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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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sabato 31 marzo 2012

NO AL PAGAMENTO DEL DEBITO!




31 marzo: tutti in piazza a Milano!
NO AL PAGAMENTO DEL DEBITO!
CONTRO L’EUROPA DEI PADRONI E DEI BANCHIERI
PER UN’EUROPA DEI LAVORATORI, PER UN’EUROPA SOCIALISTA
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(a seguire)
Il Manifesto delle sezioni europee
della Lega Internazionale dei Lavoratori - Quarta Internazionale




Sabato 31 marzo il Comitato “Occupyamo piazza affari” promuove a Milano una manifestazione nazionale contro Monti e la Banca Centrale Europea, per dire no al pagamento del debito.
E’ una manifestazione importante, organizzata nel momento in cui il governo Monti, su mandato della troika (Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea), sferra l’ennesimo pesantissimo attacco alla classe lavoratrice e alle masse popolari. La “riforma” del lavoro di Monti e Fornero, con o senza i piccoli ritocchi proposti dalla burocrazia Cgil e dal Pd, lascerà il definitivo via libera ai licenziamenti indiscriminati. Per rispondere a questo attacco occorre organizzare subito un vero grande sciopero generale, che blocchi il Paese fino al ritiro della “riforma”.
Analoghi attacchi provengono dai governi di tutta Europa, in particolare dai governi della periferia della zona euro, i cosiddetti Piigs: in particolare in Grecia, Spagna, Portogallo e Italia i governi stanno varando controriforme del lavoro che smantellano la contrattazione collettiva e lo stato sociale, riducono ulteriormente i salari, aprono la strada ai licenziamenti indiscriminati. La crisi del debito pubblico viene utilizzata dai governi (di centrodestra o centrosinistra, indifferentemente) per giustificare la guerra sociale contro le masse popolari: il ricatto del debito è strumento privilegiato del capitale finanziario per appropriarsi della ricchezza.
La parola d’ordine lanciata nelle piazze dal movimento del 15 ottobre “noi il debito non lo paghiamo” è una parola d’ordine corretta, che la classe operaia e i giovani devono fare propria. Il debito è il debito dei padroni e dei banchieri, che hanno ricevuto ingenti finanziamenti pubblici: non è il debito delle masse lavoratrici, degli studenti, degli immigrati e dei disoccupati. Per dire No al ricatto del debito, la Lega Internazionale dei Lavoratori-Quarta Internazionale (di cui il Pdac è sezione italiana) promuove una campagna internazionale per il non pagamento del debito.
Il comitato promotore della manifestazione del 31 marzo a Milano propone ambiguamente “una società fondata sui diritti civili e sociali, sul pubblico, sull’ambiente e sui beni comuni”, la “riconversione del sistema industriale con tecnologie e innovazione” (come se questo fosse possibile nel capitalismo in putrefazione). Si tratta di un confuso programma di opposizione al "liberismo" e non al capitalismo, un programma che, lungi dall’offrire una vera opzione alternativa alla crisi attuale, si fa promotore di una soluzione neokeynesiana e riformista, oggi più illusoria che mai.
Il Partito di Alternativa Comunista ritiene, invece, che occorra battersi per un altro sistema economico e sociale. La giusta rivendicazione del non pagamento del debito va allora associata ad altre rivendicazioni, che la rendano concreta e realizzabile: la nazionalizzazione delle banche, espropriando i grandi azionisti e investitori; l’esproprio e la gestione operaia delle grandi imprese strategiche; l’uscita dall’euro e la rottura con l’Unione Europea; l’avvio di un grande piano di opere pubbliche con la riorganizzazione dell’industria e dei servizi sotto il controllo dei lavoratori.
Per attuare questo programma serve un governo dei lavoratori che avvii la costruzione di un’economia socialista e non c’è possibilità materiale alcuna di costruire il socialismo se non su scala europea e comunque mondiale. Per avanzare verso questa prospettiva serve un’azione di lotta unitaria della classe lavoratrice in Europa, a partire dall’organizzazione di un grande sciopero generale europeo. Occorre battersi per la prospettiva di un’Europa socialista, che ponga fine alla barbarie del capitalismo.
Le sezioni europee della Lit-Quarta Internazionale, riunite a Lisbona in occasione del Congresso di fondazione del Movimento di Alternativa Socialista (Mas) del Portogallo, hanno elaborato il manifesto che riproduciamo qui sotto.
E’ sulla base di questa piattaforma, nell’ambito della campagna internazionale contro il pagamento del debito promossa dalla Lit-Quarta Internazionale, che il Pdac partecipa alla manifestazione del 31 marzo a Milano.
 
 

 
Contro la guerra sociale dell'Unione europea
e dei governi della troika
 
Manifesto del Coordinamento delle sezioni europee della
Lega Internazionale dei Lavoratori - Quarta Internazionale
 
Abbasso i tagli e le riforme del lavoro!
Non un solo euro alle banche!
No al pagamento del debito pubblico alle banche!
Per un piano dei lavoratori e delle masse popolari contro la crisi!
Per una risposta europea unificata alla guerra sociale!
 
I governi europei hanno dichiarato una guerra sociale aperta contro i lavoratori, i giovani e le masse popolari del continente, al fine di imporre loro un arretramento storico. Questa guerra sociale si concentra con particolare virulenza nella periferia della zona euro (Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia) con il pieno coinvolgimento dell’Ue e dell’euro, strumenti politico-economici sviluppati dagli imperialismi europei al servizio delle banche e dei grandi gruppi imprenditoriali. La guerra sociale è la risposta del capitalismo europeo alla crisi capitalista iniziata nel 2007 - una crisi che può essere paragonata solo alla Grande Depressione – e che oggi ha il suo epicentro in Europa.
La politica dell’Ue esprime la necessità degli imperialismi centrali, tedesco e francese, di scaricare sulla periferia europea il peso della crisi, al fine di evitare che essa raggiunga in pieno il centro, minacciando frontalmente i loro interessi e spingendo l’economia mondiale verso l’abisso. La politica dell’Ue è anche uno strumento basilare per consolidare l’egemonia della borghesia tedesca sull’Europa. I piani di saccheggio che si abbattono sulla Grecia sono l’anticipo di un dramma che attraversa tutta la periferia europea.
La risposta dei lavoratori e dei settori popolari ai tagli e alle controriforme si fa sentire. Con la classe lavoratrice e il proletariato greco come indiscussa avanguardia, gli scioperi e le manifestazioni guadagnano le strade di Portogallo, Italia e Spagna, in un’onda europea che include i Paesi dell’Est (Romania), così come Gran Bretagna e Belgio.
In questa situazione critica, le sezioni della Lega Internazionale dei Lavoratori – Quarta Internazionale – riunite a Lisbona in occasione del Congresso di fondazione del Movimento Alternativa Socialista (Mas), si rivolgono fraternamente all’avanguardia militante europea per presentare la loro visione sull’attuale crisi e le alternative che si pongono.
 
L'Unione Europea e l'euro: armi di guerra contro i lavoratori e i proletari
La costituzione dell’Unione Europea e la successiva creazione dell’euro, al culmine di una lunga evoluzione partita alla fine della Seconda guerra mondiale, esprimevano la necessità degli imperialismi centrali europei di fare affidamento sugli strumenti che permettessero loro di raggiungere un doppio obiettivo: innanzitutto, mettere in moto un piano unificato per distruggere le conquiste ottenute dalla classe operaia europea nel dopoguerra e fare così del continente “la regione più competitiva del mondo”; insieme a questo, creare un fronte comune per contendere all’imperialismo nordamericano la sua parte di bottino nel saccheggio del mondo, affrontando nel contempo i “Paesi emergenti”. L’Ue, il cui cuore pulsante è la zona euro, non costituiva tuttavia uno Stato unificato, ma un blocco regionale imperialista di Stati, con un nocciolo duro formato dal capitalismo tedesco e francese (associati alla vecchia potenza britannica, con i suoi interessi specifici intorno alla City e le sue “relazioni speciali” con gli Usa). Intorno a questo nucleo si raggrupparono imperialismi di seconda e terza linea, come l’Italia, la Spagna, il Portogallo o la Grecia e, più indietro, i Paesi dell’Est “annessi” dopo il processo di ampliamento e sottomessi sin da subito ad un processo di ricolonizzazione da parte, soprattutto, del capitalismo tedesco.
L’euro fu, sin dalla sua creazione, uno strumento fondamentale per raggiungere l’egemonia tedesca sull’Europa. È servito per affermare il predominio, in primo luogo, dell’industria tedesca, le cui esportazioni verso la periferia si moltiplicarono, insieme alla deindustrializzazione di questa. I grandi deficit commerciali dei Paesi della periferia venivano largamente finanziati con le eccedenze di capitale delle banche tedesche e francesi, che non esitarono un solo istante ad alimentare generosamente processi speculativi come l’enorme bolla immobiliare spagnola.
Mentre questo processo si sviluppava e la periferia affondava in un mare di debiti, le sue banche e le sue finanze – dipendenti dal finanziamento tedesco e francese – ottenevano profitti record e si affermavano, insieme a settori come l’edilizia o l’energia, non rappresentando una minaccia per il dominio esportatore tedesco. Questa borghesia parassitaria della periferia si convertiva così nella beneficiaria e nell’agente della sottomissione agli imperialismi centrali.
L’indebitamento delle economie europee e, in particolare, della periferia, andato alle stelle a partire dalla nascita dell’euro nel 2000, faceva parte del processo generale di indebitamento privato e di speculazione che si sviluppava su scala mondiale, con epicentro nel sistema finanziario nordamericano (subprime). Quando l’onda di indebitamento generale non fu più sufficiente a prolungare la crisi di sovrapproduzione e la crisi capitalista alla fine scoppiò nel 2008, gli Stati si gettarono in massa a salvare le banche e i grandi capitalisti, dando inizio alla più grande guerra sociale contro la classe lavoratrice ed i settori popolari dagli anni ’30 del secolo scorso. In Europa, col debito privato delle banche convertito in debito pubblico e la periferia resa fragile e massicciamente indebitata, la crisi capitalista ha assunto – a partire dal 2010 – la forma di indebitamento pubblico. La crisi del debito pubblico si è così trasformata nella giustificazione della guerra sociale e nello strumento privilegiato del capitale finanziario per appropriarsi della ricchezza a costo dell’impoverimento massiccio delle masse popolari. Costituisce, al contempo, l’arma per sottomettere i Paesi della periferia ai capitalismi centrali, in particolare a quello tedesco.
 
