le migliori energie proletarie espresse dal movimento consiliare; tutti i dirigenti della sezione socialista, con gli ordinovisti e gli astensionisti in prima linea, s’impegnarono nella lotta, moltiplicando i comizi all’interno degli stabilimenti occupati [69]: la motivazione principale che li animò fu quella di evitare che il movimento rimanesse privo di una direzione politica all’altezza dello scontro, e che gli operai torinesi venissero per l’ennesima volta «lasciati soli»[70].
            Se la fascinazione spontaneista dell’anno precedente, «intrisa di motivi libertari»[71], era stata superata, tanto che Gramsci chiarì che «un movimento rivoluzionario non può fondarsi che sull’avanguardia proletaria»[72], fu anche la «sfiducia totale e definitiva nella classe dirigente socialista»[73] a indurre gli ordinovisti a non insistere per la radicalizzazione dello scontro[74] e a privilegiare l’impegno per il raggruppamento delle avanguardie – «uno stato maggiore operaio»[75], scrisse ancora Gramsci – in vista delle battaglie successive; la decisione, infatti, della Direzione socialista di non prendere le redini del movimento e di lasciarne il controllo ai riformisti che dirigevano la Cgdl convinse definitivamente gli ordinovisti che l’impegno ineludibile della fase era diventato quello per la costruzione di un nuovo partito, coerentemente rivoluzionario, prima ancora di quello per il rilancio e l’ulteriore diffusione delle esperienze consiliari [76]:

I comunisti, che nella lotta metallurgica hanno, con la loro energia e il loro spirito d’iniziativa, salvato da un disastro la classe operaia, devono giungere fino alle ultime conclusioni del loro atteggiamento e della loro azione: salvare la compagine primordiale (ricostruendola) del Partito della classe operaia, dare al proletariato italiano il Partito Comunista che sia capace di organizzare lo Stato operaio e le condizioni per l’avvento della Società comunista.
  
In quest’impegno Togliatti e Terracini si ritrovarono al fianco di Gramsci, nella consapevolezza che questa battaglia avrebbe dovuto essere condotta – in sintonia con le nuove indicazioni provenienti dai vertici dell’Ic, convinti che in Italia si fosse «alla vigilia della rivoluzione»[77] – assieme al vecchio gruppo astensionista legato a Bordiga e ai massimalisti di sinistra disposti a rompere con Serrati: fu proprio Bordiga (affiancato da, Bombacci, Terracini e da Bruno Fortichiari) a capeggiare la nuova frazione comunista che si costituì a Milano a metà ottobre, per preparare la battaglia al nuovo congresso del Psi (che le conclusioni del secondo congresso dell’Ic avevano imposto). In questa nuova frazione l’incidenza politica delle tematiche dell’ordinovismo, nonostante il pieno impegno dei torinesi, fu trascurabile, tanto che nel Manifesto della frazione era quasi completamente assente tutta la problematica consiliare[78].
            Fu incontestabilmente Bordiga (che, in coerenza con i dettati dell’Ic, aveva rinunciato all’astensionismo) a egemonizzare il processo che portò, nei mesi successivi, alla nascita del Pcd’I: tutta la polemica contro i massimalisti di Serrati venne condotta sulla base degli argomenti tipici che avevano caratterizzato la sua battaglia per la scissione iniziata un anno prima, e gli ordinovisti la sostennero senza sentire l’esigenza di distinguersene, tanto che, quando al convegno della frazione che si tenne a Imola si aprì un confronto sulla rigida impostazione bordighiana, Gramsci non ebbe nulla da eccepire in relazione all’approccio alla battaglia congressuale proposto dall’ingegnere napoletano, nonostante nutrisse delle riserve [79]. In nome dell’unità della frazione, Gramsci, e con ancora più convinzione Togliatti e Terracini, si allinearono a Bordiga, e – come ha correttamente scritto Giuseppe Berti – il loro gruppo «si dissolse»[80].
