Norberto Fragiacomo
* Per la difesa dei lavoratori, dei senza reddito e delle minoranze oltre ogni discriminazione di genere e orientamento * Per un socialismo libertario, solidale e pluralista che riparta dai territori per riconquistare la giustizia sociale e la democrazia * Per un nuovo internazionalismo che difenda la vita sulla Terra, contro ogni devastazione ambientale e contro ogni guerra
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mercoledì 29 febbraio 2012
DELOCALIZZAZIONI SELVAGGE: ESISTE UN ANTIDOTO? di Norberto Fragiacomo
Norberto Fragiacomo
lunedì 27 febbraio 2012
Come sopravvivere a Latouche di L. Mortara
domenica 26 febbraio 2012
La Montinomics, di Riccardo Achilli
Monti getta la maschera in modo definitivo. Dopo aver farneticato per mesi sulla "fase 2", ovvero sui provvedimenti per rilanciare la crescita, senza la quale - sono parole sue - non vi può essere risanamento strutturale delle finanze pubbliche, rinuncia all'unico strumento che, secondo l'ideologia liberista cui appartiene, va utilizzato per promuovere la crescita, ovvero l'abbattimento delle tasse. In un consiglio dei ministri di ieri sera che le cronache ci dicono essere convulso, e che mostra quindi le prime crepe nella coesione interna fra i “tecnici”, evidentemente indotta dal timore che l'appoggio popolare a questo Governo sia molto minore di quanto i sondaggi ci fanno credere, il premier rinuncia all'idea di creare un fondo, nel quale far confluire le risorse del contrasto all'evasione fiscale, destinato alla riduzione della pressione fiscale.
Come è noto, per i liberisti esiste un equilibrio di piena occupazione strutturale, verso cui il sistema tende spontaneamente a convergere, sia pur con fluttuazioni cicliche di ripresa e recessione, per cui le politiche pubbliche di tipo interventista non fanno altro che ostacolare tale tendenza “naturale” all'equilibrio, distorcendo le aspettative degli operatori (che di per sé si dovrebbero formare con meccanismi di razionalità, ma che possono essere rese “irrazionali” dall'intervento di politica pubblica. Tale assunto potrebbe essere semplicemente smentito guardando all'elevatissima irrazionalità ed emotività con cui si formano le aspettative degli operatori nel mercato più deregolamentato del mondo, ovvero quello finanziario) creando inflazione che si riflette su una errata ed eccessiva domanda di moneta e in tassi di interesse crescenti, ed ostacolando l'allocazione “ottimale” dei fattori produttivi che si realizza nel modello teorico di concorrenza perfetta, in cui, sempre in teoria, porta ad una massimizzazione dell'offerta ed a una minimizzazione del prezzo di mercato dei prodotti.
In questo scenario, per il liberista “doc”, per un seguace fedele di Friedman quale si considera il nostro premier, la politica pubblica deve fare solo tre cose:
1 - liberalizzare completamente i mercati, riducendo al massimo, se non eliminando, ogni forma di regolamentazione degli stessi;
2 - creare le condizioni per aumentare al massimo la concorrenza fra privati sui mercati liberalizzati, smantellando ogni forma di cartello oligopolistico, o gruppo di interessi collettivi sul versante dell'offerta o della domanda (questo significa, peraltro, sul mercato del lavoro, smantellare il ruolo della contrattazione dei sindacati. Le tre aquile a capo degli attuali sindacati confederali che si illudono di “negoziare” con Monti la riforma del mercato del lavoro non si accorgono che si stanno consegnando ad un sistema di contrattazione aziendale e localistico, all'americana, in cui il loro ruolo sarà ridotto pressoché allo zero, o quantomeno dovrà essere conquistato con dure lotte azienda per azienda);
3 - abbassare al massimo la pressione fiscale, soprattutto sui redditi medio-alti e sulla fiscalità dei redditi delle imprese, al fine di stimolare l'iniziativa imprenditoriale privata, e creare convenienze fiscali per gli investimenti, secondo i dettami della cosiddetta curva di Laffer (una teoria, rivelatasi del tutto fallace, secondo cui un incremento delle imposte sui redditi medio-alti e sulle tasse delle imprese, oltre un certo livello critico, producono un abbassamento dell'attività economica, e quindi effetti negativi anche sul bilancio dello Stato). Naturalmente, l'abbassamento della pressione fiscale richiede una parallela riduzione della spesa pubblica, onde evitare effetti di breve periodo esplosivi sul bilancio dello Stato. Meno spesa pubblica significa meno scuole, meno ospedali, meno pensioni, licenziamenti di dipendenti pubblici, meno welfare.
Questa ricetta liberista della crescita, peraltro, non comporta alcun effetto di crescita nel medio periodo, ma solo un effimero, e del tutto momentaneo, stimolo all'economia, che si lascia dietro, dopo la fase di euforia, danni strutturali all'economia, che ne abbassano il tasso di crescita potenziale in modo permanente. L'esempio empirico è fornito da tutti i Paesi che hanno adottato tale ricetta, ad iniziare dagli Usa del periodo della reaganomics degli anni Ottanta. Le politiche di liberalizzazione, privatizzazione, riduzione della spesa pubblica e della pressione fiscale sui redditi medio-alti e sulle imprese condotta da Reagan ha , in effetti, stimolato la crescita del Pil e la riduzione del tasso di disoccupazione (anche se, secondo Krugman, ciò è stato indotto più dalle politiche monetarie accomodanti sui tassi di interesse seguite dalle FED di Volcker in quegli anni). In effetti, il PIL crebbe ad un tasso medio annuo del 3,5%, con una riduzione del tasso di disoccupazione dal 7,1% del 1980 al 5,4% nel 1988, mentre il tasso di inflazione passò dal 10% al 4% nello stesso periodo.