Debito pubblico, tagli, controriforme e neocolonizzazione
I criminali tagli ai bilanci pubblici portano allo smantellamento e alla privatizzazione dei servizi pubblici di base della sanità, dell’istruzione, del sistema pensionistico, e all’aumento vertiginoso della povertà, mentre la disoccupazione (sospinta dalla recessione che i piani di austerità accentuano) avanza a tutta velocità, colpendo milioni di famiglie. I tagli ai sevizi pubblici procedono di pari passo con i piani di privatizzazione di quanto del patrimonio nazionale ancora era in mano pubblica. E, come parte inseparabile del pacchetto, le controriforme del lavoro, che in Grecia, Spagna, Portogallo o Italia, liquidano la contrattazione collettiva e consegnano i lavoratori all’arbitrio del padrone, con tutte le agevolazioni per licenziare a costi ridicoli e i sistemi per applicare una riduzione generale dei salari.
La soluzione borghese alla crisi capitalista implica quest’aumento brutale dello sfruttamento, in particolare nella periferia dell’euro, con un plusvalore che deve essere drenato in direzione delle banche francesi e tedesche, in un macabro festino cui partecipano come complici e soci di minoranza le banche e le grandi imprese del Paese. Tuttavia, per imporre ai Paesi della periferia il pagamento del debito è necessario il loro controllo politico. Questo processo, che è parte costituente dell’offensiva capitalista, si sta approfondendo a partire dallo scoppio della crisi del debito. In realtà, ciò è evidente già in Grecia, che vive la progressiva degradazione del suo status nazionale: da socio di minoranza degli imperialismi centrali alla condizione di neocolonia. Questo processo, che ha ritmi diseguali a seconda dei Paesi, colpisce tutta la periferia ed è inoltre inseparabile dai processi di bonapartizzazione dei regimi politici, in cui i governi si sottomettono direttamente all’Ue, tendono ad autonomizzarsi dalle maggioranze parlamentari e ad appoggiarsi progressivamente sugli apparati di coercizione statale, estendendo i provvedimenti di repressione e di restrizione dei diritti democratici.
Il saccheggio della periferia è inseparabile dagli strumenti con cui la borghesia lo applica: l’Unione Europea e l’euro, oggi riconfigurati intorno alla “Unione fiscale”, approvata su richiesta di Angela Merkel, che pone fine alla sovranità di bilancio degli Stati della periferia (1).
Il progetto dell’euro non è in discussione per gli imperialismi centrali, anche se la Grecia o il Portogallo dovessero finirne fuori. L’euro è stato un passo significativo per la costituzione dell’egemonia tedesca sull’Europa e continua ad essere un elemento chiave per assicurarla e per competere con gli Usa ed il Giappone.
La borghesia della periferia, dominata dalla finanza, non pone obiezioni rispetto alla collaborazione nel processo di sottomissione dei rispettivi Paesi ai diktat del capitalismo tedesco e francese, per poter così partecipare alla rapina del capitalismo imperialista in tutto il mondo. Mangia le carogne avanzate dai grandi predatori.
Siamo all’apice di un lungo processo storico di decadenza delle borghesie della periferia europea. L’Ue e la moneta unica sono state l’illusione di poter tornare al loro passato imperialista e coloniale, mentre l’indebitamento sembrava essere il passaporto d’ingresso al club dei grandi. Ma la crisi ha posto fine alle loro illusioni. Le borghesie della periferia europea non hanno più alcun margine di manovra, il loro indebitamento si è trasformato nel loro principale problema e sono obbligate a imporre un arretramento storico alle conquiste sociali. Oggi, se vogliono continuare ad essere socie di minoranza degli imperialismi centrali, devono, benché con ritmi distinti, consegnare i loro rispettivi Paesi a questi ultimi e assicurare che una parte più grande della ricchezza nazionale vada nelle mani delle banche tedesche e francesi. È il prezzo da pagare per rimanere nel club. Per questo, non c’è lotta possibile contro l’imperialismo tedesco che non preveda la lotta contro le borghesie della periferia europea.
Per i lavoratori, i settori popolari e i giovani della periferia non c’è alcuna prospettiva di futuro nell’Ue e nell’euro. I governi al servizio delle banche e dell’Ue, di centrodestra come di centrosinistra, dicono che “non c’è futuro fuori dell’Ue” e che “uscire dall’euro comporterebbe il caos”. Ma il “caos” è già rappresentato dal licenziamento per milioni di famiglie; dai licenziamenti e la chiusura di fabbriche; dal non poter giungere alla fine del mese con stipendi o pensioni miserabili; dalle scuole senza riscaldamento e con professori dagli stipendi tagliati e sempre più precarizzati; dal peggioramento generale della sanità pubblica o dal dover pagare per essere curati in un ospedale. Così come il fatto di restare nell’Ue e nell’euro rappresenta una necessità delle borghesie decadenti della periferia, così significa per l’immensa maggioranza della popolazione l’impoverimento e la rovina sociale.
Cercano di far pagare ai lavoratori e alle masse popolari la permanenza nell’euro e nell’Ue con grandi sofferenze. Nondimeno, importanti settori del padronato e del governo tedesco spingono chiaramente per un’uscita della Grecia e del Portogallo dalla moneta unica. Il loro problema è, in realtà, il quando e il come: non vogliono che ciò accada prima di portare a termine il saccheggio, ma soprattutto devono farlo in maniera “ordinata” e controllata, poiché non possono permettersi un contagio che trascini l’Italia o la Spagna e faccia scoppiare la zona euro provocando uno tsunami finanziario di livello europeo e mondiale.
 
Finisce l'epoca del welfare state
Non siamo di fronte ad un cambiamento qualsiasi, ma a un processo di cambiamento qualitativo delle relazioni fra le classi in ciascun Paese e delle relazioni fra gli stessi Paesi europei. Un cambiamento in cui debito pubblico, tagli, controriforme e neocolonizzazione della periferia formano un quartetto inseparabile con cui gli imperialismi centrali europei vogliono assicurarsi la loro egemonia e fissare le basi per competere con l’imperialismo nordamericano.
Non si può tornare indietro al vecchio scenario prima della crisi. Indipendentemente dallo sviluppo del processo in corso, il welfare state è finito, così come è finita l’Ue precedente alla crisi. Ora una parte importante della ricchezza nazionale della periferia non potrà essere ripartita e dovrà essere espatriata a vantaggio degli imperialismi centrali. Non sarà più possibile mantenere la pace sociale fra le classi grazie a bilanci pubblici che distribuiscano salario indiretto (istruzione, sanità, pensioni) alla maggioranza della popolazione. In questo contesto, le vittorie parziali dei lavoratori non daranno più luogo a conquiste stabili e potranno essere solo l’anticamera di battaglie più feroci. Lo sviluppo ultimo sarà o un arretramento storico della classe operaia europea nel quadro di un’Ue egemonizzata dall’imperialismo tedesco o la rottura con l’Ue e con l’euro e l’apertura di una via internazionalista rivoluzionaria.
 
La socialdemocrazia e le burocrazie sindacali
Per avanzare nella lotta per mantenere le loro conquiste e affrontare i governi, i lavoratori incontrano un grande ostacolo, rappresentato dai partiti socialdemocratici greci, spagnoli, portoghesi o italiani, che dal governo non hanno esitato ad applicare i piani dell’Ue e delle banche e che, dopo, dall’opposizione, fanno fronte comune e non ostacolano realmente i governi di destra o “tecnici” che li hanno sostituiti e che sono ora responsabili di imporre i piani di saccheggio e pauperizzazione.
Una grande sfida che abbiamo davanti è superare l’enorme ostacolo posto dalle burocrazie sindacali. Mentre la ferocia degli attacchi esige una risposta generale unificata in ogni Paese, nella periferia e su scala europea, queste burocrazie, organizzate nella Ces (2), si limitano a negoziare, Paese per Paese, l’intensità degli attacchi, convocando mobilitazioni che non mettono in questione i governi e neppure si pongono l’obiettivo di sconfiggere le riforme lavorative respingendo i “piani di austerità”. In realtà, non hanno mai messo in questione il pagamento del debito pubblico alle banche, né la politica di austerità in quanto tale, né tantomeno l’appartenenza all’euro e all’Ue, di cui sono i portabandiera. La loro opposizione si limita a chiedere che i tagli siano più lievi e a sollecitare una riforma fiscale. La loro vera preoccupazione sta nel negoziare la continuità dei propri privilegi, oggi direttamente attaccati o, in qualche misura, diminuiti e minacciati dalle riforme e dai tagli.
In questo momento, i nostri Paesi vivono un complesso, ricco e disuguale processo di riorganizzazione rispetto alla burocrazia sindacale. Questo processo si esprime, in alcuni casi, attraverso la formazione di organizzazioni sindacali alternative; in altri, attraverso opposizioni sindacali; e, nel caso della Grecia, attraverso comitati eletti e movimenti di coordinamento dalla base. Sviluppare questo processo richiede non solo rompere con i vecchi e consunti apparati burocratici, ma, ancor di più, unificare tutto questo movimento di opposizione alla burocrazia sotto le bandiere dell’indipendenza di classe e della democrazia operaia, superando ogni settarismo di apparato e avanzando verso la costruzione di un sindacalismo combattivo e di massa che costituisca un’alternativa al controllo delle burocrazie. Questa lotta richiede un’adeguata combinazione fra la denuncia della burocrazia sindacale e la sfida ad essa, di fronte ai lavoratori, a che si assuma le sue responsabilità nella lotta.
Non è giustificabile il rifiuto della burocrazia sindacale di convocare urgentemente giornate unitarie di sciopero e di lotta a livello della periferia dell’euro ed europea. Non si comprende come, proprio in queste settimane, possano essere convocati due scioperi generali, in Portogallo e in Spagna, a distanza di pochi giorni. La principale forza dei nostri nemici è proprio la nostra divisione da Paese a Paese, mentre essi sono uniti e disciplinati dall’Ue. Non potremo sconfiggere i loro piani senza unire internazionalmente le nostre forze, così come non ci sono “soluzioni nazionali” alla crisi. Per questo, è fondamentale accompagnare tutto questo movimento con passi concreti verso il coordinamento del sindacalismo combattivo europeo.
 
