IL FALLIMENTO
SOCIALE DEL CAPITALISMO
di Fausto Rinaldi
La crisi del 2007
ha sancito – anche per i più disattenti - un clamoroso fallimento del mercato; meno
evidente, ma ugualmente bruciante (almeno per la pletora di economisti
neoliberisti “organici”, corifei del consolidato ordine borghese) quello della
proprietà e produzione privata.
Come ampiamente
dimostrato in occasione di passate crisi sistemiche, il capitale, fiero
osteggiatore dell’ intervento statale a tutela delle fasce più deboli della
popolazione, torna a concepire un intervento dello Stato per soccorrere il
sistema creditizio e industriale attraverso forme di finanziamento che possano
“aggiustare” i danni prodotti dagli eccessi degli “spiriti animali” incarnati
dagli imprenditori rampanti e, nel caso in questione, finiti con le chiappe a
bagno. Quindi, ecco che si invocano interventi per ripianare i buchi di
bilancio dell’ allegro sistema bancario, lanciatosi a capofitto nel vortice
della finanza strutturata e riempitosi di titoli del tutto inesigibili; oppure,
richiedere provvedimenti legislativi a sostegno della produzione, incentivi,
sgravi, etc..: il più classico degli esempi di privatizzazione dei profitti e
socializzazione delle perdite.
In ogni Paese
capitalista, la funzione subordinata dello Stato nei confronti degli interessi
del capitale è sistematicamente sottintesa; anche laddove l’ aiuto statale
preveda l’ acquisizione di quote di maggioranza di una banca o di una società,
la prassi è quella di un non coinvolgimento nella loro diretta gestione.
E’ evidente che,
fino a quando non si porrà termine a questi squilibri, la speranza che la
collettività possa prendere possesso delle sorti macro economiche dei Paesi
resterà confinata nell’ ordine di una mera, improbabile possibilità.
Il tentativo di
risolvere la crisi attraverso aiuti agli imprenditori privati (pronti, al
momento opportuno, ad aumentare il metraggio degli scafi dei propri yacht con i
denari pubblici) o dilapidando fortune di soldi pubblici nel pozzo senza fondo
della smisurata insolvenza delle banche - che, comunque, continuano a
tesaurizzare questi fondi senza immetterli nel circuito del credito – non può
che condurre ad un ulteriore peggioramento dei conti statali, sulla base dei
quali l’occhiuta UE determina politiche di sanguinolento rigore a carico delle
popolazioni.
E’ di assoluta
priorità la creazione di un sistema pubblico che sia in grado di competere
convenientemente con quello privato, soprattutto nelle produzioni di merci e
servizi di primaria importanza per il benessere della collettività (sistema
bancario, sanità, energia, infrastrutture, servizi di pubblica utilità, etc.);
sarà decisivo slegare il management dal controllo partitico – sistema ad alta
corruzione aggiunta che ha caratterizzato il malaffare e la commistione con gli
“interessi di corridoio” delle grandi imprese private - creando un’ etica che
abbia come base fondativa quella del perseguimento, bilanci alla mano, degli
interessi della popolazione; in funzione, cioè, di tutti quei principi
dimenticati nella deificazione anarchica della ricerca del profitto ad ogni
costo, come, ad esempio, la salvaguardia dell’ ambiente e della salute morale,
psicologica e fisica delle comunità; inoltre, curando che le meccaniche di
funzionamento del sistema siano scandite da rigorosi principi di rotazione da
parte dei vertici aziendali, allo scopo di evitare quei fenomeni di sclerotizzazione
partitica, di stampo para feudale, che hanno condotto a contaminare la gestione
politica dell’ esistenza dei cittadini.
Inoltre, va
affrontato con decisione il problema dello sviluppo delle forze produttive e i
rapporti di produzione: infatti, le scoperte tecnologiche degli ultimi anni
hanno dischiuso enormi possibilità di liberare tempo vitale per gli individui,
anziché declinarne gli effetti verso la creazione di drammi sociali, attraverso
l’ esclusione dal mondo del lavoro e la crescita di una disoccupazione buona
solo a ridurre il costo del lavoro, ad uso e consumo del capitale.
Laddove, quindi,
non si vorranno cedere tutti i vantaggi ad esclusivo appannaggio all’ interesse
privato, sarà possibile ridurre considerevolmente l’ orario di lavoro, per includere
nei processi produttivi anche quella fascia di persone che ne sono escluse,
ampliando, nel contempo, le possibilità esistenziali di lavoratori che potranno
così usufruire di più tempo libero che, sgravato da obblighi forzosi, potrà
permettere di ricreare un modello esistenziale più soddisfacente ed
equilibrato, liberato dalle eterne catene della produzione coatta di
plusvalore.
Esistono enormi
possibilità di creazione di benessere pubblico; se solo fossimo capaci di
liberarci delle gabbie ideologiche innalzate dal sistema di potere
capitalistico e dai suoi prezzolati corifei, appartenenti all’ intellighenzia
borghese, al mondo accademico e scientifico, al giornalismo di regime.
Si tratta, una
volta per tutte, di strappare tutte le ricchezze prodotte dalla società dalle
rapaci mani dell’interesse privato, rovesciato nell’ estorsione da quelle
istituzioni che dovrebbero limitarne la vocazione predatoria.
In una parola,
vanno scardinati quei principi di stampo neoliberista attraverso i quali le
popolazioni sono state inchiodate al complesso di colpa originario del “debito
pubblico”, e alle quali è stata avvelenata l’ esistenza perché inesorabilmente
sottoposte alle perverse logiche vomitate dall’imperio capitalistico.
La via verso un
socialismo non produttivista e solidale è, più che mai, reale.
Solo attraverso la
capacità di prospettare un modello sociale ed economico diverso e innovativo si
potrà dare una risposta alla crisi culturale e civile, prima ancora che
economica, che attanaglia le società occidentali a capitalismo avanzato.
Si sarà capito,
leggendo fin qui: aveva ragione Marx quando osservava che la borghesia tutto
traduce in termini economici; che, nella modernità borghese, il denaro è,
finalmente e in senso assoluto, la misura di ogni valore; che, nel mondo
borghese, i rapporti sociali non sono altro che l’organica e coerente
manifestazione del processo di accumulazione del capitale.
E aveva ragione
GuyDebord quando descriveva la società contemporanea a capitalismo maturo come
“teatro della merce”, dove lo spirito del valore monetario domina, ridefinendo
tutti i valori a partire da sé.
Nella mente
borghese alberga solamente la logica dell’utile, del conveniente, del
profittevole; il mondo borghese è il mondo dei calcoli economici e del mercato;
la borghesia esiste, pensa, lavora, si ingegna per l’ unico estremo fine
dell’accrescimento del capitale, stella polare di una vita degna e operosa.
E’ in questo buio
antro di prospettive esistenziali recise che l’uomo moderno deve riprodurre la
propria vita, con le devastanti conseguenze di fronte ai nostri occhi.
I valori borghesi
hanno invaso e pervaso la coscienza collettiva, asservendo alle proprie logiche
le vittime stesse della società capitalistica. Attraverso la sublimazione dei
consumi a scopo ultimo dell’esistenza, si sono corrotte menti e distrutte
esistenze.