Tuttavia, tale politica generò effetti strutturali dannosissimi, mascherati temporaneamente dal boom produttivo legato allo sforzo bellico degli Usa nella prima guerra del Golfo e sullo scacchiere balcanico, e che si fecero sentire già a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, abbassando notevolmente il potenziale di crescita economica, e rendendo l'economia statunitense più fragile ed esposta a fasi di recessione del ciclo economico generale. Infatti:
a) la reaganomics fece esplodere il debito pubblico federale, passato dal 26,1% del PIL nel 1980 al 41% nel 1988. questo per un ovvio motivo, noto agli studenti del primo anno di economia: l'elasticità delle entrate e delle spese rispetto al saldo di bilancio non è la stessa, ed in particolare le prime sono molto più elastiche delle seconde. Quindi la riduzione della pressione fiscale ha generato effetti negativi sul saldo di bilancio che hanno più che compensato i modesti effetti della riduzione della spesa pubblica, che è caratterizzata da notevole rigidità verso il basso. Di conseguenza, l'enorme debito federale ha reso molto più difficile l'utilizzo della spesa pubblica a fini anticiclici nelle fasi di rallentamento dell'economia, ha provocato una ripresa delle tensioni inflazionistiche, con un'inflazione nuovamente schizzata a più del 5,3% nel 1991, ha contribuito ad indebolire strutturalmente il tasso di cambio del dollaro, compromettendo cioè il ruolo dominante degli Usa nel sistema mondiale dei pagamenti,
b) la reaganomics ha bruciato i risparmi privati, ridottisi molto rapidamente nel corso degli anni Ottanta. Il rapporto fra risparmio e reddito disponibile dei privati, che negli anni pre-Reagan oscillava attorno al 10%, negli anni Ottanta scese fra il 7 e l'8%, per poi attestarsi al di sotto del 5% a fine anni novanta, ed attorno all'1-2% negli anni Duemila. Ciò si è verificato perché la reaganomics ha portato ad una crescita strutturale della propensione marginale al consumo nella fase di euforia, ed a un incremento rapidissimo dell'indebitamento dei privati con le banche, specie per il credito immobiliare, grazie ai bassi tassi di interesse (tenuti bassi per stimolare gli investimenti). Ciò ha gettato le basi strutturali per l'esplosione della grande crisi, che si sarebbe verificata vent'anni dopo, causata proprio dall'espandersi incontrollabile della bolla dei mutui immobiliari ai privati, in una condizione in cui il risparmio privato è molto basso;
c) la reaganomics ha ampliato a dismisura l'area della povertà, perché l'abbassamento del tasso di disoccupazione è stato generato da una crescita degli impieghi dequalificati e sottopagati (i cosiddetti “dog workers”, cioè lavoratori il cui reddito non è sufficiente per uscire dalla povertà). I cittadini americani al di sotto della linea ufficiale di povertà sono cresciuti dell'8% nel corso degli anni Ottanta, arrivando a 31,7 milioni di poveri nel 1988, ovvero circa 32 milioni di americani spinti al di fuori del circuito della domanda e dei consumi, con effetti strutturali di lungo periodo depressivi sui livelli produttivi. Da un mio calcolo sulle propensioni marginali al consumo delle fasce di reddito medio-basse, si può stimare che, per il solo effetto di aumento della povertà, il tasso di crescita potenziale del PIL è diminuito permanentemente di 0,85 punti ogni anno;
d) la reaganomics ha prodotto una gigantesca crescita del disavanzo della bilancia delle partite correnti (cresciuto del 161% rispetto agli otto anni precedenti a Reagan, che pure furono anni di recessione per l'economia Usa). Ciò fu indotto da una notevole perdita di competitività dell'economia a stelle e strisce, non compensata nemmeno dalla svalutazione del dollaro rispetto ad alcune valute fondamentali, come il marco tedesco, lo yen o il franco svizzero verificatasi come effetto della reaganomics. Naturalmente, le liberalizzazioni e deregolamentazioni attuate durante il periodo di Reagan non hanno fatto altro che aumentare gli effetti di un apparato produttivo scarsamente competitivo sulla qualità e l'innovazione, aumentandone l'esposizione alla concorrenza internazionale. E nemmeno la competitività di costo indotta dall'indebolimento del dollaro ha potuto compensare questi effetti,
e) la reaganomics ha fallito nel creare condizioni maggiormente concorrenziali sui mercati liberalizzati. Questo perché la politica è in generale al servizio degli interessi dei grandi poteri economici, per cui non si liberalizza mai nei settori altamente concentrati e trustificati (ad esempio, l'industria automotive degli Usa continua ad avere un livello di concentrazione, misurato con l'indice di Herfindahl, altissimo, pari a 2.505,8, quando il Dipartimento della Giustizia statunitense fissa in 1.800 il livello di soglia oltre il quale un determinato settore è in condizioni di concentrazione oligopolistica) e quando si liberalizza, di fatto si apre la strada per una successiva conquista dei mercati liberalizzati da parte dei concorrenti più grandi e più capitalizzati, cioè si apre la strada per la successiva concentrazione oligopolistica. Di fatto, le 50 più grandi società statunitensi concentrano il 24% del valore aggiunto manifatturiero nel 1997, e tale percentuale è rimasta la stessa anche nel 1992 e perfino nel 1954.
sabato 25 febbraio 2012
Democrito: un libertario non materialista
Spesso accade di leggere nei manuali di filosofia alcune grossolane semplificazioni, come il fatto che Democrito fu un materialista. Non mi pare tuttavia che Democrito possa essere definito tale. E' questo anche un modo per capire come sia destinato al tramonto lo iato tra spiritualismo e materialismo, erroneamente individuato con la nascita delle teorie atomistiche di Democrito, il quale non fece altro che polverizzare lo sfero parmenideo per ottenere lo stesso effetto eterno ed infinito con gli atomi.
Come spiega bene Geymonat: "Democrito non è affatto partito dal sensibile per giungere all'atomo, ma al contrario è partito dall'atomo (ammesso in base ad una postulazione della ragione) per rendere conto del sensibile" e dunque la lettura Aristotelica che accusa l'atomismo di "ridurre tutta la realtà al sensibile" è infondata.
Democrito scrive esplicitamente che noi percepiamo aggregati di atomi non singoli atomi.
Il non essere parmenideo in Democrito semplicemente diventa lo spazio non più interpretato come negazione metafisica di ogni essere, ma come "mancanza di atomi".
Se dunque approfondiamo almeno un pochino, ci rendiamo conto che c'è di più dei cosiddetti "manuali di filosofia"e delle loro definizioni restrittive.
Parmenide e Democrito infatti sono meno agli antipodi di quanto ci abbiano raccontato, l'atomismo infatti può essere considerato proprio come uno dei più efficaci tentativi di risolvere le gravissime difficoltà già mostrate da Anassagora e Zenone nel concetto di infinita divisibilità delle grandezze geometriche.
Per risolvere tali difficoltà Democrito, a torto inserito tra i presocratici nei manuali, mentre, essendo vissuto quasi un secolo, è contemporaneo di Socrate, introduce la distinzione tra il suddividere matematico e il suddividere fisico. Il primo che non trova rispondenza nella realtà, è a suo avviso proseguibile all' infinito e si usa per determinare aree e volumi di figure geometriche, il secondo invece è condizionato dalla natura di quel che si vuol suddividere e non è proseguibile oltre un certo limite.