La sinistra europea e il programma rispetto alla crisi
Il crocevia della storia d’Europa mette alla prova anche le organizzazioni politiche della sinistra. Gli “europeisti”, come il Bloco de Esquerda del Portogallo, non considerano nessuna altra ipotesi alternativa al mantenimento del pagamento del debito alle banche, ma convenientemente “ristrutturato”. Secondo Louçã, il principale dirigente del Bloco, rimanere nell’euro e nell’Ue è irrinunciabile e, su questa base, occorre negoziare la dimensione dell’austerità. Questa posizione coincide con quella del Partito comunista portoghese che, a sua volta, dirige la burocrazia sindacale della Cgtp. Ma Louçã vive in un continente che esiste solo nei suoi sogni, perché l’Europa – l’Ue – non ammette alcuna negoziazione sul welfare state nella periferia. Questa politica del Bloco (e del Pcp) mantiene i lavoratori subalterni alla loro borghesia e alla Ue e li lascia senza alternative rispetto alla pauperizzazione e alla rapina. Una politica simile è difesa in Grecia da Syriza (3), che pure sostiene che si debba “ristrutturare il debito”, cioè ridurlo, diminuirlo, procrastinarlo… per continuare a pagarlo.
Questi partiti si rifiutano di porre il No al pagamento del debito e ne rifiutano perfino l’immediata sospensione, poiché sono consapevoli che ciò porterebbe all’uscita dall’euro e alla rottura con l’Ue: ciò che, dal loro punto di vista, equivale alla completa rovina del Paese. Ma questa è una politica cieca e suicida, che fa il gioco dell’imperialismo tedesco e francese. Perché tutti sanno che il debito greco, o quello portoghese, sono semplicemente impagabili e che l’Ue cerca solo il saccheggio del Paese. Mentre la Grecia e il Portogallo affondano rapidamente, questi partiti si limitano ad avvisare che si sta affondando e propongono come soluzione rendere più comodo il nodo scorsoio da cui pendono i lavoratori e i settori popolari.
Il Partito della Rifondazione Comunista italiano si limita ad una critica sciovinista al governo Monti per aver “ceduto sovranità alla Germania”, ma Monti è anche rappresentante dell’imperialismo italiano, che è complice di Angela Merkel. In realtà l'intenzione dei dirigenti di Rifondazione è tornare per la terza volta al governo con la stessa borghesia imperialista italiana che oggi sostiene Monti.
In quanto all’Npa francese, il suo candidato alla presidenza, Philippe Poutou sostiene: “crediamo che l’unico modo di porre fine ai diktat della redditività e della competitività [dell’Ue] è la costruzione di un’Europa dei popoli. Il vero problema non è se siamo ‘a favore’ o ‘contro’ l’Europa.” (4).
Ma è inutile barare: il problema non è se siamo "a favore’ o ‘contro" l’Europa in generale, bensì della particolare e concreta Europa che oggi esiste, quell’Europa imperialista che è l’Unione Europea, strumento di oppressione e colonizzazione delle masse popolari del continente al servizio degli imperialismi centrali.
Ai lavoratori greci, portoghesi, italiani o spagnoli, non si può dire che occorre “una rottura economica e sociale col sistema capitalista” in astratto accantonando il problema concreto del saccheggio dei loro Paesi attraverso l’Ue e l’euro. Non si può parlare seriamente di politica anticapitalista se si elude lo scontro con la forma concreta in cui la borghesia europea colpisce la classe lavoratrice e i proletari del continente.
Il programma di Philippe Poutou è quello dell’Npa e del Segretariato Unificato e sostiene: “In Europa, la risposta alla crisi non è il protezionismo nazionalista e l’uscita dall’euro. Ciò porterebbe ad una concorrenza fra i Paesi europei e a nuovi attacchi contro le masse popolari… per non parlare dello sviluppo dei movimenti sciovinisti e xenofobi. La risposta che occorre è un’Europa sociale, democratica ed ecologista, che rompa con le politiche e le istituzioni europee” (5).
Naturalmente non possiamo non concordare con il rifiuto del protezionismo nazionalista, ma non siamo d’accordo, ancora una volta, con il fatto che si menta. Perché ciò che in realtà stanno difendendo l’Npa ed il Su è che non ci sono alternative alla rottura con l’euro e l’Ue che non siano il protezionismo nazionalista borghese. E questo è falso. Questo dilemma è effettivamente quello delle borghesie europee, in particolare quelle della periferia, ma non della classe operaia e della sinistra. La borghesia e i governi della periferia minacciano, un giorno sì e l’altro pure, che l’uscita dall’euro equivale a precipitare i Paesi nell’abisso. Ma l’unica cosa certa è il contrario: i piani ai quali condizionano la permanenza dei Paesi della periferia nell’euro e nell’Ue sono la sicura condanna dei lavoratori e dei proletari all’impoverimento e alla rovina sociale.
Poutou dice che le misure necessarie affinché i lavoratori non paghino la crisi del capitale sono quelle che aprono la strada a “una rottura economica e sociale col sistema capitalista”, ma ciò significa rompere con la Ue e l’euro – questo sì – nel quadro di una soluzione internazionalista all’Europa del capitale.
L’Npa, con questa politica, finisce per consegnare all’estrema destra del Front National la bandiera della rottura con l’euro e l’Ue, poiché non lascia che due opzioni: restare nell’euro e nell’Ue (giustificandolo con una retorica sempre più vuota circa un preteso processo costituente che dovrebbe riformare istituzioni irriformabili, armonizzando socialmente l’Ue dall’alto) o aprire la strada al Front National e la sua politica xenofoba. Ma l’Npa scarta un’altra alternativa, in realtà l’unica che possa offrire una soluzione favorevole alla crisi storica del capitalismo europeo: rompere con l’euro e l’Ue, demolire questo embrione antidemocratico e antisociale del capitale finanziario che è l’Ue e sventolare la bandiera della solidarietà internazionalista e della lotta per una nuova Europa, quella dei lavoratori e delle masse popolari, quella degli Stati Uniti socialisti d’Europa.
 
Un programma di fronte alla catastrofeLa soluzione per fermare la catastrofe che devasta la Grecia e si abbatte sulla classe operaia, i giovani e le classi medie dei Paesi della periferia, è possibile solo rompendo con il salasso e la rapina dei Paesi e unendo le forze. La lotta immediata sta, naturalmente, nel respingere i tagli, le riforme delle pensioni e del lavoro, consapevoli che ciò richiede unificare le lotte in ogni Paese ed offrire una risposta comune in tutta la periferia europea.
Ma fermare il salasso esige come misura imprescindibile ed urgente il No al pagamento del debito alle banche e ai fondi speculativi. Neanche un euro dei bilanci pubblici deve andare alle banche, bensì alle necessità sociali! È urgente unire in ogni Paese, e coordinare in tutta la periferia europea, tutte le forze disposte a lottare per questo, al fine di convertire questa rivendicazione in un grande movimento di massa.
I frequentatori di salotti televisivi sbandierano l’argomento che questa misura porterebbe ad un fallimento catastrofico delle banche e, con esse, dell’economia. Ma c’è una risposta semplice: bisogna nazionalizzare le banche (espropriando i grandi azionisti ed investitori), unificarle e porle sotto controllo dei lavoratori e delle organizzazioni popolari, salvaguardando i depositi dei piccoli risparmiatori e ponendo il credito al servizio della riorganizzazione dell’economia a beneficio dell’immensa maggioranza della popolazione.
Non si possono conciliare le necessità basilari dei lavoratori e del proletariato con il “salvataggio” delle banche. ogni provvedimento serio per aiutare la popolazione lavoratrice si scontrerà direttamente con le necessità vitali delle borghesie della periferia e degli imperialismi centrali. Perciò l’uscita dall’euro e la rottura con l’Ue emerge come una necessità politica immediata se si tratta di salvare i lavoratori.
Sappiamo che il Paese che imboccherà questa strada andrà a scontrarsi con un boicottaggio spietato per distruggerlo. Per questo, come misure elementari di autodifesa e come mezzo necessario per organizzare adeguatamente la sua economia, dovrà stabilire il monopolio statale sul commercio estero e il pieno controllo dei movimenti valutari, così come la nazionalizzazione delle imprese strategiche, ponendole sotto controllo dei lavoratori. Allo stesso modo, per assicurare il lavoro a tutti e porre fine alla precarietà, dovrà dividere il lavoro fra tutti (scala mobile delle ore di lavoro), mettere in campo un vasto piano di opere pubbliche e riorganizzare l’industria e i servizi.
La crisi greca, come avamposto della crisi della periferia, mostra che l’unica classe che può impedire la bancarotta del Paese, fermare la profonda deriva antidemocratica e impedire il saccheggio, è la classe lavoratrice. Ma ciò esige che si ponga fine al governo fantoccio dell’Ue, sostituendolo con un governo dei lavoratori e delle masse popolari, retto dalle organizzazioni che sostengono la mobilitazione nelle fabbriche e nelle piazze. Solo un tale governo può assumere le misure necessarie ora descritte.
Non si tratta, peraltro, di un’alternativa limitata alla Grecia. La lotta e la vittoria in un Paese, in una prospettiva storica, non è altro che una soluzione provvisoria, perché senza la solidarietà internazionalista dei lavoratori del continente e del mondo, qualsiasi movimento rivoluzionario è condannato al fallimento. D’altro canto (a differenza di quanto proclama il Kke, Partito comunista greco), non c’è possibilità materiale alcuna di costruire il socialismo se non su scala europea e, ancora di più, mondiale. Di qui la necessità vitale di recuperare la prospettiva di lotta per gli Stati Uniti Socialisti d’Europa, riprendendo quella che era la bandiera della Terza Internazionale prima che Stalin la calpestasse.
Questo è l’impegno delle organizzazioni europee della Lega Internazionale dei Lavoratori – Quarta Internazionale (Lit-QI), è la lotta che vogliamo condurre insieme, fianco a fianco di tanti militanti e attivisti. In altre parole: facciamo appello ai lavoratori, ai giovani e alle masse popolari, perché lottino per una soluzione operaia alla crisi, che significa porre la questione del potere per la classe operaia. È in questa lotta che vogliamo costruire le nostre organizzazioni e ricostruire l’Internazionale rivoluzionaria di cui abbiamo bisogno come l’aria che respiriamo.
 