            Quando il settimanale, pertanto, chiuse a dicembre i battenti, per trasformarsi – a partire dal gennaio del 1921 e sotto la direzione di Gramsci – nel quotidiano della frazione comunista che stava per costituirsi in partito, dell’ordinovismo, inteso come elaborazione originale scaturita dalla riflessione sulle lotte operaie torinesi, sembrava essere rimasto ben poco [81]. Un patrimonio estremamente significativo di esperienze di lotta, tuttavia, era stato acquisito: nel corso di tali esperienze si era formata una generazione di militanti (Gramsci su tutti) che, grazie alle battaglie intraprese dall’“Ordine Nuovo”, avevano rotto con la tradizione del socialismo riformista, rifiutando contestualmente d’intendere la militanza rivoluzionaria come una semplice missione di testimonianza proiettata verso l’attesa finalistica della rivoluzione che sarebbe venuta.
            Il problema che quei militanti si erano posti, al di là delle conclusioni cui giunsero in quei mesi e negli anni successivi[82], era uno di quelli che non potevano essere ignorati: come costruire, una volta rotti tutti i legami con i riformisti, un’organizzazione che non fosse «un’accolta di dottrinari»[83], ma che sapesse essere «il partito delle masse che vogliono liberarsi coi propri mezzi, autonomamente, dalla schiavitù politica e industriale»; ciò che Gramsci comprese di dover contribuire a costruire non era «un partito che si serva delle masse per tentare imitazioni eroiche dai giacobini francesi», «ma un partito d’azione comunista rivoluzionaria, un partito che abbia coscienza esatta della missione storica del proletariato e sappia guidare il proletariato all’attuazione della sua missione» [84].
            Questa convinzione maturò grazie a un apprendistato appassionante svolto delle lotte torinesi, «un movimento proletario di massa autentico»[85]: fu proprio la capacità autonoma di sviluppare iniziativa espressa da quel settore di classe operaia a sollecitare la riflessione dell’“Ordine Nuovo”, a costringere quel gruppo di intellettuali socialisti a mettere le proprie intuizioni alla prova nella concretezza dei conflitti che esplodevano; Gramsci lo scrisse con chiarezza: non bastava che le azioni rivoluzionarie, per essere realmente tali, risultassero coerenti con la logica astratta della dottrina; il loro «valore»[86] reale si doveva dimostrare nella loro capacità di aderire effettivamente ai processi di trasformazione, di essere veri e propri «atti di liberazione» all’interno di questi processi.  
            Senza un legame vivo con le masse, non c’è partito che meriti di chiamarsi rivoluzionario: questa fu la certezza che ispirò le pagine dell’“Ordine Nuovo” e che ci consente di collocarne le riflessioni all’interno dell’elaborazione rivoluzionaria che l’Ic venne definendo negli anni dei suoi primi congressi [87]; tale certezza consentì a quel gruppo di comunisti, partiti dall’entusiasmo idealistico per le vittorie della rivoluzione russa, di collocarsi alla testa della classe operaia torinese e di conquistarsi l’attenzione di Lenin; forti di un metodo contrapposto a quello dei «predicatori di esteriorità», dei «freddi alchimisti di parolette»[88], essi vollero e seppero essere «comunisti che non si accontentano di rimasticare monotonamente i primi elementi del comunismo e del materialismo storico, ma che vivono nella realtà della lotta e comprendono la realtà, così com’è, dal punto di vista del materialismo storico e del comunismo»[89].              




NOTE


[1] Si veda due esempi significativi: l’intervento di Palmiro Togliatti al primo Convegno di studi gramsciani tenutosi a Roma nel gennaio 1958, Gramsci e il leninismo (anticipato dagli appunti preparatori intitolati Il leninismo nel pensiero e nell’azione di A. Gramsci), ora in AA.VV., Studi gramsciani, Editori Riuniti, Roma 1969 [prima ediz. 1958], pp. 419-444; l’introduzione di Giorgio Amendola, Rileggendo Gramsci, ad AA.VV., Prassi rivoluzionaria e storicismo in Gramsci, “Critica marxista – Quaderni”, n. 3, Roma 1967, pp. 3-45.
[2] P. Spriano, Fortuna e impopolarità dell’ “Ordine Nuovo”, in P. Spriano, Sulla rivoluzione italiana. Socialisti e comunisti nella storia d’Italia, Einaudi, Torino 1978, p. 76.