Così la suddivisione fisica si può fare finché si tratta di dividere corpi composti, non si può fare invece quando si tratta di esseri semplici, a cui si arriva prima con il lògos che con l'esperienza.
Ecco dunque affiorare l'ipotesi che esistano in realtà degli esseri semplici che attuano, ciascuno in se stesso, alcuni caratteri fondamentali dell'essere parmenideo: gli atomi, intrasformabili, indivisibili, impenetrabili. Se dividere un corpo può voler dire separare gli atomi, non possiamo in ogni caso dividere gli atomi.
Sia Parmenide che Democrito procedono quindi con il logos verso il medesimo intento di “semplificazione” anche se gli esiti possono apparire diversi e persino opposti.
Per Democrito l'atomo è indivisibile, non è dunque pensabile che possa essere ulteriormente diviso.
Democrito descrive gli atomi con le stesse caratteristiche dell'essere parmenideo: afferma che essi sono pieni, immutabili, ingenerati ed eterni.
Comunque, a proposito di materialismo e spiritualismo antichi, abbiamo una bella definizione di uno dei massimi studiosi di filosofia antica, purtroppo scomparso ma che resta uno dei migliori che l'Italia e il mondo abbiano mai avuto:
"Tuttavia bisogna fare attenzione quando si adoperano queste categorie. Nel Sofista Platone presenta un grande contrasto tra due visioni del mondo: una è quella materialistica e l'altra è quella che egli attribuisce agli "amici delle idee". Nel descrivere la concezione materialistica Platone dice che essa è propria di uomini che credono solo in quello che toccano, quindi il materialismo è fondato su una conoscenza di tipo sensibile: quello che non si tocca, quello che non si vede, quello che non si odora, non esiste. Ora, se noi dovessimo applicare questo criterio anche a Democrito, ci accorgeremmo che gli atomi di Democrito non si toccano, non si vedono, non si odorano e quindi essi non sono o non dovrebbero essere materiali. Potremmo dire che gli atomi di Democrito non si vedono, non si toccano e non si odorano allo stesso modo che non si vedono, non si toccano e non si odorano le idee di Platone; e come Platone ritiene reali, anzi, veramente reali le idee, ugualmente Democrito ritiene reali, anzi, veramente reali gli atomi. Da questo punto di vista, contrapporre la filosofia di Democrito alla filosofia di Platone come materialismo e idealismo è al di fuori del quadro storico del V e IV secolo a. C.; tanto peggio, poi, se addirittura si sostiene che la filosofia di Democrito è superiore a quella di Platone perché materialista o se si dice che quella di Platone è superiore a quella di Democrito perché è idealista." Gabriele Giannantoni
Siamo troppo legati a vecchie concezioni ed Aristotele, in particolare, ha condizionato enormemente la visuale della filosofia e della fisica ma non sempre in maniera corretta.
Nel Frammento 198 si parla addirittura di idee indivisibili, "forme atomiche"
Plut. Adv.Colot.8p110F -Che cosa sostiene Democrito? Tutto l'universo sono le idee indivisibili "atomous ideas" (le forme) Per Democrito tutte le realtà sono costituite dalle cosiddette "forme atomiche"-
E ancora: -Secondo Democrito l'anima è una mescolanza di idee aventi forma sferica "sphairikàs…echònton tas idéas"-
Per osservare come le tesi di Giannantoni abbiano valore, basta considerare le recenti conferme date dagli studi sulla fisica contemporanea, per la quale i confini tra spirito e materia sono molto sfumati L’ultimo mezzo secolo della fisica ha infatti sconvolto la tradizionale contrapposizione esistente tra il soggetto osservatore e l’oggetto
osservato sfumando i tranquillizzanti e positivistici confini tra lo spirito e la materia, lo spazio e il tempo, la vita e la morte, la causa e l’effetto.
Il fisico quanto più profondamente è penetrato nei regni delle dimensioni subatomiche e supergalattiche, tanto più intensamente è diventato consapevole che la loro struttura è paradossale e sfida il senso comune. Il mondo del fisico, basato sulla teoria della relatività e sulla teoria dei quanti è in effetti un mondo dell’impossibile.
Heisenberg sostiene che gli atomi non sono cose. Quando si scende a livello atomico, il mondo oggettivo non esiste più nel tempo e nello spazio e i simboli matematici della fisica teorica si riferiscono semplicemente a un mondo di possibilità e non di fatti.
Suo è il Principio di Indeter-minazione: se si osserva la velocità dell’elettrone è la sua posizione a diventar confusa e viceversa. Ciò per l’impossibilità di rendere conto contemporaneamente della natura ondulatoria e corpuscolare con cui si evidenziano le particelle subatomiche a seconda del modello descrittivo adottato.
Koestler osserva che la fisica moderna sembra obbedire a una delle leggi che il Signore aveva ordinato a Mosè: "Non vi farete immagini scolpite" né di divinità né di protoni.
"L’assenza nel neutrino di proprietà fisiche grezze , e le sue caratteristiche quasi eteree, incoraggiano le ipotesi sulla possibile esistenza di altre particelle che fornirebbero il legame che ci manca tra la materia e la mente" (Koestler).
E’ di Eddington nel 1928 questa affermazione: "la sostanza del mondo è la sostanza della mente".
A questo proposito l’astronomo Firsotff ipotizza addirittura l’esistenza di particelle elementari della sostanza della mente: i "mentoni".
Tra l'altro, è bene evitare di confondere ambiti molto differenziati come meccanicismo e materialismo, appartenenti ad epoche molto lontane e diverse, il meccanicismo trova una sua prima definizione con La Place nel 1796, il materialismo trova una sua definizione autonoma non tanto con Platone ma con Cartesio, il quale scinde nettamente la res cogitans da quelle extensa.
Il determinismo infine è un concetto indissolubilmente legato al libero arbitrio e quindi, per quanto remota possa essere la sua origine non può arrivare a prima dei pensatori cristiani e arabi e in particolare sul piano filosofico a prima dell'anno mille (Omar Khayyam) Va rimarcato inoltre che il giudizio di Dante su Democrito (che 'l mondo a caso pone) non sembra rispondere alla reale concezione del filosofo di Abdera.