Lisbona, marzo 2012
 
 
Note(1) a) ci saranno sanzioni automatiche per tutti i Paesi che oltrepassano il limite di deficit pubblico fissato; b) il tribunale di giustizia potrà multare gli Stati che non approvino le leggi che garantiscono il patto di bilancio; c) l’Eurogruppo (consiglio composto dai ministri economici) avrà l’ultima parola sui bilanci degli Stati, che prima di passare per le aule parlamentari saranno vagliati dalla Germania; d) la Commissione europea detterà le linee di politica economica ai governi.
(2) Confederazione europea dei sindacati.
(3) Syriza (Coalizione della Sinistra Radicale) è un fronte elettorale lanciato nel 2004 e composto da varie organizzazioni della sinistra greca e personalità politiche. La principale organizzazione che la compone è il Synaspismos (Coalizione della Sinistra dei Movimenti e Ecologia). Ha nove deputati in parlamento.
(4) Http://poutou2012.org/L-Europe-fragilise-t-elle-ou.
(5) Relazione approvata dal Comitato Internazionale del Segretariato Unificato, 22 febbraio 2011 [il Su è l'organizzazione a cui fa riferimento, in Italia, Sinistra Critica, ndt].
 

giovedì 29 marzo 2012

LE NANÀ DELL’INFORMAZIONE di N. Fragiacomo



di Norberto Fragiacomo

C’era una volta (c’è tuttora) il giornalista berlusconiano, gelosissimo dell’osso lanciatogli dal padrone – e perciò ringhioso e fedele. Addestrato a difendere l’indifendibile, a far segno di no e ad attaccare a testa bassa, si avventava sugli ospiti dei talk show, riducendo il dibattito a gazzarra. Diciamoci la verità: quest’esemplare, perennemente con le bave alla bocca, suscitava dispetto, se non ripugnanza (al pari di certi ministri burbanzosi, ignoranti e bigotti). Oggi, nella felice era Monti, il posto dei bastardi senza gloria è stato preso da gazzettieri di razza; anzi, dalle Nanà dell’informazione. Morte di vecchiaia le migliori penne (tra le quali la più rimpianta e lucida resta Giorgio Bocca), tocca agli Scalfari, ai Mieli e ai de Bortoli dominare il campo. Ognuno ha il suo stile, naturalmente, ma esiste un minimo comune denominatore, rappresentato dal savoir-faire (i tre sono colti borghesi e uomini di mondo) e dalla propaganda a favore del sistema e del governo Monti. In odore di beatificazione, a suo tempo, per essere stato “epurato” da Berlusconi, l’attuale direttore del Corriere è tra i più convinti (contro)riformisti. Il 24 marzo lamenta, in un editoriale dal titolo inequivocabile (Una trincea ideologica) che “I toni apocalittici di molti commenti sono poi inquietanti. Descrivono un Paese irreale (il grassetto è suo). Tradiscono una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe, che non corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro. Dipingono gli imprenditori (che hanno le loro colpe) come un branco di lupi assetati che non aspetta altro se non licenziare migliaia di dipendenti. (…) Sono commenti che paventano il sibilo di una tagliola che cadrebbe, in un sol colpo, su decenni di conquiste dei lavoratori.” Un Paese irreale… e qual è quello reale in cui vive (agiatamente) de Bortoli? Un’Italia ove i datori di lavoro non licenziano, padroni e operai van d’amore e d’accordo e “i diritti sono meglio protetti (sic)”. Sarà, egregio direttore… ma, a meno che le statistiche e i dati non siano diventati comunisti anche loro, l’impressione è che l’unica “visione ideologica” sia oggi la sua (e quella dei suoi colleghi “liberali”). In un comunicato diffuso il primo marzo, l’Istat ci dice che, in gennaio, il numero dei disoccupati è aumentato del 2,8% rispetto a dicembre (64 mila unità), mentre su base annua si registra una crescita del 14,1% (286 mila unità). Il tasso di disoccupazione si attesta al 9,2%, in aumento di 0,2 punti percentuali in termini congiunturali e di un punto rispetto all'anno precedente, ed è il più alto dal 2004. Insomma, volenti o nolenti si licenzia a raffica, malgrado il “totem” e le salvifiche promesse di King George; e che, nelle fabbriche, il clima di intimidazione verso i lavoratori - specie quelli attivi sindacalmente - si sia fatto pesante lo testimoniano innumerevoli vicende, che assai di rado vengono illuminate dai riflettori. La vertenza del terzetto di Pomigliano è soltanto la punta di un gigantesco iceberg di minacce, ingiustizie e ritorsioni - quanto alla lotta di classe, l’azzimato Ferruccio dovrebbe saperlo: è in corso, ma la stanno conducendo i padroni suoi amici, che al novecento dei diritti preferiscono l’ottocento dello schiavismo. Non occorre infine “paventare” un bel nulla, quando il “sibilo della tagliola” è distintamente udibile da chi non sia sordo come una campana (e pure finto cieco). Forse, più che di cecità si tratta banalmente di interesse: da sempre il Corriere è l’organo della borghesia imprenditoriale italiana, della quale, per motivi di censo e frequentazioni, grandi firme e professoroni sentono giustamente di far parte. Comunque i de Bortoli possono pontificare a cuor leggero: chi guadagna stipendi a sei o sette cifre ha ben poco da temere dallo strazio dell’articolo 18 (e dalla stessa crisi). Sotto un certo punto di vista, dunque, il Signor direttore scrive di cose che non lo riguardano minimamente, se non come membro della classe sociale beneficata dalla depressione economica. Per Mieli e Scalfari vale il medesimo discorso, con l’aggravante che i due vantano – e spesso utilizzano strumentalmente – un passato “di sinistra”. Paolo Mieli ne ha percorsa di strada dai tempi di Potere Operaio, ed è arrivato in alto, molto in alto: in televisione, ormai, si esprime col sussiego e la sicumera di un pontefice. A “L’infedele”, il nostro ha minimizzato le critiche di mons. Bregantini al Governo Monti, difeso strenuamente l’esecutivo e riscritto la storia recente, affermando che il PD, rinunciando in autunno ad una vittoria elettorale (secondo lui) pressoché sicura, ha scelto liberamente di appoggiare il “tecnico” Monti, chiamato ad attuare un programma di governo redatto, nella celebre lettera di agosto, dalla coppia Trichet-Draghi. Morale della favola: siano coerenti con se stessi, i democratici, e approvino senza tante sceneggiate la “riforma” dell’articolo 18 – perché pacta sunt servanda. Ora, l’autore di queste righe non si fa particolari illusioni sulla fermezza dei bersaniani; ma, non avendo ancora perso la memoria, rileva che la ricostruzione di Mieli è assolutamente… infedele: a novembre, l’unica alternativa a Mario Monti era il deflagrare dello spread, e la scelta del PD fu tanto libera quanto, per un lavoratore dipendente, quella di pagare l’Irpef – senza contare (e difatti il Paolo nazionale non ce lo conta) che, almeno nei primi tempi, i tecnici sproloquiavano più volentieri di “equità” che di missive straniere, e che la manovra di avvicinamento alla “trincea” dei licenziamenti è stata, da parte dell’ardita Fornero, alquanto tortuosa. Perlomeno, da Gad Lerner, l’ex direttore del Corriere ha dovuto confrontarsi con un interlocutore preparato, obiettivo e per niente conciliante (Carlo Galli di Repubblica, professore pure lui); Eugenio Scalfari, invece, predica la cattiva novella delle cosiddette riforme e della mancanza di alternative a Monti senza contraddittorio, quasi dall’alto dei cieli. Vero portabandiera di un’estrema destra liberista che, per ingannare i sempliciotti, ama indossare soprabiti di sinistra, Scalfari è passato, in pochi mesi, dalla critica agli eccessi capitalistici che hanno generato la crisi all’esaltazione ossessiva di austerity e sacrifici (altrui: lui è vecchissimo e, oltretutto, milionario), fornendoci la prova che il cancan autunnale mirava solo alla destituzione di Berlusconi. Per meritarsi l’accusa di “fascismo” non è sufficiente far sfoggio di autoritarismo: bisogna anche appartenere ad uno schieramento opposto (cioè a un’altra bottega). Monti, quindi, va benissimo al Grande Vecchio, anche se ricatta le parti sociali e il Parlamento con una violenza (verbale) che farebbe invidia al cavaliere, e sforna decreti legge alla velocità di un Mussolini. Vengono in mente le parole di un Presidente americano a proposito del dittatore Somoza: “è un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”. Il paragone con il più celebre personaggio femminile di Zola non è dunque improprio: anche Nanà, a modo suo, aveva classe; anche lei vendeva miraggi agli uomini, e cambiava partner ed atteggiamento a seconda delle convenienze (invero, rispetto a certi soloni del giornalismo, mostrava maggiore pietà verso i derelitti, forse perché non era vincolata da nessuna ideologia). Frequentava un po’ meno i salotti, ma nel diciannovesimo secolo – è noto – la tivù non era ancora stata inventata. In conclusione, la narrazione dei Mieli è infinitamente meno plebea di quella di Libero e del Giornale, ma sempre di fiction si tratta – un’elegante cortina di fumo che cela una realtà spaventevole. Riconosciamo però che, nelle ultime settimane, la nebbia mediatica si è un tantino diradata, e nel muro montiano di Repubblica (ma non del Corriere governativo) si sono aperte le prime crepe, che Scalfari si sforza, ogni domenica, di stuccare. Diamo a Giannini quel che è di Giannini: anche tra i privilegiati non mancano le persone oneste, e questa è una buona novella