[3] Una riproposizione recente di un Gramsci interpretato come anticipatore della proposta togliattiana della “democrazia progressiva” si trova in L. Vinci, Gramsci e Lenin, Togliatti e Gramsci. Continuità e discontinuità, in AA. VV., Seminario su Gramsci, Edizioni Punto Rosso, Milano 2010, pp. 119-137. Le difficoltà insormontabili presenti in un’operazione del genere erano già state rilevate in L. Magri, “Via italiana” e strategia consiliare, in AA.VV., Classe, consigli, partito, Quaderno n. 2 del Manifesto, Alfani editore, Roma 1974.
[4] «Nel periodo in cui Gramsci inizia a farsi strada l’elemento più attivo a Torino è Tasca, il quale era stato molto vivace nel periodo della guerra e nell’anteguerra, molto attivo anche negli scontri con la polizia, sempre in prima linea». B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia. Testimonianza di un militante rivoluzionario, Mimesis, Milano 2006 [prima ediz. 1978], p. 127.
[5] Ancora nel 1919 la sua riflessione politica non appariva del tutto libera dai condizionamenti della sua formazione idealistica, e «una certa influenza crociana» appariva ancora «assai sensibile» – si tratta delle parole di Spriano – nella prima parte del percorso della rivista». P. Spriano, Sulla rivoluzione italiana cit., p. 71.
[6] «(...) ecco cosa fu “L’Ordine Nuovo” nei suoi primi numeri, un disorganismo, il prodotto di un mediocre intellettualismo che zampelloni cercava un approdo ideale e una via per l’azione». A. Gramsci, Il programma dell’“Ordine Nuovo” [14 agosto 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929, Einaudi, Torino 1955, p. 148. Attualmente è disponibile on line una raccolta completa dell’“Ordine Nuovo” all’indirizzo del Centro Gramsci di Educazione e di Cultura: www.centrogramsci.it/ordine%20nuovo.html.
[7] Ibid.
[8] A. Gramsci, Democrazia operaia [21 giugno 1919], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., pp. 10-13.
[9] A Torino Gramsci faceva parte, assieme ai cosiddetti “intransigenti rigidi” Boero e Parodi, della Commissione esecutiva della sezione socialista cittadina
[10] A. Gramsci, Democrazia operaia cit., pp. 10-11.
[11] P. Spriano, Gramsci e Gobetti. Introduzione alla vita e alle opere, Einaudi, Torino1977, p. 139.
[12] Si veda L. Magri, “Via italiana” e strategia consiliare cit., p. 90.
[13] A. Gramsci, Democrazia operaia cit., p. 11.
[14] «L’approssimarsi della messa in pratica del programma Socialista non deve essere considerato senza tenere sempre presente la barriera che ce ne separa nettamente nel tempo; lo stabilirsi di una condizione pregiudiziale; cioè la conquista di tutto il potere politico alla classe lavoratrice, problema che precede l’altro (...)». A. Bordiga, L’Ordine Nuovo, in A. Bordiga, A. Gramsci, Dibattito sui consigli di fabbrica, Edizioni Savelli, Roma 1973, p. 21.
[15] A. Gramsci, Il programma dell’“Ordine Nuovo” cit., p. 146.
[16] P. Spriano, Gramsci e Gobetti cit., p. 46.
[17] A. Gramsci, La conquista dello Stato [12 luglio 1919], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 18.
[18] Ivi, p. 18.
[19] A. Gramsci, Lo sviluppo della rivoluzione [13 settembre 1919], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 27.
[20] L. Magri, “Via italiana” e strategia consiliare cit., p. 77.
[21] A. Gramsci, La rivoluzione contro il «Capitale», “Avanti!”, 24 novembre 1917. Ha sottolineato Spriano che Gramsci è stato «uno dei pochi, nel 1917, tra i socialisti italiani, a non pronosticare alla rivoluzione russa la sorte tragica della Comune parigina». P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1967, p. 13.
[22] Valentino Gerratana ha correttamente definito come «idealizzata» la rappresentazione che Gramsci diede in questa fase della rivoluzione russa. V. Gerratana, Gramsci come pensatore rivoluzionario, in AA.VV., Politica e storia in Gramsci, vol. II, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 75.
[23] Si veda l’articolo di A. Gramsci, Maggioranza e minoranza nell’azione socialista [15 maggio 1919], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., pp. 371-373.