Secondo Democrito, infatti, il movimento degli atomi è vorticoso, ed è unico; si tratterebbe quindi di un unico grande vortice cosmico al centro del quale si sarebbero raccolti gli atomi più grossi e la loro unione avrebbe originato la terra, mentre agli estremi si sarebbero raccolti gli atomi più leggeri, i quali avrebbero formato gli astri, infiammati dal movimento.
Dandosi tale continuità in un unico movimento, non è dunque possibile che qualcosa avvenga per caso, ma solo che noi pensiamo che sia avvenuto per caso, perché ignoriamo la necessità.
Altrimenti, il ragionamento di Democrito risulterebbe contraddittorio. Nella filosofia greca tutti questi concetti che come etichette noi appiccichiamo secondo le nostre tendenze e gusti o preferenze discriminanti ai vari filosofi, risultano vani ed incomprensibili.
Se spostiamo la questione dall'ambito ontologico a quello gnoseologico certo le differenze possono apparire più rilevanti. Però, anche considerando l'aspetto gnoseologico, bisogna pur rilevare che secondo Democrito gli oggetti che noi percepiamo ci appaiono caldi o freddi, amari o dolci, ma queste qualità appartengono alla sfera di quello che la cultura del v secolo a.C. raggruppava sotto la categoria del nòmos, ossia di ciò che è variabile, convenzionale, instabile, contrapposto al piano stabile e immutevole della natura. La vera conoscenza è quella che consente di accedere al piano nascosto che sfugge ai sensi. Qui essa trova i costituenti di tutte le cose: gli atomi (atoma somata) e il vuoto (to kenon).
Inoltre va ricordato anche un altro aspetto, anche ammesso e non concesso che si possa parlare di determinismo fisico in Democrito, esso tuttavia non investe affatto la sfera delle decisioni umane.
Postulando che siamo in grado di scegliere tra il bene ed il male, si riconosce la libertà umana.
Democrito muove tuttavia da una profonda distinzione tra felicità e piacere, e sottolinea che la felicità non consiste nelle ricchezze, e nemmeno nello stesso piacere, ma nella eutymia, ovvero la serenità spirituale.
E questa si perde se si inseguono i piaceri, perché l'eccesso di piaceri provoca turbamenti dell'anima e squilibrii. Sul piano morale egli predica innanzitutto il rispetto di sé stesso. Non si deve agire correttamente solo per evitare di violare le leggi: si deve agire per incrementare correttamente la propria integrità e serenità.
Nel frammento 264 egli afferma: "Non devi aver rispetto per gli altri uomini più che per te stesso, né agir male quando nessuno lo sappia più che quando lo sappiano, ma devi avere per te stesso il massimo rispetto e imporre alla tua anima questa legge: non fare ciò che non si deve fare."Vi è in ciò il riconoscimento di una necessità, quella dell'uguaglianza degli uomini nell'opportunità di essere degni di tale serenità interiore. Democrito fu infatti anche tra i primi a predicare l'uguaglianza tra tutti gli uomini, sostenendo che ogni terra ed ogni città possono essere patria dell'uomo, arrivando ad una visione cosmopolitica. Si schierò per la democrazia contro l'oligarchia, asserendo che "è meglio vivere liberi e poveri in democrazia, che ricchi ma non liberi in una oligarchia."
Prendiamo la concezione dello Stato, non tutti conoscono la posizione in merito di Democrito, nota attraverso un suo frammento tramandatoci da Stobeo. Il frammento è il 252 e vi si legge: «È necessario porre l’interesse dello Stato al di sopra di tutti gli altri, perché lo Stato sia governato bene, e non cercare continui pretesti per andare contro l’equità né permettersi di tentare sopraffazioni contro il bene comune. Perché uno Stato ben governato è la più grande fortuna, e quando vi è questo vi è tutto, e se questo è salvo tutto è salvo e se questo perisce tutto perisce». Da questo testo risalente al V secolo a.C si ricava la lucida consapevolezza che Democrito ha maturato non solo della centralità dello Stato nella vita associata ma anche dell’esigenza che esso sia ben amministrato.
Solo in questo modo potrà rappresentare il bene comune contro i tentativi dei singoli di attentare all’equità per difendere interessi particolari. Tò chrestòn tò toû xunoû, il bene comune, è proprio l’interesse generale, l’utile della comunità, ciò che risponde ai bisogni di tutti i cittadini e non a quelli di una parte di essi.
Spesso è più ciò che unisce di ciò che divide...a ben vedere.
Aggiungiamo a queste brevi note le considerazioni di Severino nel merito specifico: "D'altra parte, l'atomismo tien fermo il principio parmenideo che l'esistenza del molteplice implica l'esistenza del non essere….dal punto di vista della verità, l'essere è quindi estensione piena (ossia l'essere è ciò che rende piena l'estensione), il "non essere" è estensione vuota. Gli aspetti qualitativi sono quindi estensione illusoria, cioè mantengono il carattere che Parmenide aveva assegnato alla totalità dei fenomeni" Severino "Filosofia" pag. 96-97
E quindi ecco una conferma che non vi è divisione netta tra Parmenide e Democrito.
Severino nel suo libro "Filosofia", che alcuni usano anche come manuale, sebbene sia a mio avviso adatto ad un pubblico di lettori già al corrente dei contenuti dei manuali, scrive: "Gli atomi sono l'essere, e quindi ogni atomo possiede le proprietà dell'essere, quali sono state rilevate da Parmenide: è un'unità indivisibile, ingenerabile, incorruttibile, eterna, non percepibile dai sensi ma dalla ragione..." (Filosofia pag. 97)
Bisogna quindi essere, a mio parere, molto prudenti nell'accostare gli antichi filosofi a coloro che li seguirono anche traendone ispirazione per lo sviluppo del loro pensiero, e specialmente con quelli che hanno fatto del materialismo la loro bandiera.
venerdì 24 febbraio 2012
Decrescita e marxismo, di Riccardo Achilli
La critica marxista alle teorie della decrescita e dello sviluppo sostenibile
E' ampiamente nota la critica marxista alle teorie della decrescita. L'elemento fondamentale di tali critiche è rappresentata dall'assenza di un'analisi di classe dei processi economici, per cui di fatto i “decrescisti” focalizzano l'attenzione sul volume di produzione in sé (sulla crescita economica in sé) piuttosto che sulla destinazione di tale produzione in plusvalore, rendite e salari. Ciò fa sì che o la decrescita possa amplificare le disparità distributive già esistenti (applicandosi cioè soltanto sui capitalismi a minor tasso di sviluppo, cioè sui poveri), oppure che sia semplicemente impossibile, perché i meccanismi di riproduzione allargata, alla base della formazione del profitto, rendono impossibile una decrescita di tipo solidale ed equo all'interno del capitalismo.