mercoledì 28 marzo 2012

DISCORSO SUL LIBERO SCAMBIO di Karl Marx



Karl Marx
Discorso sul libero scambio
pronunciato il 9 gennaio 1848 all'Associazione democratica di Bruxelles (253)


Signori,
l'abolizione delle leggi sul grano (44) in Inghilterra è il più grande trionfo conseguito dal libero scambio nel XIX secolo. In tutti i paesi in cui gli industriali parlano di libero scambio, essi hanno di mira principalmente il libero scambio del grano e delle materie prime in generale. Colpire con dazi protettivi i grani stranieri è infame, significa speculare sulla fame dei popoli.
Pane a buon mercato, salari elevati - cheap food, high wages - ecco il solo fine per il quale i liberoscambisti in Inghilterra hanno speso milioni; e già il loro entusiasmo si è esteso ai loro fratelli del continente. In generale, se si vuole il libero scambio, è per alleviare la condizione della classe lavoratrice.
Ma - fatto sorprendente! - il popolo, a cui si vuole per forza procurare pane a buon mercato, è quanto mai ingrato. Il pane a buon mercato è così malfamato in Inghilterra come il governo a buon mercato lo è in Francia. Il popolo vede in questi uomini pieni di abnegazione, in un Bowring, in un Bright e consorti, i suoi più grandi nemici e gli ipocriti più sfrontati.
Tutti sanno che la lotta fra liberali e democratici si chiama, in Inghilterra, lotta tra liberoscambisti e cartisti.
Vediamo ora come i liberoscambisti abbiano provato al popolo i nobili sentimenti da cui erano mossi.
Essi dicevano agli operai delle fabbriche:
II diritto prelevato sui cereali è una imposta sul salario; questa imposta, voi la pagate ai signori della terra, a questi aristocratici del medioevo; se la vostra posizione è miserevole, è a causa del caro prezzo dei viveri di prima necessità.
Gli operai domandavano a loro volta ai fabbricanti:
Come mai, negli ultimi trent'anni, nei quali la nostra industria si è potentemente sviluppata, il nostro salario è diminuito in proporzione ben più rapida di quanto sia aumentato il prezzo delle granaglie? L'imposta che, secondo voi, paghiamo ai proprietari fondiari, incide sull'operaio nella misura di circa tre pence per settimana. E tuttavia dal 1815 al 1843 il salario del tessitóre a mano è sceso da 28 scellini a 5 scellini per settimana; e il salario del tessitore nel laboratorio meccanizzato, dal 1823 al 1843 è diminuito da 20 a 8 scellini settimanali.
E durante tutto questo tempo la quota che abbiamo pagato al proprietario fondiario non ha mai oltrepassato i tre pence. Non solo: nel 1834, quando il pane era assai a buon mercato e il commercio prosperava, che ci dicevate? Se siete in condizioni miserevoli, è perché fate troppi figli, è perché il vostro matrimonio è più produttivo del vostro mestiere!
Questo ci dicevate allora; e siete andati a fare le nuove leggi per i poveri e a costruire quelle bastiglie dei proletari che sono le workhouses (I).
Ed ecco la risposta dei fabbricanti:
Avete ragione, signori operai; non è solo il prezzo del grano, ma anche la concorrenza fra le offerte di braccia che determina il salario.
Ma pensate a una cosa: il nostro suolo non si compone che di rocce e di banchi di sabbia. Pensate, per caso, che sia possibile far nascere il grano nei vasi da fiori? Ebbene, se invece di prodigare il nostro capitale e il nostro lavoro in un suolo del tutto sterile, abbandonassimo l'agricoltura e ci dedicassimo esclusivamente all'industria, tutta l'Europa abbandonerebbe le manifatture, e l'Inghilterra si trasformerebbe in una sola grande città che avrebbe per campagna il resto d'Europa.
Senonché mentre parla in tal modo ai propri operai, il fabbricante viene interpellato dal piccolo commerciante:
Ma, se aboliamo le leggi sul grano, roviniamo, sì, l'agricoltura, ma non per questo costringeremo gli altri paesi a rifornirsi nelle nostre fabbriche e ad abbandonare le loro! Risultato? Io perderò i miei affari con la campagna e il commercio interno perderà i suoi mercati.
Il fabbricante allora, volgendo le spalle agli operai, risponde al bottegaio:
Quanto a questo, lasciateci fare. Una volta abolita l'imposta sul grano, avremo dall'estero grano più a buon mercato. Poi abbasseremo il salario, che aumenterà contemporaneamente negli altri paesi donde ci riforniamo di grano.
Così, ai vantaggi che già abbiamo, si aggiungerà anche quello di un salario più basso, per cui, avvantaggiati in tanti modi, potremo ben costringere il continente a rifornirsi da noi.
Ma ecco unirsi alla discussione l'imprenditore agricolo e il bracciante.
E di noi, allora - dicono - che ne sarà?
Faremo morire l'agricoltura che ci fa vivere? Dovremo sopportare che ci si tolga il suolo di sotto ai piedi?
Per tutta risposta l'Anti-Corn-Law-League (II) si è accontentata di assegnare dei premi ai tre migliori scritti che trattino della salutare efficacia esercitata sull'agricoltura inglese dall'abolizione delle leggi sul grano.
Questi premi sono stati vinti dai signori Hope, Morse e Greg, i cui libri sono stati diffusi per le campagne a migliaia di copie.
Il primo dei premiati comincia col dimostrare che né l'imprenditore né il bracciante agricolo perderanno per la libera importazione del grano dall'estero, bensì solo il proprietario terriero: l'imprenditore agricolo inglese - esclama Hope - non ha nulla da temere dall'abolizione delle leggi sul grano, perché nessun paese può produrre grano di così buona qualità e così a buon mercato come l'Inghilterra.
Così, quand'anche il prezzo del grano precipitasse, ciò non vi recherebbe pregiudizio, dato che tale abbassamento inciderebbe solo sulla rendita, che diminuirebbe, e per nulla sul profitto del capitale e sul salario, che resterebbero invariati.
Il secondo premiato; il signor Morse, sostiene al contrario che il prezzo del grano aumenterà in seguito all'abolizione delle leggi sui cereali. E si affanna a dimostrare che mai dazi protettivi hanno potuto assicurare al grano un prezzo remunerativo.
A sostegno della sua asserzione il signor Morse cita il fatto che tutte le volte che è stato importato grano straniero, il prezzo del grano in Inghilterra è considerevolmente aumentato, mentre quando se ne importava poco, il prezzo diminuiva estremamente. Il premiato dimentica che non l'importazione era causa del prezzo elevato, ma che il prezzo elevato era causa dell'importazione.
E - tutt'al contrario del collega premiato - il signor Morse afferma che qualsiasi aumento del prezzo dei cereali va a profitto dell'imprenditore agricolo e del bracciante, e non a profitto del proprietario fondiario.
Il terzo premiato, il signor Greg, che è un grande industriale e il cui libro si rivolge alla classe dei grandi imprenditori agricoli, non poteva accontentarsi di simili sciocchezze. Il suo linguaggio è più scientifico. Greg ammette che le leggi sul grano non fanno aumentare la rendita se non facendo aumentare il prezzo del grano, e che non fanno aumentare il prezzo del grano se non costringendo il capitale ad applicarsi a terreni di qualità inferiore, e tutto ciò è naturale.
Man mano che la popolazione aumenta, se il grano straniero non può entrare nel paese, si è costretti a valorizzare terreni meno fertili, la cui coltivazione esige maggiori spese, e il cui prodotto di conseguenza è più caro.
Essendo quella del grano una vendita praticamente forzosa il suo prezzo si stabilirà su quello dei prodotti dei terreni più costosi. La differenza fra questi prezzi e le spese di produzione dei migliori terreni, costituisce la rendita.
Così, se in seguito all'abolizione delle leggi sul grano, il prezzo del grano, e di conseguenza la rendita, precipita, ciò avviene perché i terreni meno fertili cesseraano di essere coltivati. Dunque la riduzione della rendita implicherà senza fallo la rovina di una parte degli imprenditori agricoli.
Queste osservazioni erano necessarie per intendere il linguaggio del signor Greg
I piccoli imprenditori agricoli - dice - che non potranno più vivere con l'agricoltura, troveranno una risorsa nell'industria. Quanto ai grandi imprenditori, debbono guadagnarvi. O infatti i proprietari saranno costretti a vender loro estremamente a buon mercato le loro terre, ovvero i contratti di affitto che stipuleranno con loro saranno a scadenza quanto mai prolungata. Questo permetterà agli imprenditori agricoli di investire nella terra grandi capitali, d'impiegarvi macchine su più vasta scala e di risparmiare così lavoro manuale, che d'altronde sarà a più buon mercato per la diminuzione generale dei salari, conseguenza immediata dell'abolizione delle leggi sul grano.
Il dottor Bowring ha conferito poi a questi argomenti una con sacrazione religiosa, esclamando in un pubblico comizio: "Gesù Cristo è il libero scambio; il libero scambio è Gesù Cristo!".
Si comprende ora come tutta questa ipocrisia non era la più adatta per far gustare agli operai il pane a buon mercato.
Del resto, come avrebbero potuto gli operai comprendere l'improvvisa filantropia degli industriali, che erano ancora impegnati a combattere la Legge delle dieci ore (78), con cui si voleva ridurre da dodici a dieci ore la giornata lavorativa nelle fabbriche?
Per darvi un'idea della filantropia di questi industriali, vi ricorderò, signori, i regolamenti stabiliti in "tutte le fabbriche.
