TRIESTE, COLONIA DI UNA COLONIA
di
Norberto Fragiacomo
Dopo il secolo d’oro, l’Ottocento, è arrivato per Trieste un secolo duro, anzi durissimo, costellato – in seguito all’annessione italiana del ’18 – di fallimenti, conflitti e drammi sociali.
Nel primo dopoguerra, la rottura del cordone ombelicale con la Mitteleuropa provoca, oltre ad un intristimento generale (ben descritto da Adolfo Leghissa nelle pagine di “Un triestino alla ventura”), la crisi del porto, delle compagnie di navigazione – dirottate su Genova – e della borghesia imprenditoriale, cui il fascismo tenta di porre rimedio industrializzando la città coi soldi pubblici; le politiche razziste portate avanti dal regime scavano però un fossato tra la componente italiana e quella slovena, innaffiando i semi di una discordia che, nel quadro della successiva, rapida decadenza economica e di un costante disinteresse da parte dei governi repubblicani, impedirà ai triestini di fare fronte comune per la salvaguardia dei propri interessi.
Degradata a figura retorica (“la cara al cuore” ecc.), Trieste languisce ai margini di un Paese che, nel ‘15, l’ha usata come pretesto per tradire un’alleanza, e mostra adesso totale indifferenza per il destino del suo scalo e delle sue fabbriche, che serrano i battenti l’una dopo l’altra. Capita, nonostante tutto, che i triestini alzino la testa: la chiusura del Cantiere S. Marco, decisa a Roma nel 1966, provoca un’infiammata rivolta operaia, culminata in durissimi scontri con la polizia. Sarà un fuoco di paglia, un moto d’orgoglio cui presto subentrerà la rassegnazione: non ci saranno battaglie per l’Aquila, la Vetrobel, tante altre realtà condannate.
“Trieste che muore, / Trieste appoggiata sul mare”, verrebbe da chiosare, rubando a Venezia i versi scritti per lei da Guccini.
Solo un evento straordinario, la firma del Trattato di Osimo con la temutissima Yugoslavia (novembre ’75) riesce a compattare i giuliani, senza distinzione di nazionalità e credo politico: la paventata istituzione di una zona franca interconfinaria (ZFIC) sul Carso atterrisce egualmente italiani e sloveni. I primi temono soprattutto la slavizzazione della città; i secondi – che pure non vedono di buon occhio l’invasione di lavoratori provenienti dalle repubbliche meridionali – sottolineano i rischi per l’ambiente e il territorio avito.
Stavolta i triestini si fanno sentire, in piazza ma anche nelle urne: la Lista per Trieste, nata nei salotti di ciò che resta della borghesia illuminata, spazza via i partiti tradizionali, DC in testa. La primavera non dura a lungo (la LpT, cui avevano aderito anche esponenti socialisti e comunisti, finirà i suoi giorni ridotta a pro senectute di Forza Italia, autonomia e zona franca integrale rimarranno un miraggio), ma perlomeno l’altopiano sarà salvo.
Da allora tanto tempo è passato, e parecchie cose sono cambiate (alcune in meglio, altre in peggio), ma non l’atteggiamento delle autorità centrali nei confronti della città.
La situazione nazionale è ben nota: al malgoverno Berlusconi è subentrata, con il contributo fattivo del Presidente della Repubblica, una pattuglia di sedicenti “tecnici” - in realtà portabandiera del neoliberismo speculativo -, il cui unico compito consiste nell’imbandire la tavola dei finanzieri con gli avanzi succulenti del sistema Italia (siderurgia, cantieristica, enti previdenziali, sanità ecc.). Fingendo di combattere la crisi la si cronicizza, tagliando tutto: com’è inevitabile, le scelte dell’esecutivo causano danni maggiori nelle zone depresse, decentrate, e laddove è presente la grande impresa (assistita).
Sin dai tempi dell’impero asburgico l’economia triestina vive di sussidi; inoltre, la posizione eccentrica della città rispetto al territorio italiano si è tradotto, negli anni, in un progressivo smantellamento di infrastrutture e collegamenti, testimoniato dal fatto che la rete ferroviaria nazionale termina a Mestre (la ventilata soppressione del treno notturno Trieste-Roma è soltanto la velenosa ciliegina sulla torta).
Nel breve volgere di quarant’anni la nostra città ha perso quasi il 30% della popolazione, passando da 280 a 200 mila abitanti, e basta una puntata in piazza della Borsa – dove due lavoratori della Sertubi proseguono un disperato sciopero della fame – per rendersi conto che il futuro è nerissimo… anzi, manca del tutto. Alla Sertubi in 150 rischiano il posto; in caso di fallimento della Duke, altri 57 lavoratori rimarrebbero a casa; se sul fronte dell’Alcatel c’è una schiarita, non va dimenticata la moria di piccole imprese – denunciata dalla segreteria provinciale della Fiom – che fa da silenzioso preludio all’esplosione di quello che politicanti irresponsabili definiscono il “bubbone Ferriera”, importante datore di lavoro (mezzo migliaio di occupati, più l’indotto) che nessuno sa con chi e con che cosa sostituire. In questa cornice sembra la provocazione di un dadaista l’idea lanciata da un sindacalista della Failms di far assumere gli esuberi della Sertubi dall’agonizzante stabilimento servolano.