[24] Il rapporto fra il Partito bolscevico e i Soviet nella rivoluzione russa si pose in termini diversi, come ha spiegato Trotskij: «(...) la dittatura dei Soviet è stata possibile solo attraverso la dittatura di partito. Grazie alla chiarezza di visione teorica e alla sua forte organizzazione politica, il partito ha dato ai Soviet la possibilità di trasformarsi da informi parlamenti del lavoro nell’apparato della supremazia del lavoro». L. Trotsky, Terrorismo e comunismo, SugarCo Edizioni, Milano 1977, pp. 154-155. 
[25] A. Gramsci, Per l’Internazionale comunista [26 luglio 1919], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 22.
[26] «Nel 1919-20 noi abbiamo commesso errori gravissimi che in fondo adesso scontiamo. Non abbiamo, per paura di essere chiamati arrivisti e carrieristi, costituito una frazione e cercato di organizzarla in tutta Italia. Non abbiamo voluto dare ai Consigli di fabbrica di Torino un centro direttivo autonomo e che avrebbe potuto esercitare un’immensa influenza in tutto il paese, per paura della scissione nei sindacati e di essere troppo prematuramente espulsi dal partito socialista». Lettera di A. Gramsci ad A. Leonetti del 28 gennaio 1924, ora in P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923.1924, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 183. 
[27] Nella dura polemica della ricostruzione storica di Bordiga, l’articolo citato viene presentato come una «formulazione estrema di economismo spontaneista». A. Bordiga, Storia della Sinistra comunista 1919-1920, Edizioni Il programma comunista, Milano 1972, p. 232 (si tratta della ricostruzione di quegli anni elaborata dal comunista napoletano e pubblicata, dopo la sua morte, senza che comparisse il nome dell’autore, in coerenza con le norme editoriali della sua corrente politica).
[28] A. Gramsci, Lo sviluppo della rivoluzione cit., p. 30. La critica fondata di Bordiga a queste formulazioni è stata valorizzata in A. De Clementi, Amadeo Bordiga, Einaudi, Torino 1971, pp. 105-108.
[29] In questo senso, risultano approssimative le valutazioni di Livio Maitan relative alla perfetta consapevolezza che Gramsci avrebbe avuto fra il 1919 e il ’20 della necessità della rottura con il massimalismo; si veda a questo proposito L. Maitan, Il marxismo rivoluzionario di Antonio Gramsci, Nuove Edizioni Internazionali, Milano 1987, p. 15.
[30] A. Gramsci, La conquista dello Stato cit., pp. 17-18.
[31] La sottolineatura è in A. De Clementi, Amadeo Bordiga cit., p. 108.  
[32] «In effetti, prese a sé, e non solo nel 1919, ma anche nel 1920, alcune formulazioni di Gramsci avvalorano simile critica. Si ha in più punti la sensazione che venga talmente ravvicinata in Gramsci la prospettiva massima della rivoluzione proletaria, quella della costruzione della società comunista, da trascurare il momento minimo, cioè il modo della conquista e del trapasso di potere politico». P. Spriano, “L’Ordine Nuovo” e i Consigli di fabbrica, Einaudi, Torino 1971, pp. 74-75.
[33] L’analogia con alcune delle posizioni degli “estremisti” tedeschi e olandesi viene proposta, in termini certamente esasperati ma non infondati, in A. Bordiga, Storia della Sinistra comunista 1919-1920 cit., pp. 191-205. D’altro canto, l’influenza della tradizione sindacalistica e consiliaristica non venne nascosta da Gramsci, che espresse in più articoli la sua attenzione per pensatori come Georges Sorel e Daniel De Leon. 
[34] «Il fatto che Bordiga abbia per primo intuito la necessità di creare un’organizzazione politica autonoma, e che i suoi collaboratori, da Fortichiari a Repossi a Grieco, abbiano recato un contributo decisivo alla sua strutturazione, sono i motivi di fondo che faranno del leader napoletano il segretario del partito a Livorno». G. Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, Edizioni Il Formichiere, Milano 1976, p. 40.
[35] A. Gramsci, I Sindacati e la Dittatura [25 ottobre 1919], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 40.
[36] A. Gramsci, Sindacati e Consigli [11 ottobre 1919], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., pp. 35.
[37] A. Bordiga, Storia della Sinistra comunista cit., p. 123.