Ciò priva di qualsiasi valore rivoluzionario le teorie dello sviluppo sostenibile, riducendone anche la rilevanza pratica, in termini di preservazione dell'ambiente. Sotto questo profilo, infatti, da un lato, le innovazioni tecnologiche ecocompatibili sono, come tutte le innovazioni, soggette al paradosso di Jevons, per cui di fatto l'introduzione dell'innovazione comporta un aumento del consumo della risorsa ambientale, come si può riscontrare, a puro titolo di esempio, con il consumo di terreno agricolo e forestale indotto dallo sviluppo dei sistemi fotovoltaici ed eolici di produzione dell'energia. Similmente, il passaggio all'economia ad idrogeno, preconizzato da un sacerdote ben comodamente seduto sulla poltrona del capitalismo, come Rifkin, comporterà, se si verificheranno le sue previsioni di abbattimento del costo di produzione e distribuzione di una simile risorsa energetica rispetto a quelle fossili (fatto molto discutibile, ma che non abbiamo qui lo spazio per approfondire) un aumento considerevole dell'intensità energetica delle attività economiche ed antropiche (perché il capitalismo tende ad aumentare l'utilizzo delle risorse a basso costo) ed un boom produttivo, facilitato dall'abbassamento del costo unitario dell'energia, che indurrà quindi una crescita della pressione e degli impatti sulle risorse ambientali in generale. D'altro lato, i suggerimenti che provengono dalle teorie dello sviluppo sostenibile circa un riordino dei modi di produzione e degli stili di vita, che consenta di ridurre l'impatto ambientale, si scontrano inevitabilmente con la legge dell'accumulazione capitalistica, che costringe tale sistema a non interrompere mai il processo di accumulazione di capitale, pena la sua stessa estinzione. Come dice Marx, “la concorrenza impone ad ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva”. Pertanto, o uno stile di vita ed un modo di produzione “ecocompatibile” è anche compatibile con l'accumulazione di nuovo capitale, oppure non verrà implementato. Il fallimento sostanziale dei protocolli di Kyoto sul contenimento delle emissioni di CO2 è paradigmatico.
L’impossibilità della decrescita in ambito capitalistico, o della decrescita felice e volontaria
Per essere concreti, l'applicazione di uno schema di decrescita su scala globale, che sia anche equo, ovvero che miri anche a ridurre gli squilibri di sviluppo, e che sia cioè concentrato soltanto sulle nazioni ricche (con l'ipotesi quindi che le nazioni più povere continuino a crescere), comporta, in uno scenario di crescita demografica come quello tratteggiato dall'ONU da qui al 2020, una riduzione del PIL pro capite delle economie avanzate (valutato in parità di potere d'acquisto, per eliminare i differenziali di cambio) pari al 70,5%, portandole cioè ad un livello di tenore di vita pari a quello attuale di Paesi come la Macedonia o il Sud Africa, livelli cioè inferiori a quelli di Paesi come l'Argentina o il Costa Rica, tanto per capirci. Peraltro, in tale scenario, se i Paesi emergenti continuassero a crescere (poiché la decrescita, come premesso, sarebbe, per motivi equitativi, concentrata nei soli Paesi ricchi) non si avrebbe alcun effetto significativo (tale cioè da salvare la specie umana dall'estinzione) sui livelli di CO2, atteso che il 61,2% del CO2 è prodotto dalle economie emergenti (in particolare, i cosiddetti BRIC, ovvero Brasile, Russia, India e Cina, producono da soli il 61% del CO2 mondiale, lo 0,2% è prodotto dai Paesi più poveri, e solo il 38,8% dalle economie più sviluppate, dato Banca Mondiale). Occorrerebbe quindi chiedere a Cina, India e Brasile di interrompere il proprio impetuoso sviluppo, condannandole a rimanere nella povertà dalla quale solo ora stanno faticosamente uscendo, e condannando anche le economie sviluppate ad arretrare in modo sensibile nel loro tenore di vita. Se si rimane in un quadro capitalistico, quale possibilità vi è di generare un blocco di interesse tale da indurre simili dinamiche? Nessuna, perché il capitalismo è legato indissolubilmente alla crescita: tanto per togliere illusioni ai “decrescisti”, che sostengono che già oggi, a causa della crisi, siamo di fatto in decrescita, è utile dire che nel periodo della crisi, cioè fra 2008 e 2011, il PIL mondiale è cresciuto dell'11,2% in termini reali, e dovrebbe crescere di un ulteriore 4% nel corrente anno. In termini globali, quindi, il capitalismo è cresciuto, perché non può essere altrimenti. Se il processo di accumulazione si ferma per un periodo sufficientemente lungo, il capitalismo crolla, perché non si genera più capitale aggiuntivo da anticipare nei nuovi cicli produttivi, nella misura in cui, non essendovi più plusvalore, non vi è più motivo per anticipare nuovo capitale indispensabile per riavviare un nuovo ciclo di produzione.
Infatti, utilizzando la notazione di Bucharin, il plusvalore s può essere considerato la somma fra accumulazione di nuovo capitale costante (ac), accumulazione di capitale variabile (as) per la successiva fase produttiva e spesa personale del capitalista (b), ovvero s = ac + as +b. Se non vi è accumulazione, s = b, e nella fase successiva si verifica un processo produttivo con un capitale costante c logorato dall'uso produttivo fatto nella fase precedente (cioè ammortizzato in parte) che non può essere sostituito. La perdita di valore del capitale costante per ammortamento e mancata sostituzione comporta un calo del valore della produzione, poiché la produzione P è pari a p = c + v + b (poiché non essendovi accumulazione s = b), dove c è il capitale costante e v quello variabile. Inoltre, la riduzione del plusvalore alle sole spese personali del capitalista provoca una contrazione del saggio del plusvalore e del saggio di profitto, che impedisce di far ripartire, in una fase successiva, il ciclo di accumulazione. Infine, la svalorizzazione del capitale costante riduce la produttività del lavoro, quindi riduce l'estrazione di plusvalore relativo, riducendo quindi, nelle fasi successive, anche il valore di b, che tenderà verso lo zero, comportando l'ulteriore riduzione del valore della produzione, il che non farà altro che provocare disoccupazione, intaccando quindi anche il valore di v, in una spirale che porta il sistema ad autodistruggersi per inedia produttiva.