I numeri complessivi danno i brividi: secondo Adriano Sincovich (CGIL) dal 2009 ad oggi si sono persi 6 mila (!) posti di lavoro, e considerato che il settore pubblico non assume più neanche un usciere (anzi, le ultime notizie parlano di riduzioni di personale da parte di Trieste Trasporti, a causa del taglio dei trasferimenti al Comune, con gravi conseguenze anche per l’utenza) e che i prepensionamenti appartengono all’età dell’oro del welfare, l’alternativa per i triestini di ogni età è fra l’emigrazione e la miseria.
Ci sarebbero i punti franchi, decisivi per il rilancio dei traffici portuali, ma “porto” sembra ormai diventata una parolaccia, una bestemmia, come se all’interno dei recinti doganali si svolgessero, anziché proficue attività lavorative, orge di gruppo e sabba infernali. Meglio allora costruire un Superporto S. Rocco, nuova città fantasma accanto a quella che, moribonda, si sta accasciando sui colli. Quanto al turismo, abbiamo già dato conto della situazione di degrado in cui versano alcuni musei cittadini; la conferma è giunta, in mesi recenti, dalla malinconica vicenda del parco riarso di Miramare.
Per risollevarci avremmo disperato bisogno di fondi pubblici; il problema è che, grazie a Monti e al suo fiscal compact (40-50 miliardi di risparmi annui, da qui all’eternità), presto la periferia si ritroverà senza un euro.
Sarebbe ingiusto però asserire che mamma Italia si sia scordata di noi. Al contrario: per mostrarci il suo affetto, ha deciso di farci un regalo. Il cadeau si chiama rigassificatore, un impianto che serve a riportare un fluido, che in natura si presenta sotto forma di gas, dallo stato liquido a quello gassoso. Esistono varie specie di rigassificatori: i più moderni sono vere e proprie navi, poi ci sono quelli di alto mare (ma fissi), e infine quelli terrestri, i più antiquati ma anche i più economici da costruire e gestire. Chissà per quale ragione (v. supra) il nostro sarà realizzato sulla terraferma, nel sito delle vecchie saline di Zaule.
Qualcuno dice che gli effetti sull’ecosistema del golfo sarebbero devastanti (addio alla fauna ittica, non solamente alla sagra del sardòn!), qualcun altro che il traffico delle navi gasiere, che trasportano il gas in forma liquida, ammazzerebbe quello portuale; i più pessimisti, infine, ricordano l’attentato del ’72 ai depositi Siot di S. Dorligo, e affermano che accettare il rigassificatore equivale a dimenticare una bomba atomica nel garage di casa. Eccesso di allarmismo? È probabile, ma nessun impianto è sicuro al 100%, e posizionarne uno simile nel bel mezzo della quarta provincia italiana per densità di popolazione sembra francamente un azzardo.
La pensano così anche le amministrazioni locali (provincia e comuni), ma il loro no è stato bellamente ignorato dalla regione e non turberà i sonni del Governo Monti, che tiene molto di più ai profitti della multinazionale Gas Natural che alla sicurezza e al benessere di una popolazione “coloniale”. Sospetti figli del pregiudizio? Veritas se ipsa defendet, tuonerebbe l’arpinate: la decisione di pubblicare gli avvisi di esproprio su due quotidiani che i triestini notoriamente non leggono (la Stampa e il Messaggero Veneto) è chiarissimo indizio di una malafede equamente spartita tra impresa multinazionale e governo italiano.
Per Monti, Passera e Tondo, dunque, il rigassificatore s’ha da fare, anche a costo – per l’ultimo dei tre – di perdere voti a Trieste. Evidentemente in ballo c’è qualcosa di grosso, e di appetibile – ma non per noi giuliani.
Quel maledetto impianto potremmo accoglierlo solo se ci venisse credibilmente garantito, nell’ordine: 1) che un attentato terroristico (perché diciamolo chiaramente: l’obiettivo è facilmente riconoscibile e “pagante”!) non metterebbe a repentaglio la vita della popolazione residente; 2) che nessun impatto avrebbe il rigassificatore sull’attività portuale, né 3) sull’habitat marino; 4) che lo stabilimento risolverebbe i problemi occupazionali della provincia; 5) che le royalties per il comune ed i benefici economici per la cittadinanza sarebbero ingenti.