Ogni industriale possiede, per suo uso privato, un vero e proprio codice penale in cui sono fissate ammende per tutte le mancanze degli operai, volontarie o involontarie. Ad esempio, l'operaio pagherà un tanto, se per sua disgrazia si siede su una sedia, o borbotta, o chiacchiera, o ride, o arriva con alcuni minuti di ritardo, o una parte della macchina si rompe o non consegna gli oggetti di una determinata qualità, ecc. ecc. Le ammende son sempre superiori al danno effettivamente causato dall'operaio. E per dargli poi ogni possibilità di incorrere nelle penalità stabilite, si fa avanzare l'orologio della fabbrica e si danno all'operaio materie prime scadenti, con la pretesa che ne tragga dei buoni prodotti. E persino si destituisce il capo reparto che non sia abbastanza abile nell'arte di moltiplicare i casi di contravvenzione.
Lo vedete, signori, questa legislazione privata è fatta apposta per generare contravvenzioni; le quali sono un'altra fonte da cui ricavare denaro. Così il fabbricante ricorre a tutti i mezzi per ridurre il salario nominale e per sfruttare perfino gli incidenti di cui l'operaio non può essere responsabile.
E questi stessi industriali sono i filantropi che volevano far credere agli operai di volersi sobbarcare a enormi spese unicamente per migliorare la loro sorte.
Così, da un lato questi signori assottigliano il salario dell'operaio attaccandosi ai regolamenti di fabbrica nel modo più meschino, dall'altro si impongono i più grandi sacrifici per farlo aumentare per mezzo dell'Anti-Corn-Law-League.
Costruiscono, spendendo somme enormi, dei palazzi ove la Lega stabilisca in qualche modo la sua sede ufficiale; inviano un esercito di missionari in tutti i punti dell'Inghilterra a predicare la religione del libero scambio; fanno stampare e distribuire gratis migliaia di opuscoli per illuminare l'operaio sui suoi interessi; spendono milioni per guadagnare la stampa alla loro causa; organizzano una vasta amministrazione per dirigere i movimenti liberoscambisti; infine sfoggiano tutta la ricchezza della loro eloquenza in pubblici comizi. Fu appunto in uno di questi comuni che un operaio gridò:
"Se i proprietari fondiari vendessero le nostre ossa, voi altri industriali sareste i primi a comprarle, per gettarle in un mulino a vapore e farne farina ".
Gli operai .inglesi hanno compreso assai bene il significato della lotta fra i proprietari fondiari e i capitalisti. Essi sanno fin troppo bene che si voleva abbassare il prezzo del pane per diminuire il salario e che il profitto industriale sarebbe aumentato di quanto fosse diminuita la rendita.
Ricardo, l'apostolo dei liberoscambisti inglesi, il più eminente economista del nostro secolo, su questo punto si trova perfettamente d'accordo con gli operai.
Nella sua celebre opera sull'economia politica egli scrive:
"Se invece di raccogliere il grano in casa nostra... scoprissimo un nuovo mercato ove potessimo procurarci questo prodotto a miglior prezzo, in tal caso i salari dovrebbero diminuire e i profitti aumentare... La diminuzione del prezzo dei prodotti agricoli riduce non solo i salari dei lavoratori occupati nell'agricoltura, ma anche quelli di tutti coloro che lavorano nell'industria e nel commercio "(254).
E non crediate, signori, che per l'operaio sia indifferente ricevere 4 franchi invece di 5, pur essendo il grano più a buon mercato. Non è forse il suo salario diminuito in rapporto al profitto? E non è chiaro che la sua posizione sociale è peggiorata nei confronti del capitalista? Ma oltre a ciò egli perde anche di fatto.
Finché il prezzo del granò era più elevato, come pure il salario, un piccolo risparmio fatto sul consumo del pane era sufficiente all'operaio per soddisfare altri bisogni; ma dal momento che il prezzo del pane e, di conseguenza, il salario, sono a un livello molto basso, non gli sarà più possibile economizzare sul pane per procurarsi altri oggetti.
Gli operai inglesi hanno fatto capire ai liberoscambisti che non si lasciano abbindolare dalle loro illusorie menzogne; e se, ciononostante, si sono alleati a loro contro i proprietari fondiari, lo hanno fatto per distruggere gli ultimi avanzi del feudalesimo e per non aver più di fronte che un solo nemico. E non si sono ingannati nei loro calcoli, poiché i proprietari fondiari, per vendicarsi degli industriali, hanno fatto causa comune con gli operai per far approvare la Legge delle dieci ore, che gli operai per trent'anni avevano tentato invano di far approvare, e che passò invece immediatamente dopo l'abolizione dei dazi sui cereali.
Se al congresso degli economisti (III) il dottor Bowring ha tratto di tasca una lunga lista per mostrare le quantità di bestiame, di prosciutto, di lardo, di polli, ecc. ecc., che sono state importate in Inghilterra per il consumo - dice lui - degli operai, egli ha disgraziatamente dimenticato di dire, che, nello stesso momento, gli operai di Manchester e delle altre città industriali si trovavano sul lastrico per la crisi che si iniziava.
In economia politica non bisogna mai, per principio, raggruppare le cifre di un solo anno per trame delle leggi generali. Bisogna sempre considerare il termine medio di sei o sette anni, lasso di tempo durante il quale l'industria moderna passa per le diverse fasi di prosperità, di sovrapproduzione, di ristagno, di crisi e conclude il suo ciclo fatale (192).
Indubbiamente se il prezzo di tutte le merci diminuisce, ed è questa la conseguenza necessaria del libero scambio, sarà possibile procurarsi con un franco assai più cose di prima. E il franco di un operaio vale il franco di qualsiasi altro. Dunque il libero scambio sarà molto vantaggioso per l'operaio. C'è solo un piccolo inconveniente: cioè che l'operaio, prima di scambiare il suo franco con altre merci, ha operato lo scambio del suo lavoro col capitale. Se in questo scambio ricevesse sempre per lo stesso lavoro il franco in questione, e contemporaneamente il prezzo di tutte le altre merci diminuisse, in questo scambio egli guadagnerebbe sempre. Il difficile non consiste nel dimostrare che, diminuendo il prezzo di tutte le merci, si ottengano più merci per il medesimo denaro.
Gli economisti considerano sempre il prezzo del lavoro nel momento in cui viene scambiato contro altre merci; ma trascurano completamente il momento in cui il lavoro opera il suo scambio col capitale.
Se occorrono meno spese per mettere in moto la macchina che produce le merci, anche le cose necessarie per mantenere questa macchina, che si chiama lavoratore, costeranno meno care. Se tutte le merci sono più a buon mercato, il lavoro, che è anch'esso una merce, diminuirà egualmente di prezzo, e, come vedremo in seguito, questo lavoro-mercé diminuirà in proporzione assai più che le altre merci. Se il lavoratore si affida agli argomenti degli economisti, si accorgerà che il franco gli si è fuso in tasca e che non gli restano più di cinque soldi.
Allora gli economisti vi diranno: ebbene, ammettiamo che la concorrenza fra gli operai, che certo non sarà diminuita in regime di libero scambio, non tarderà ad adeguare i salari al basso prezzo delle merci. Ma d'altra parte il basso prezzo delle merci farà aumentare il consumo; il maggior consumo esigerà una maggiore produzione, la quale comporterà una più forte domanda di mano d'opera; e a questa più forte domanda di mano d'opera seguirà un aumento dei salari.
Tutto questo ragionamento si riduce a questo: il libero scambio aumenta le forze produttive. Se l'industria si sviluppa, se la ricchezza, se la potenza produttiva, se in una parola il capitale produttivo fa aumentare la domanda di lavoro, aumenta anche il prezzo del lavoro, e, di conseguenza, il salario. Dunque la miglior condizione per l'operaio è l'accrescimento del capitale. E bisogna convenirne. Se invece il capitale resta stazionario, l'industria non si limiterà a restare stazionaria, ma declinerà, e in questo caso l'operaio ne sarà la prima vittima. Andrà in malora prima del capitalista. E nel caso in cui il capitale si accresce, caso che abbiamo definito il migliore per l'operaio, quale sarà la sua sorte? Andrà egualmente in malora. L'accrescimento del capitale produttivo implica l'accumulazione e la concentrazione dei capitali. La centralizzazione dei capitali determina una maggior divisione del lavoro e un maggiore impiego di macchine. La maggior divisione del lavoro distrugge la specializzazione del lavoro, distrugge l'abilità particolare del lavoratore e, sostituendo a questa un lavoro che ciascuno può compiere, aumenta la concorrenza fra gli operai.
Concorrenza che diventa tanto più forte quanto più la divisione del lavoro fornisce all'operaio i mezzi per compiere da solo il lavoro di tre. Le macchine portano allo stesso risultato su scala ancora molto più vasta. L'accrescimento del capitale produttivo, costringendo i capitalisti industriali a lavorare con mezzi sempre più cospicui, manda in rovina i piccoli industriali e li precipita nel proletariato. Poi, siccome il tasso dell'interesse diminuisce a misura che i capitali si accumulano, i piccoli rentiers che non possono più vivere delle loro rendite saranno costretti a rivolgersi all'industria e ad ingrossare cosi le file dei proletari.
Infine, più il capitale produttivo aumenta, più è costretto a produrre per un mercato di cui non conosce i bisogni; più la produzione precede il bisogno, più l'offerta cerca di forzare la domanda, e, di conseguenza, le crisi aumentano di intensità e di rapidità. Ma ogni crisi, a sua volta, accelera la centralizzazione dei capitali e ingrossa il proletariato