Ciò spiega perché le grandi crisi economiche non sono crisi di decrescita: la fase recessiva, a livello globale, è solo temporanea, e più che compensata da una successiva crescita, altrimenti il capitalismo stesso sprofonderebbe nel nulla. Gli effetti strutturali che generano non intaccano quindi il livello assoluto della ricchezza creata, ma solo la sua distribuzione, sia fra classi sociali che fra nazioni capitalistiche. Così, la grande depressione degli anni Trenta comportò una redistribuzione della ricchezza parzialmente a favore di alcuni strati del proletariato e della piccola borghesia, tramite le politiche keynesiane, ed una redistribuzione della ricchezza di tipo geografico, a favore degli Usa ed a danno dell'Europa. La crisi attuale sta determinando una redistribuzione della ricchezza a favore del grande capitale finanziario e della grande borghesia all'interno dei Paesi capitalisti avanzati, ed a favore delle economie emergenti dei Paesi BRIC, ed a sfavore di Usa ed Europa, su base geografica. Tale redistribuzione della ricchezza, fra classi ed aree geografiche, è necessaria al capitalismo per ripristinare le condizioni normali di ripresa del saggio di profitto, rideterminando le condizioni per tornare ad avere, da un lato, una domanda solvibile sufficiente a valorizzare il capitale, dopo la fase di eccesso di offerta generatasi nel momento più acuto della crisi economica, e per restituire condizioni di redditività normale a tale capitale, abbassando i costi di produzione.
La gravità della situazione ecologica globale
Quindi non ci può essere decrescita in un contesto capitalistico, ma solo la prosecuzione di una fase di crescita a livello globale, compatibile con alcune aree specifiche di decrescita su scala locale. E tuttavia il tema che pone Serge Latouche, ed in genere l'ambientalismo più radicale, è un tema reale, assolutamente ineludibile. Per usare un lavoro fatto dai borghesi, ovvero il rapporto sui limiti della crescita elaborato dal club di Roma, nel suo aggiornamento del 2004, si scopre che l'impronta ecologica ha superato per più del 20% la capacità di carico massima del pianeta. Sulla base degli scenari previsionali simulati tramite il modello World 3, si scopre in questo modo che nemmeno la decrescita potrebbe evitare una crisi ecologica globale con effetti distruttivi. Infatti, anche in una ipotesi in cui vi sia una stringente programmazione familiare (assumendo che tutte le coppie del mondo decidano di non avere più di due figli, ovvero il minimo indispensabile per riprodurre il livello attuale di popolazione mondiale, senza accrescerla) e si introduca una decrescita perequativa, tale per cui tutti gli individui del mondo si attestino sul livello medio di consumi del 2000, vi sarà un collasso ecologico ed un arresto traumatico della crescita economica entro il 2040. e ciò in ragione del già avvenuto superamento dell'impronta ecologica massima sopportabile. Tale crisi può essere evitata, perlomeno per tutto il XXI secolo, soltanto se a tali condizioni se ne aggiungano altre, ovvero:
a) l'introduzione di tecnologie atte ad economizzare l'uso delle risorse naturali non rinnovabili;
b) l'introduzione di tecnologie atte a sostenere la fertilità delle terre agricole;
c) l'introduzione di tecnologie per ridurre l'inquinamento.
Ciò che si evince chiaramente dal rapporto del club di Roma è quindi che la decrescita, da sola, non può evitare la catastrofe ecologica ed economica prossima ventura, nemmeno se accompagnata da rigide politiche di programmazione familiare. Occorre anche che si introducano innovazioni tecnologiche che, come sappiamo da Schumpeter in poi, vengono introdotte, in ambito capitalistico, soltanto a condizioni che provochino quell'ondata di “distruzione creatrice” in grado di riportare verso l'alto il saggio di profitto degli innovatori, grazie alla rendita monopolistica da innovazione di cui temporaneamente possono godere. E' però molto difficile che alcune delle innovazioni tecnologiche sopra tratteggiate possano essere effettivamente introdotte, per il semplice motivo che non hanno mercato. A chi vendere, ad esempio, tecnologie mirate a risparmiare le risorse naturali non rinnovabili, quando invece il capitalismo allarga l'area dei suoi profitti proprio facendo esattamente l'inverso, cioè aumentando lo sfruttamento delle risorse naturali? E' chiaro quindi che il capitalismo non ha gli incentivi economici interni per evitare il collasso ecologico imminente, non bastando perciò le teorie ecologiste che muovono all'interno del capitalismo stesso, come lo sviluppo sostenibile.
Quindi soltanto una uscita dal capitalismo può salvarci. Su questa affermazione Latouche sarebbe perfettamente d'accordo con me, tanto che lui parla di de-mercificazione dei prodotti (ovvero di sottrazione degli stessi dal ciclo di valorizzazione del mercato) per tornare alla misurazione per valori d'uso, individuali e sociali, cancellando quindi di fatto il connotato di merce dello stesso denaro, che tornerebbe alla sola funzione di intermediario degli scambi, senza valore intrinseco (senza cioè essere una riserva di valore) e ritorno alla produzione su piccola scala, su livello locale, su basi di auto-sussistenza solidale con le altre comunità, anche utilizzando misure di economia autarchica, con l'ovvia conseguenza di spostare la sovranità politica sul livello della comunità locale con forme di democrazia diretta e dal basso, di abolire il plusvalore, perché i beni sarebbero scambiati al loro valore d'uso, individualmente e socialmente determinato, la proprietà privata sarebbe inesistente, o limitata ai soli attrezzi di produzione. Ad occhio e croce, la società descritta da Latouche è qualcosa che sta fra la futura società comunista, in cui a ciascuno viene dato in base alle sue esigenze, e la società libertaria preconizzata da Proudhon.