Disperiamo che simili prove ci possano venir fornite: Gas Natural ha sempre eluso le domande poste, e l’atteggiamento di regione e governo è – ad essere benevoli – poco limpido. L’argomento, spesso utilizzato, che il rigassificatore “serve al Paese” ci lascia freddi: nei confronti dell’Italia ipocrita, inetta e matrigna Trieste non ha alcun debito di riconoscenza. “Maledeta quela barca che li ga portai”, diceva mio nonno – ed io, alla luce degli avvenimenti storici, sottoscrivo il suo lapidario giudizio.
Si tratta quindi di organizzare una risoluta risposta di massa, come avvenne a metà degli anni settanta. Eravamo molti di più, allora – ma, nonostante la momentanea convergenza d’interessi tra maggioranza e minoranza, eravamo anche più divisi da antipatie e rancori di quanto non si sia oggi.
Calpestando la volontà e le aspirazioni delle comunità locali, il governo delle banche, apparentemente invincibile, sta scherzando col fuoco: non basterebbe la violenza dei battaglioni mobili, oggi, per soffocare centinaia di focolai di protesta.
Più che partecipando alla liturgia delle primarie o affidandosi a pittoreschi ciarlatani, il Popolo sovrano, esiliato nel suo stesso Paese, può “fermare il declino” scendendo in piazza per almeno tre buone cause (sicurezza, ambiente e difesa del lavoro), dopo aver smesso di credere alle fandonie della propaganda di regime.
C’era una volta Trieste
Grote ghe iera anca quela volta,
omini e mule, ma mancava ‘l vin;
leger no se saveva e nanche scriver:
do pupoli sul muro, tut’al più.
Per un de noi no saria propio vita
corerghe incontro sbrindeladi a l’orso,
senza un tocio in estate un calicèto,
la gita coi amizi - e un rebechin.
S’cenza la piera ‘l vecio, ‘l putèl caza
dentro giornade senza nome e scopo;
ma a rider se se impara rente ‘l fogo
e forsi anche a contar le prime fiabe.
Chissà se qualchidun, stanco e iazado
xe sta rapì del rosso del somàco,
co ‘l vento inominà zigava forte
e ssai bonora ‘l sol ‘ndava dormir.
Svola via estati primavere inverni
fin che de quei busacoli vien fora,
umidi e scuri, l’omo agricoltor
che finalmente ‘l pol vardar le stele.
I li ciama castelieri i antenati
dei veci borghi che pitura ‘l Carso;
che lingua se doprassi no so dirve,
manzi e porchi, però, xe sempre quei
e forsi ‘l schinco i lo rivava ‘far.
Magari a vendemiar ghe ga imparado
un grego astuto o un profugo troiàn
bramoso, dopo i strussi, de fraiàr.
Ma intorno a un fiumisèl color del piss
lontàn nassi un paese, zo in cabiria:
gente de fero, che no sta mai ferma
naviga, ciapa e costruissi strade.
Senatus popolusque, zo lignade:
chi no se scansa dà l’adio a la Storia!
El veneto se piega fin per tera,
po scampa bastonà sui monti ‘l galo.
Marenda in furlania, de novo in marcia!
El veteran se specia nel Timavo,
ma per sbararghe el passo i corni ciama
la fiera e mas’cia gioventù istriana.
No xe barufa, xe bataglia vera:
stavolta ‘l consul se la vedi bruta.
Come ‘l nipote, el triestin patoco,
festegia l’istro co’ una bela simia;
ma no xe un zogo col roman la guera,
e ssai salà xe el conto de la piomba
quando, insieme col sol, torna ‘l triario.
L’estrema sfida a l’Urbe xe ‘l suicidio.
No solo s’ciavitù però la porta:
Roma domestica la tera e l’Adria.
El Divo Giulio ga fondà Tergeste,
ma a farla granda xe ‘l suo sucesòr.
Augusto imperadòr sora de un cole
alza basilica, foro e propilei;
che vista!, se inamora ‘l tergestin
strenzendo pian la destra a la sua bela,
e ‘l sogna un longo baso in val Rosandra,
indove ‘l ingegner rapissi il fiume
perché l’arsura in ‘sta zità xe tanta.
Le vide in suso le incornisa ‘l golfo
e a Livia le regala un elisìr
che forsi xe teràn, forsi xe glera
quel che frizante se ofri a san Martìn;
ma brinja e trapa no le iera ancora.
Gnente balòn, domenica, né osmiza,
ma un sior teatro ga tirà su Petronio
con tanto de velario in riva al mar.
Plauto, Terenzio, xe anche el gladiatòr!
Le se lo magna vergine e matrona…
solo coi oci, nissùn che pensi mal.
Ma qualchedun istesso ‘l naso storzi,
ché del sangue - el disi - go la sgionfa
e par che ‘l preghi un mato mai sentì,
forsi un giudeo, ma bon de far strighèzi:
sarà una moda, presto passerà.
Chi legi int’el futuro spesso 'l sbaia.