[38] Su questi mesi di impegno il giudizio il giudizio che Gramsci formulò nel 1925 appare estremamente lucido: «La corrente costituitasi intorno all’“Ordine Nuovo” e all’“Avanti!” piemontese non aveva suscitato una frazione nazionale e neppure una vera frazione nei limiti della regione piemontese in cui era sorta e si era sviluppata. La sua attività fu prevalentemente di massa; i problemi interni di partito furono da essa sistematicamente collegati con i bisogni e le aspirazioni della lotta generale di classe, generale della popolazione lavoratrice piemontese e specialmente del proletariato di Torino: ciò, se diede ai suoi componenti una migliore preparazione politica e una capacità maggiore nei suoi singoli membri, anche di massa, a guidare dei movimenti reali, la pose in condizione di inferiorità nella organizzazione generale del partito». Cit. in P. Spriano, “L’Ordine Nuovo” e i Consigli di fabbrica cit., p. 91. 
[39] A. Gramsci, Il Partito e la Rivoluzione [27 dicembre 1919], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 69.
[40] Si veda le considerazioni molto pertinenti contenute in S. Bologna, Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movimento consiliare, in AA.VV., Operai e stato. Lotte operaie e riforma dello stato capitalistico tra rivoluzione d’Ottobre e New Deal, Feltrinelli, Milano 1972, p. 31.
[41] A. Gramsci, Lo sviluppo della rivoluzione cit., pp. 30-31.
[42] Nella polemica con Tasca sul rapporto fra Consigli e sindacato, Gramsci si trovò in più occasioni in sintonia con gli anarchici impegnati nel movimento dei Consigli, come si può leggere in A. Gramsci, La relazione Tasca e il congresso camerale di Torino [5 giungo 1920], in  A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., pp. 127-131.
[43] A. Gramsci, Lo strumento di lavoro[14 febbraio 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 79.
[44] A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal 1918 al 1922, La Nuova Italia, Firenze 1963 [prima ediz. 1950], pp. 11-112.
[45] A. Leonetti, Introduzione ad A. Bordiga, A. Gramsci, Dibattito sui consigli di fabbrica cit., p. 9.
[46] Si veda A. Bordiga, Storia della Sinistra comunista cit., p. 131.
[47] A. Gramsci, Il Partito e la Rivoluzione cit., p. 70.
[48] A. Gramsci, Cronache dell’ «Ordine Nuovo», “L’Ordine Nuovo”, 9 ottobre 1920.
[49] A. Gramsci, Che cosa intendiamo per “demagogia”? [29 agosto 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 411.
[50] P. Togliatti, Cronache dell’ «Ordine Nuovo», “L’Ordine Nuovo”, 19 luglio 1919.
[51] Si veda A. Gramsci, Programma d’azione della sezione socialista torinese [24-31 gennaio 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., pp. 392-396.
[52] Se nel dibattito nazionale sui Soviet, infatti, Bordiga aveva respinto duramente le posizioni dell’“Ordine Nuovo” sul movimento dei Consigli, polemizzando contro la loro caratterizzazione sindacalistica e gradualista, presso il capoluogo piemontese i suoi sostenitori come Boero e Parodi avevano dato un grosso contributo allo sviluppo di quel movimento: «La corrente astensionista si era invischiata nella capitale piemontese coll’esperimento dei Consigli di fabbrica secondo la dottrina Gramsci, nonostante le critiche aperte di Bordiga». B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia cit., p. 54.
[53] Prendere la fabbrica o prendere il potere?, “Il Soviet”, 22 febbraio 1920, cit. in A. Bordiga, Storia della Sinistra comunista cit., p. 177.
[54] «(...) il movimento dei Consigli di fabbrica si era caratterizzato con una parola d’ordine coraggiosa ma non ancora persuasiva per i più larghi strati operai eccitati alla lotta: il “controllo operaio sulla produzione”». B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia cit., p. 50.
[55] Come ha scritto Luigi Cortesi, «La sconfitta dello “sciopero delle lancette”, sancita dal concordato del 24 aprile, segnò l’inizio di una svolta nella storia dell’ “Ordine Nuovo”». L. Cortesi, Le origini del Pci. Studi e interventi sulla storia del comunismo in Italia, Franco Angeli, Milano 1999, p. 207.
[56] A. Bordiga, Storia della Sinistra comunista cit., pp. 324-327.