Così, a misura che il capitale produttivo si accresce, la concorrenza fra gli operai si accresce in proporzione assai maggiore. La retribuzione del lavoro diminuisce per tutti e il fardello del lavoro aumenta per alcuni.
Nel 1829 c'erano a Manchester 1.088 filatori occupati in 36 fabbriche. Nel 1841 c'erano solo 448 filatori, i quali però facevano funzionare 53.353 fusi in più che non i 1.088 operai del 1829. Se il lavoro manuale fosse aumentato proporzionalmente al potere produttivo, il numero degli operai avrebbe dovuto raggiungere la cifra di 1.848: dunque i miglioramenti tecnici hanno tolto il lavoro a 1.100 operai (255).
Noi sappiamo già quale sarà la risposta degli economisti. Questi uomini privati del lavoro, essi dicono, troveranno un altro impiego. Il dottor Bowring non ha mancato di portare questo argomento al congresso degli economisti, ma non ha neppur mancato di smentirsi da se stesso.
Nel 1835 il dottor Bowring pronunciò un discorso alla Camera dei comuni a proposito dei 50.000 tessitori di Londra che da molto tempo muoiono di inedia senza riuscir a trovare questa nuova occupazione che i liberoscambisti fanno loro intravedere da lontano.
Ecco qui i passi salienti del discorso del dottor Bowring:
"La miseria dei tessitori a mano è il destino inevitabile di qualsiasi lavoro che si apprenda facilmente e che sia suscettibile di essere sostituito ad ogni istante da mezzi meno costosi. Poiché in questo caso la concorrenza fra gli operai è estremamente grande, la minima caduta della domanda porta a una crisi. I tessitori a mano si trovano in certo qual modo ai limiti dell'esistenza umana. Un passo ancora, e la loro esistenza diviene impossibile. La minima scossa è sufficiente a gettarli sulla strada della rovina. I progressi della meccanica, sopprimendo sempre più il lavoro manuale, comportano senza fallo, durante il periodo di transizione, molte sofferenze temporanee. Il benessere nazionale non si può acquistare che a prezzo di qualche male individuale. Nell'industria, si avanza solo a spese di chi rimane indietro; e fra tutte le scoperte, il telaio a vapore è quella che più grava sui tessitori a mano. Già in molti articoli che venivano fabbricati a mano il tessitore è stato posto fuori combattimento, ma sarà battuto in molti altri prodotti che si fabbricano ancora a mano."
"Ho qui sottomano ", dice il dott. Bowring più avanti, " una corrispondenza fra il governatore generale e la compagnia delle Indie Orientali. Queste lettere concernono i tessitori del distretto di Dacca. Dice il governatore nelle sue lettere: Qualche anno fa la Compagnia delle Indie Orientali riceveva da sei a otto milioni di pezze di cotone che venivano fabbricate dai telai a mano del paese; la domanda diminuì costantemente e si ridusse a un milione di pezze circa.
In questo momento è quasi completamente cessata. Inoltre, nei 1800 l'America del Nord ha importato dalle Indie circa 800.000 pezze di cotone. Nel 1830 non ne importò neppure 4.000. Infine, nel 1800 vennero spedite in Portogallo un milione di pezze di cotone. Nel 1830 il Portogallo non ne riceveva più che 20.000.
Le relazioni sulla miseria dei tessitori indiani sono terribili. Ma quale fu l'origine di questa miseria?
La comparsa sul mercato dei prodotti inglesi; la produzione dell'articolo per mezzo dei telai a vapore. Un gran numero di tessitori è morto d'inedia; il resto si è dato ad altre occupazioni, soprattutto ai lavori agricoli. Non poter cambiare occupazione, significa per questa gente la morte. In questo momento il distretto di Dacca rigurgita di filati e di tessuti inglesi. La mussola di Dacca, rinomata in tutto il mondo per la bellezza e per la solidità del tessuto, è egualmente scomparsa in seguito alla concorrenza delle macchine inglesi. In tutta la storia dell'industria si stenterebbe forse a trovare sofferenze simili a quelle che in questo modo classi intere hanno dovuto sopportare nelle Indie Orientali " (256).
Il discorso del dottor Bowring è tanto più degno di nota in quanto i fatti in esso citati sono esatti e le frasi con cui egli cerca di attenuarli portano nettamente impresso quel carattere di ipocrisia che è comune a tutti i sermoni liberoscambisti. Bowring presenta gli operai come mezzi di produzione che è necessario sostituire con altri mezzi di produzione meno costosi. Egli finge di vedere nel lavoro di cui parla un lavoro del tutto eccezionale, e nella macchina che ha schiacciato i tessitori una macchina altrettanto eccezionale. Dimentica che non vi è lavoro manuale che non sia suscettibile di subire da un momento all'altro la sorte dell'industria tessile.
"Lo scopo costante e la tendenza di ogni perfezionamento meccanico è, in effetti, di eliminare interamente il lavoro dell'uomo o di diminuirne il prezzo, sostituendo agli operai adulti le donne e i fanciulli; ovvero all'abile artigiano l'operaio non qualificato. Nella maggior parte delle filande a telai continui - in inglese throstle-mills - la filatura viene interamente eseguita da ragazze da sedici anni in giù (IV). L'introduzione del self-actor al posto della hand-mule (89) ha avuto per effetto il licenziamento della maggior parte dei filatori e l'assunzione di fanciulli e di adolescenti."
Queste parole di uno dei più accaniti sostenitori del libero scambio, il dottor Ure (257), servono a completare le confessioni di Bowring, il quale parla di alcuni mali individuali e dice, nel medesimo tempo, che questi mali individuali mandano in rovina intere classi; il quale parla di sofferenze passeggere del periodo di transizione e in pari tempo non dissimula il fatto che queste sofferenze passeggere hanno significato per i più il passaggio dalla vita alla morte e per i restanti il passaggio da una condizione migliore a una peggiore. Quando dice, in seguito, che le sventure di questi operai sono inseparabili dal progresso dell'industria e necessarie al benessere nazionale, egli afferma semplicemente che il benessere della classe borghese ha per condizione necessaria la miseria della classe lavoratrice.
Tutto il discorso di Bowring per consolare gli operai che muoiono e, in generale, tutta la dottrina di compensazione dei liberoscambisti si riduce a questo:
Voi, migliaia di operai che morite, non doletevene. Voi potete morire in tutta tranquillità. La vostra classe non perirà. Essa sarà sempre tanto numerosa che il capitale la potrà decimare senza temere di annientarla. D'altronde, come volete che il capitale trovi un impiego utile se non avesse cura di tenersi costantemente in serbo la materia da sfruttare, gli operai, per sfruttarli di nuovo?
Ma perché si deve considerare non ancora risolto il problema dell'influenza che la realizzazione del libero scambio eserciterà sulla situazione della classe operaia? Tutte le leggi esposte dagli economisti, da Quesnay a Ricardo, sono fondate sul presupposto che gli ostacoli che impacciano ancora la libertà di commercio non esistano più. Queste leggi trovano la loro conferma a misura che il libero scambio si realizza.
La prima di queste leggi è che la concorrenza riduce il prezzo di ogni mercé al minimo del suo costo di produzione. Così il minimo di salario è il prezzo naturale del lavoro. E che cosa è il minimo di salario? È esattamente ciò che è necessario per far produrre gli oggetti indispensabili al sostentamento dell'operaio, per metterlo in condizioni di nutrirsi bene o male e di propagare alla meglio la propria classe.
Se non crediamo per questo che l'operaio avrà solo un tale minimo di salario, tanto meno crediamo che egli avrà sempre questo minimo di salario.
No, secondo questa legge la classe operaia sarà qualche volta più fortunata. Avrà qualche volta più del minimo; ma questo sovrappiù non sarà che la compensazione di ciò che essa avrà in meno del minimo nei periodi di stasi industriale: questo significa che in un certo periodo di tempo ricorrente, in quel ciclo che l'industria compie passando attraverso le fasi di prosperità, di sovrapproduzione, di ristagno, di crisi, calcolando tutto ciò che la classe operaia avrà avuto in più o in meno del necessario, si vedrà che tutto sommato non avrà avuto né più né meno del minimo; essa si sarà cioè conservata come classe dopo avere lasciato dietro di sé tanto di sventure, tanto di miserie, tanto di cadaveri sul campo di battaglia dell'industria. Ma che importa? La classe sussiste sempre e, ciò che è meglio, si sarà accresciuta.
Ma non è tutto. Il progresso dell'industria produce mezzi di sussistenza meno costosi. Così l'acquavite ha sostituito la birra, il cotone ha sostituito la lana ed il lino e la patata ha sostituito il pane.
Così, poiché si trovano sempre dei mezzi per alimentare il lavoro con prodotti meno cari, più miserabili, il minimo del salario va continuamente diminuendo. Se questo salario ha cominciato a far lavorare l'uomo per vivere, finisce per far vivere all'uomo una vita da macchina. La sua esistenza non ha altro valore che quello di una pura e semplice forza produttiva; e il capitalista lo tratta in conseguenza.
Questa legge del lavoro-merce, del minimo del salario, si verificherà a misura che il presupposto degli economisti, il libero scambio, sarà divenuto una realtà, un'attualità. Così, delle due possibilità l'una: o è necessario rinnegare tutta l'economia politica basata sul presupposto del libero scambio, ovvero bisogna convenire che in regime di libero scambio gli operai saranno colpiti da tutto il rigore delle leggi economiche.