Che fare? I suggerimenti dell’ecomarxismo
Il problema vero insorge sul come arrivare a tale assetto sociale. Secondo Latouche, per giungervi sarebbe sufficiente l'accettazione volontaria, e “felice”, di modelli di consumo più sobri, di un sostanzioso rallentamento della crescita del volume produttivo, mediante il riuso e la manutenzione, piuttosto che la sostituzione, dei prodotti, l'introduzione di parametri di sostenibilità ambientale e di utilizzo di energie rinnovabili nei cicli produttivi, la destrutturazione del neoliberismo globale mediante forme controllate e solidali di autarchia economica. A prescindere dal fatto che, secondo le elaborazioni del club di Roma, come si è visto, già oggi la decrescita non è sufficiente a salvarci dal collasso ecologico, il problema a mio avviso più grave della visione di Latouche è che tradisce una ingenua fiducia nell'umanità, o una forma di elitarismo intellettuale, il che è lo stesso, perché parte dal presupposto che l'intera umanità coincida culturalmente con la visione illuminata di una piccolissima quota di studiosi, attenti alle conseguenze catastrofiche, per la nostra stessa sopravvivenza, di un capitalismo, il cui principio di crescita continua è incompatibile con la finitezza delle risorse ambientali. Latouche ignora, o vuole ignorare, che l'uomo moderno medio coincide esattamente con la definizione datane da Herbert Marcuse, ovvero quella di “uomo ad una sola dimensione”, educato e istruito, sia dal sistema educativo e formativo che da quello dei media, a schiacciare l'intera sua esistenza sulla retta che va dalla produzione al consumo, limitando la sua prospettiva alla frontiera che va dal suo ruolo di lavoratore a quello di consumatore. Per mettergli in pace l'anima, qualora inizi a chiedersi, angosciosamente, se tale limitatezza di prospettiva non generi danni irreversibili al suo stesso futuro, ed a quello dei suoi figli, intervengono, con funzione consolatrice, le dottrine dello sviluppo compatibile, dell'eco-business e dell'ambientalismo borghese, che sono infatti perfettamente funzionali al capitalismo stesso. Tali teorie gli forniscono infatti l'illusione che, comprando un pacchetto di caffè ad un negozio di commercio equo e solidale, stando attento a separare bene la plastica dall'umido nel suo sistema di raccolta differenziata dei rifiuti, mandando qualche euro alle organizzazioni di volontariato per salvare la selva amazzonica (che nonostante tutte le Ong del mondo, il Governo progressista di Lula e dei suoi epigoni successivi ha massacrato e massacra a ritmi impensabili ai tempi del regime di Soldati) e comprandosi la macchina “Euro 4” sta salvando il mondo. Ci vuole ben altro per salvare il mondo, con l'effetto-serra che ha già indotto cambiamenti climatici irreversibili, modificando salinità e direzione della corrente nord atlantica, e cancellando progressivamente terre emerse superficiali, con una sovrappopolazione che nei prossimi 20 e 30 anni renderà l'acqua potabile cara come il petrolio, con la desertificazione che ha cancellato enormi zone agricole, e che sta procedendo anche nelle aree temperate dalle quali dipende il 60% della produzione agricola mondiale. Ci vuol ben altro, ma l'uomo moderno non lo sa, inserito com'è all'interno di un sistema di ottundimento culturale, funzionale al capitalismo, che il buon Latouche, nonostante le sue doti di comunicatore, non è certo in grado di modificare da solo. E quand'anche una larga maggioranza della popolazione mondiale divenisse consapevole del problema, sarebbe disposta a pagare il prezzo che la decrescita impone, ovvero minor disponibilità di beni di consumo, rinuncia alla droga del consumismo e del carrierismo, che al giorno d'oggi serve per riempire la vita, altrimenti vuota, di milioni di persone? Accetterebbe il consumatore italiano, o tedesco, un tenore di vita analogo a quello di un sudafricano? Conoscendo l'animo umano, mi permetto di essere molto pessimista al riguardo.
Ma il punto fondamentale è che, quand'anche si verificasse questo cambiamento culturale, e quindi emergesse di fatto un nuovo umanesimo globale (perché la decrescita richiede proprio questo, un nuovo umanesimo capace di sottrarre l'uomo moderno alla sua unidimensionalità marcusiana) occorrerebbe una rivoluzione, violenta e sanguinosa, per abbattere il sistema di interessi capitalistico che è ovviamente radicalmente contrario al concetto di decrescita. Quindi la chiave per evitare il disastro non è una decrescita volontaristica. La chiave è la rivoluzione, cioè la lotta di classe. E una rivoluzione non può essere interclassista, come ingenuamente credono Badiale e Bontempelli, in un loro saggio in cui cercano maldestramente di far finta di coniugare Marx con Latouche, per poi smentire l'assunto di fondo del marxismo, ovvero che la rivoluzione la fa il proletariato (“Marx e la decrescita. Per un buo uso del pensiero di Marx”). In realtà l'interclassismo non fa le rivoluzioni. Nessuna rivoluzione mai ha vinto su scala interclassista, per un motivo ovvio: c'è sempre almeno una classe sociale, ovvero quella dominante, che non ha alcun interesse a che la rivoluzione si faccia. A Badiale e Bontempelli vorrei ricordare che gli imprenditori italiani hanno boicottato la conferenza di Kyoto, perché non è nel loro interesse che si abbattano rapidamente le emissioni di CO2. Che il modello di trasporto di merci del nostro Paese, basato sul trasporto su gomma, è stato scelto, nonostante il suo elevato impatto ambientale e sociale e la sua minore efficienza trasportitstica, per favorire gli interessi della più grande azienda automobilistica del Paese, e di alcune lobby (come gli autotrasportatori, così come anche la lobby dell'industria delle costruzioni, che sulla realizzazione e l'ampliamento della rete stradale italiana ha fatto lucrosi affari) e che tale blocco di interessi continua ancora oggi ad ostacolare modalità di trasporto meno inquinanti, come le autostrade del mare. Oppure che l'export dei pesticidi ad uso agricolo, nel mondo, è cresciuto del 92% fra 1999 e 2009, evidentemente sulla spinta di lobbies nell'industria chimica e nel settore agroindustriale, ma anche con il supporto dei contadini, che poi sono quelli che usano materialmente i pesticidi. Evidentemente, non tutte le classi sociali possono condurre una lotta anticapitalista ed ecologista. Fra l'altro, vorrei anche rispondere a Badiale e Bontempelli, che nel loro impeto interclassista chiedono ai marxisti di dimostrare la natura rivoluzionaria del proletariato. Questa natura, cari Badiale e Bontempelli, è dimostrata nelle rivoluzioni socialiste, prima di tutte quella russa, che fu una rivoluzione degli operai e dei contadini. Se poi ebbe una degenerazione, per cause non interamente interne alla stessa Russia, è un'altra questione. Se i nostri due decrescisti nutrono dubbi sulla natura rivoluzionaria del proletariato, suggerisco loro di farsi un giro in Grecia, in questi giorni, oppure di andare a vedere quale fu la base sociale che portò Chávez al potere.