[57] « “L’Ordine Nuovo” non ha una linea definitiva per più di un anno sul tema [del partito]». P. Spriano, Gramsci e Gobetti cit., p. 48.
[58] A. Gramsci, Per un rinnovamento del Partito socialista [8 maggio 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 122.
[59] L. Trotskij, Le lezioni dell’Ottobre [1924], in G. Walter, La Rivoluzione russa, De Agostini, Novara 1990, pp. 341.
[60] «Circa il Partito socialista italiano, il II Congresso della Terza Internazionale riconosce che (...) le proposte presentate dalla sezione torinese al Consiglio nazionale del partito e pubblicate nella rivista L’Ordine Nuovo dell’8 maggio 1920 sono in linea con tutti i principi fondamentali della Terza Internazionale». A. Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria, vol. I, tomo I, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 223-224. 
[61] D’altro canto, quello fu probabilmente il primo testo pubblicato dalla rivista torinese cui Lenin dedicò un’attenzione significativa: sugli ordinovisti egli doveva essere poco documentato (come conferma, d’altronde, una nota dell’ “Ordine Nuovo” del 9 ottobre 1920), tanto che nel celeberrimo Estremismo, malattia infantile del comunismo (pubblicato proprio nella aprile di quell’anno), essi non vennero nemmeno citati fra le varie tendenze interne al Psi.
[62] A. Bordiga, Storia della Sinistra comunista cit., p. 47.  
[63] P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano cit., p. 28.
[64] La vicenda è ben descritta in G. Berti, I primi dieci anni di vita del P.C.I. Documenti inediti dell’archivio Angelo Tasca, Feltrinelli, Milano 1967, pp. 91-92.
[65] A. Gramsci, Il programma dell’“Ordine Nuovo” cit., p. 153.
[66] A. Gramsci, Due rivoluzioni [3 luglio 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., pp. 137-138.
[67] Si veda Il II Congresso della Terza Internazionale, “L’Ordine Nuovo”, 31 luglio 1920. La rivista pubblicò una tradizione del riassunto di una parte dei materiali preparatori del congresso elaborata per il quotidiano francese “L’Humanité”, fra i quali le tesi sul ruolo del partito comunista elaborate da Zinovev; si può leggere: «Il proletariato non può fare la rivoluzione se non ha un suo partito politico indipendente. Ogni lotta di classe è una lotta politica e lo scopo di questa lotta è la conquista del potere politico (...) Il lavoro nei Soviet deve essere diretto sistematicamente dal P.C., avanguardia organizzata della classe operaia; questa deve agire sulla politica dei Soviet. L’idea soviettista si farà tanto più presto strada, quanto più noi sapremo creare un forte P.C. in tutti i paesi».  
[68] A. Gramsci, Il Partito Comunista [4 settembre 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., pp. 156-157. 
[69] Si veda P. Spriano, L’occupazione delle fabbriche. Settembre 1920, Einaudi, Torino 1977 [prima ediz. 1964], p. 72. 
[70] Ivi, p. 104.
[71] P. Spriano, Gramsci e  Gobetti cit., p. 142.
[72] «È compito dell’avanguardia proletaria tener sempre desto nelle masse lo spirito rivoluzionario, creare la condizione in cui le masse siano predisposte all’azione, in cui le masse rispondano immediatamente alle parole d’ordine rivoluzionarie». A. Gramsci, Capacità politica [24 settembre 1920], in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 171. 
[73] G. Bosio, L’occupazione delle fabbriche e i gruppi dirigenti e di pressione del movimento operaio, “Il Ponte” (numero monografico intitolato 1920. La grande speranza. L’occupazione delle fabbriche in Italia), La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 1149.
[74] «Gramsci rammenterà qualche anno dopo di aver dovuto frenare gli operai più impazienti, decisi a una sortita armata» P. Spriano, Ivi, p. 51.
[75] A. Gramsci, Capacità politica cit., p. 171. 
[76] A. Gramsci, Il Partito Comunista cit., p. 163. La delusione provocata dell’inerzia del Psi indusse gli astensionisti torinesi capeggiati da Boero e Parodi a sollecitare Bordiga a realizzare immediatamente la scissione dal partito; a questo proposito si veda A. De Clementi, Amadeo Bordiga cit., p. 136, e G. Bosio, L’occupazione delle fabbriche cit., pp. 1157-1159.  