Per riassumere: nello stato attuale della società, che cosa è dunque il libero scambio? È la libertà del capitale. Quando avrete lasciato cadere quei pochi ostacoli nazionali che raffrenano ancora la marcia del capitale, non avrete fatto che dare via libera alla sua attività. Finché lasciate sussistere il rapporto fra il lavoro salariato ed il capitale, lo scambio delle merci fra loro avrà un bel verificarsi nelle condizioni più favorevoli; vi sarà sempre una classe che sfrutterà e una classe che sarà sfruttata. Davvero è difficile comprendere la pretesa dei liberoscambisti, i quali immaginano che l'impiego più vantaggioso del capitale farà scomparire l'antagonismo fra i capitalisti industriali ed i lavoratori salariati. Al contrario, il risultato sarà che l'opposizione fra le due classi si delineerà più nettamente ancora.
Ammettete per un momento che non vi siano più leggi sui cereali, più dogane, più dazi, che insomma siano interamente scomparse tutte le circostanze accessorie, a cui l'operaio può ancora imputare la colpa della propria situazione miserevole, ed avrete strappato altrettanti veli che attualmente coprono ai suoi occhi il vero nemico.
Egli vedrà che il capitale divenuto libero non lo rende meno schiavo del capitale vessato dalle dogane.
Signori, non vi lasciate suggestionare dalla parola astratta di libertà. Libertà di chi? Non è la libertà di un singolo individuo di fronte a un altro individuo. È la libertà che ha il capitale di schiacciare il lavoratore.
Come volete ancora sanzionare la libera concorrenza con questa idea di libertà quando questa stessa libertà non è che il prodotto di uno stato di cose basato sulla libera concorrenza?
Abbiamo mostrato che cosa sia la fraternità che il libero scambio fa nascere fra le varie classi di una sola e medesima nazione. La fraternità che il libero scambio stabilirebbe fra le varie nazioni della terra non sarebbe molto più fraterna. Designare col nome di fraternità universale lo sfruttamento giunto al suo stadio internazionale, è un'idea che poteva avere origine solo in seno alla borghesia. Tutti i fenomeni di distruzione che la libera concorrenza fa sorgere all'interno di un paese si riproducono in proporzioni più gigantesche sul mercato mondiale. Non abbiamo bisogno di soffermarci più a lungo sui sofismi spacciati a questo proposito dai liberoscambisti, che valgono quanto gli argomenti dei nostri tre premiati, i signori Hope, Morse e Greg.
Ci si dice per esempio che il libero scambio farebbe nascere una divisione internazionale del lavoro che assegnerebbe a ciascun paese una produzione in armonia con i suoi vantaggi naturali.
Voi pensate forse, signori, che la produzione del caffè e dello zucchero sia il destino naturale delle Indie Occidentali. Ebbene, due secoli fa la natura, che non si immischia troppo nelle faccende commerciali, non vi aveva messo né la pianta del caffè, né la canna da zucchero.
E non passerà forse mezzo secolo che non vi troverete più né caffè né zucchero, perché le Indie Orientali, con la loro produzione più a buon mercato, hanno già vittoriosamente combattuto questo preteso destino naturale delle Indie Occidentali. E queste Indie Occidentali con i loro "doni naturali sono già per gli inglesi un fardello così pesante come i tessitori di Dacca, che, essi pure, erano destinati dall'origine dei tempi a tessere a mano.
Una cosa ancora non bisogna mai perdere di vista: come tutto è divenuto monopolio, vi sono ai nostri giorni anche alcuni rami industriali che dominano tutti gli altri e che assicurano ai popoli che li sfruttano di più l'impero sul mercato mondiale. Ecco perché nel commercio internazionale il cotone ha da solo un valore commerciale molto maggiore di quello che hanno, prese insieme, tutte le altre materie prime impiegate nella fabbricazione degli abiti. È davvero ridicolo vedere i liberoscambisti indicare alcune specialità in ogni ramo industriale per contrapporle ai prodotti d'uso comune che si producono a un prezzo minimo nei paesi ove l'industria è più sviluppata.
Se i liberoscambisti non possono comprendere come un paese possa arricchirsi a spese di un altro, non dobbiamo stupircene; poiché questi stessi signori non vogliono neppure comprendere come all'interno di un paese una classe possa arricchirsi a spese di un'altra classe.
Non crediate, signori, che facendo la critica della libertà commerciale abbiamo l'intenzione di difendere il sistema protezionista. Si può essere nemici del regime costituzionale senza essere per questo amici dell'assolutismo.
D'altronde, il sistema protezionista non è che un mezzo per impiantare presso un popolo la grande industria, ossia per farlo dipendere dal mercato mondiale, e dal momento che si dipende dal mercato mondiale, si dipende già più o meno dal libero scambio. Oltre a ciò, il sistema protezionista contribuisce a sviluppare la libera concorrenza all'interno di un paese. Per questo noi vediamo che nei paesi in cui la borghesia comincia a farsi valere come classe, in Germania ad esempio, essa compie grandi sforzi per avere dei dazi protettivi. Sono queste le sue armi contro il feudalesimo e contro il governo assoluto, è questo un suo mezzo di concentrare le proprie forze per realizzare il libero scambio all'interno dello stesso paese.
Ma in generale ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e spinge all'estremo l'antagonismo fra la borghesia e il proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale. È solamente in questo senso rivoluzionario, signori, che io voto in favore del libero scambio.
Dal francese.
Note
I) case di lavoro
II) Lega contro le leggi sul grano
III) Su questo congresso vedi pp. 291-295 e 299-308 del presente volume.
IV) In Andrew Ure, " The Philosophy of Manufactures... ", London 1861, p. 23: upwards [in su]
44) Nel giugno 1846 fu approvata la legge che aboliva i dazi sul grano. Le cosiddette leggi sul grano, che miravano a limitare o vietare l'importazione di cereali, erano state introdotte nell'interesse dei grandi proprietari fondiari inglesi. La loro abolizione fu una vittoria della borghesia industriale, che si era battuta contro di esse sotto la parola d'ordine del libero scambio.
78) La Legge delle 10 ore, che riguardava soltanto i ragazzi e le donne, fu approvata dal parlamento inglese l'8 giugno 1847; ma molti fabbricanti non lo osservavano.
89) Dopo l'invenzione di Wyatt (1735), si hanno in Inghilterra continui progressi nella meccanizzazione della filatura, che sono di grande importanza per lo sviluppo del capitalismo. James Hargreaves costruisce intorno al 1764 la "spinning jenny" (dal nome della figlia Jenny), che ha vari pregi rispetto alle filatrici preesistenti, ma è ancora azionata a mano. Sir Richard Arkwright perfeziona in vari modi la filatrice ideata da Lewis Paul nel 1738 e soprattutto, negli anni 1769-1771, utilizza la forza idraulica. Questa filatrice assume il nome di "throstle" (tordo). Nel 1779 Samuel Crompton costruisce una macchina che combina le caratteristiche della jenny e della throstle, chiamandola "mule jenny" o semplicemente "mule" (mulo, bastardo, che unisce due nature). Nel 1825 si ha infine la "selfacting mule" (mule automatica) o "selfactor" (automatico), la filatrice automatica di Richard Robert.
253) II " Discorso sulla questione del libero scambio " di Marx fu pubblicato a Bruxelles in francese, come opuscolo, all'inizio di febbraio 1848; lo stesso anno apparve in Germania la traduzione tedesca curata da Joseph Weydemeyer. Nel 1885, per desiderio di Engels, questo scritto fu annesso come appendice alla prima edizione tedesca di "Miseria della filosofia", e come tale ristampato più volte in edizioni successive. La prima traduzione russa, curata da Plechanov, fu pubblicata nel 1885 come opuscolo a Ginevra dal gruppo marxista russo Liberazione del lavoro. Nel 1889 apparve a Boston un'edizione americana con una prefazione di Engels, già pubblicata come articolo sulla "Neue Zeit", luglio 1888, sotto il titolo "Dazio protettivo e libero scambio". La prima traduzione italiana apparve su "Critica sociale , Milano, IV, 1894, sotto il titolo "Libero scambio e socialismo".
254) Marx cita secondo l'edizione francese dell'opera di David Ricardo, " Des principes de l'economie politique et de l'impót" (trad. di F.-S. Constando, con note esplicative e critiche di J.-B. Say), II edizione, voll. 1-2, Parigi, 1835, pp. 178-179.
255) Nella prima edizione francese e nelle edizioni successive c'è probabilmente un errore di stampa; si dovrà leggere: 1548 invece di 1848, oppure: 1400 operai invece di 1100 operai.
256) II discorso tenuto da Bowring il 28 luglio 1835 alla Camera dei comuni è pubblicato in "Hansard's Parliamentary Debates: Third Series... Voi. XXIX ", Londra, 1835. I passi citati si trovano alle colonne 1168-1170. Questa parte del discorso di Bowring è riportata anche in Atkinson, " Principles of Political Economy ", Londra, 1840, pp. 36-38; da quest'opera derivano gli estratti di Marx.
257) Marx cita l'opera di Andrew Ure, "Phidosophie des manufactures ou economie industrielle... ", vol. I, Bruxelles, 1836. Per il presente volume si è con frontata la terza edizione inglese: "The Philosophy of Manufactures: or, an Exposition of thè Scientific, Moral, and Commercial Economy...", Londra, 1861, dove il passo citato si trova a p. 23

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