Certo, il proletariato deve assumere una maggiore coscienza della rilevanza fondamentale del problema ecologico, e comprendere che la lotta anticapitalista non può non essere anche, e forse soprattutto, una lotta per la difesa dell'ambiente da una minaccia che, per la prima volta nella storia del genere umano, mette in discussione la nostra stessa esistenza come specie. Però ancora una volta la risposta sul come condurre la lotta andrebbe ricercata in quanto scrisse Marx, avendo l'umiltà di ripiegarsi sui suoi insegnamenti, anziché cercare di liberarsene, per auto nominarsi profeti di nuovi, quanto improbabili, sistemi teorici. Merito di un importante ecomarxista come O'Connor è stato quello di estrarre dagli scritti marxisti la posizione di Marx sulle questioni ecologiche. La chiave di volta ruota attorno a quella che O'Connor definisce come la seconda contraddizione del capitalismo. La prima, quella più nota, è la contraddizione che sorge all'interno dei rapporti sociali di produzione. La seconda è quella che verte sulle “condizioni di produzione”, ovvero quelle che Marx definisce come il lavoratore e i suoi mezzi di lavoro, e inoltre tutti quegli elementi senza i quali il processo di produzione non potrebbe aver luogo, in particolare:
1. le “condizioni personali”, cioè la forza lavoro umana;
2. le “condizioni esterne”, cioè la natura, l'ambiente;
3. le “condizioni generali, comunitarie”, cioè lo spazio urbano, le comunicazioni, le infrastrutture di trasporto, ecc.
In questo senso, secondo O'Connor, le condizioni di produzione vengono “valorizzate” all'interno del processo di accumulazione capitalistica, tramite l'intervento normativo e politico dello Stato, che ne determina i vincoli e le forme di utilizzo capitalistico. Ovviamente, la direzione e l'orientamento della politica dello Stato è il frutto della lotta di classe, cari i miei ambientalisti interclassisti, quindi la difesa dell'ambiente, così come anche di condizioni socialmente progressive nel settore dell'istruzione, delle infrastrutture sociali, della vivibilità urbana, ecc. sono questioni influenzate dalla lotta di classe. E' il proletariato ad avere un interesse concreto a che l'ambiente non venga valorizzato all'interno delle logiche di accumulazione capitalistiche, perché, se è vero che il conseguente degrado ambientale è un problema dell'intero corpo sociale, è anche vero che i proletari sono i primi a soffrirne, mentre le classi dominanti possono, in un primo momento, trovare forme di protezione da tali danni. Un ambiente urbano insalubre riguarda prima di tutto i quartieri popolari, e solo in un secondo momento, se il degrado persiste, anche le zone residenziali borghesi. Sono gli operai i primi ad avvelenarsi per i fumi tossici della loro fabbrica, prima che questi impestino anche l'aria respirata dal borghese. Sono i poveri del mondo quelli che soffrono per primi della carenza di acqua potabile, perché il borghese ha i soldi per comprarsela, e li avrà anche quando l'acqua costerà come il petrolio, mentre loro dovranno morire di sete. Saranno i poveri i primi a soffrire delle conseguenze della crisi alimentare globale da sovrappopolazione e da desertificazione ed impoverimento dei terreni agricoli. I borghesi i soldi per comprare il loro chilo di pomodori ce li avranno comunque, anche quando i pomodori costeranno come tartufi bianchi.
La lotta ambientale è quindi lotta di classe, ed è strettamente connessa con la lotta politica, economica e sindacale contro il capitalismo, perché il capitalismo non consentirà alcuna decrescita morbida, dolce o felice. Il proletariato se ne dovrà far carico, trovando le giuste connessioni fra la difesa dell'ambiente e la più generale opposizione alle forme di produzione capitalistiche, di cui le condizioni di produzione rappresentano una contraddizione strettamente interrelata. In questo sforzo il proletariato dovrà trovare anche alleanze con i nuovi movimenti ambientali, purché questi siano animati da reale spirito anticapitalistico, e non siano solo la foglia di fico moralistica dietro la quale il capitalismo cela la realtà del crescente dissesto del nostro mondo. Quindi il proletariato dovrà marciare con i nuovi movimenti ambientalisti, che nascono nella galassia dell'anticapitalismo, nel mondo dell'anarchia come in quello dei movimenti civili spontanei. E gli intellettuali come Latouche dovranno elaborare gli strumenti concettuali e pratici in grado di favorire questa connessione rosso/verde, e le parole d'ordine giuste per animare una lotta di classe ed anticapitalistica che sia anche e soprattutto a difesa dell'ambiente, abbandonando utopie moralizzatrici come i richiami vaghi al consumo sobrio, alla solidarietà, alla produzione responsabile, all'economia etica e compatibile, alla decrescita felice, perché non è con queste utopie che si difende l'ambiente, che si trova la via d'uscita da un sistema incapace di non divorare le risorse naturali, ma è con la lotta, che non può che essere lotta sociale, che si ottengono i risultati.
mercoledì 22 febbraio 2012
LA SOLIDARIETÀ È RIVOLUZIONARIA
di Norberto Fragiacomo
E’ possibile portare tre -o due- milioni di persone in piazza in queste condizioni, e soprattutto contro un esecutivo vezzeggiato dalla stampa di mezzo mondo?
NOTE
(1) Intervistata dal bravo D. Mastrogiacomo di Repubblica, l’ex ministro del Lavoro greco Louka Katseli – espulsa dal Pasok per essersi ricordata, al momento del voto in Parlamento, che Socialismo e tradimento non sono sinonimi – analizza lucidamente la situazione: “La Grecia è stata usata come cavallo di Troia di un nuovo corso che coinvolgerà tutti i Paesi europei. Soprattutto quelli che si trovano in difficoltà. Le conseguenze delle misure adottate nei nostri confronti finiranno per ripercuotersi anche in Italia, in Spagna, in Portogallo, in Irlanda. E’ un serio pericolo, di cui la gente non coglie la dimensione e la portata. Le misure arriveranno poco alla volta e solo alla fine la popolazione se ne accorgerà.” A proposito di espulsione, a quando quella dell’indegno Pasok dall’Internazionale Socialista e dal PSE? Visto che nessuno, a livello europeo, pone la questione, sarà compito della Sinistra Socialista farlo.
(2) Naturalmente anche di Confindustria, la cui presidente, prima di accusare i sindacati di difendere i lavoratori “ladri”, avrebbe fatto meglio a guardare in casa propria.
(3) E sarebbe una sorta di ritorno a casa, visto che quella di Europa (rapita dal toro Zeus in Asia Minore) è un’antica leggenda greca!