[77] V. I. Lenin, Falsi discorsi sulla libertà [11 dicembre 1920], in V. I. Lenin, Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 218.
[78] «Nel manifesto – programma di Milano, redatto da Bordiga – infatti, il pensiero di Gramsci c’è poco», ha scritto Camilla Ravera in AA.VV., La frazione comunista al convegno di Imola, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 30. Tale assenza colpisce, tanto più che le tesi approvate a Mosca sui consigli di fabbrica avevano confermato una delle principali intuizioni degli ordinovisti: «(...) la lotta per il controllo operaio sulla produzione porterà alla lotta per la conquista del potere da parte della classe operaia». A. Agosti, La Terza Internazionale cit., p. 264.
[79] Sui dubbi di Gramsci in questa fase si veda B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia cit., p. 131. Lo stesso Gramsci avrebbe poi scritto: «La scissione di Livorno (il distacco della maggioranza del proletariato italiano dalla Internazionale comunista) è stata senza dubbio il più grande trionfo della reazione». Cit. in P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano cit., p. 102.
[80] G. Berti, I primi dieci anni di vita del P.C.I. cit., p. 29. Del nucleo redazionale che aveva fatto sorgere – un anno e mezzo prima – “L’Ordine Nuovo”, fu il solo Tasca – schierato con i massimalisti Graziadei e Marabini – a rifiutare l’appiattimento sulle posizioni estremiste degli ex astensionisti del “Soviet”.
[81] Nel CC del Pcd’I eletto a Livorno entrarono solo due ordinovisti, Gramsci e Terracini, su quindici membri; ha spiegato Togliatti che, visti i limiti dell’influenza di quell’esperienza, non fu nemmeno ipotizzata una presenza maggiore di compagni di quella provenienza. Si veda P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano cit., p. 15.
[82] Fra il 1924 e il 1926 le problematiche al centro della riflessione dell’“Ordine Nuovo” sarebbero riemerse nell’elaborazione del Pcd’I, la quale trovò compimento nelle cosiddette Tesi di Lione.
[83] A. Gramsci, Due rivoluzioni cit., in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., pp. 139.
[84] Ivi, pp. 139-140.
[85] E. J. Hobsbawm, Gramsci e la teoria politica marxista, in AA.VV., Politica e storia in Gramsci cit., p. 50. Lo storico inglese ha valorizzato proprio l’esperienza del comunista sardo in mezzo agli operai torinesi: «ai suoi tempi era raro trovare marxisti rivoluzionari che avessero tale esperienza», propria invece di tanti dirigenti riformisti.
[86] A. Gramsci, Il Consiglio di fabbrica, in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1929 cit., p. 127.
[87] Si consideri, a questo proposito, l’analogia dei ragionamenti gramsciani del 1920 con i termini con i quali Trotsky sintetizzò gli insegnamenti della Comune di Parigi e dell’Ottobre nel 1921: «La difficoltà sta nel collegare l’organizzazione centralizzata del partito, fusa al suo interno da una disciplina di ferro, al movimento delle masse con i suoi flussi e riflussi. La conquista del potere è possibile, certo, solo grazie alla pressione rivoluzionaria irresistibile delle masse lavoratrici; ma, in tale atto, l’elemento della preparazione è assolutamente indispensabile (…) Collegare un’azione accuratamente preparata e il movimento delle masse: ecco il compito politico strategico della presa del potere». L. Trotsky, Gli insegnamenti della Comune di Parigi [1921], in N. Bucharin, L. Trotsky, Ottobre 1917: dalla dittatura dell’imperialismo alla dittatura del proletariato, Iskra edizioni, Milano 1980, p. 121.
[88] Cit. in P. Spriano, “L’Ordine Nuovo” e i Consigli di fabbrica cit., p. 23.
[89] A. Gramsci, Due rivoluzioni cit., p. 139. Furono proprio queste le capacità rivendicate da Gramsci nel 1924, nella lettera di bilancio di quell’esperienza già citata: «I nostri meriti sono molto inferiori a quello che abbiamo dovuto strombazzare per necessità di propaganda e di organizzazione; abbiamo solo, e certo questo non è piccola cosa, ottenuto di suscitare e organizzare un forte movimento di massa che ha dato al nostro partito la sola base reale che esso ha avuto negli anni scorsi».



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