BOBO, I “COMUNISTI” E IL PIFFERAIO DI HAMELIN
di
Norberto
Fragiacomo
Che tipo di pensieri passa per la testa di Bobo?
A giudicare dalle strisce che leggiucchio insofferente su
L’Espresso, roba banale, stantia, concetti vacui che rassomigliano ad altrettanti
slogan. Ma Bobo è questo, solo questo: un militante imbevuto di uno spettro
d’ideologia, cui non importa un fico secco di apparire acuto, curioso e originale.
Lui si contenta – si compiace – di essere fedele alla linea, ancorché curva,
serpentinata, contorta. La linea, quale che sia, ovunque lo conduca.
Sergio Staino, l’autore, parla, giudica e urla come la sua
creatura, anche se di quest’ultima gli difetta la bonarietà, l’aspetto pacioso:
fisiognomicamente mi ispira schietta antipatia, per via dello sguardo miope, ma
freddo, ostile, corrucciato. In televisione non fa una gran figura, mischiando scomuniche
a corbellerie – perché ce lo mandano allora?
La risposta è semplice, disarmante: Bobo Staino parla al
pancione del PD, grosso almeno quanto quello di un personaggio che, nei
decenni, ha cambiato bandiera senza cambiare casacca. Sarei tentato di
aggiungere: si è rincretinito senza invecchiare… ma probabilmente l’analisi è pietosa,
perché anche quando stava dalla parte (per me) giusta, Bobo era lì per caso –
per imprinting familiare, per disciplina di partito, per abitudine, per
incapacità di guardare altrove.
Non so se valga lo stesso per Staino: lui non è certo un
metalmeccanico, ha fatto carriera, arrivando persino a dirigere l’ombra
di quella che fu L’Unità. Ha fatto carriera soprattutto negli ultimi anni,
all’interno di una formazione che un marxista autentico non potrebbe che
detestare: il PD sfacciatamente neoliberista di Matteo Renzi. Ci fa o ci è?, si
direbbe in altre parti d’Italia. A parer mio “ci fa”, visto il tornaconto, ma
la questione è in fondo priva di importanza: a tornare utili alla segreteria sono
le sue plebee, sgangherate invettive, che arrivano dritte al cuore (allo
stomaco? alla tessera?) di una fascia di elettorato difficile da conquistare a
colpi di tweet.
Qualche giorno fa, ospite per l’ennesima volta di Lilli
Gruber, il fumettista fiorentino ha rilanciato l’anatema: si inizia con Grillo
e si finisce all’ombra della croce uncinata. Analisi da osteria, conclusioni da
codice penale – eppure c’è del metodo in questo caricaturale dogmatismo. Ne ho
conosciuti di piddini, vecchi e giovani, uomini e donne: una quota rilevante di
loro assomiglia sul serio a Bobo. Per costoro il partito ha invariabilmente
ragione, anche se con una svolta di 180 gradi abbandona il sentiero impervio
della sinistra per ergersi a difensore degli interessi padronali (del grande
padronato, soprattutto: quello sovranazionale); anche se dà via l’ideale
dell’uguaglianza in cambio della paccottiglia dei diritti civili “a gratis”;
anche se si consegna a una corte di bellimbusti e cheerleaders al cui
confronto le soubrette berlusconiane parevano donne di Stato. L’importante è
che sventoli un vessillo vagamente somigliante all’originale, almeno nelle
tinte, che il pantheon non si svuoti (i blasfemi richiami a Gramsci), che
echeggi qualche parola d’ordine orecchiabile. Che vi siano nemici da additare
alle “masse”: sempre quelli, malgrado lo scorrere inesorabile dei decenni. Bobo
il piddino, capofila di migliaia di improbabili “compagni”, è rimasto infatti
al ’45, quando il Capitale era alleato della Stella Rossa, e gli avversari
vestivano tutti la camicia nera (o bruna).
Facile persuadere gente simile che grillini, leghisti,
sostenitori del NO ecc. si confondano tutti in una notte color orbace, e che di
fronte a cotanta “minaccia” l’alleanza con padronato, finanzieri e
plenipotenziari stile Monti rappresenti il male minore, se non addirittura un
bene agrodolce.
E’ per suscitare questo riflesso pavloviano di ripulsa che il
“compagno” Staino viene spedito in trasmissione: per tacciare di fascismo,
dando in pasto a militanti insemenidi, chi sta infinitamente più a
sinistra di lui e del suo capetto, e magari ha commesso l’imperdonabile colpa
di esaminare a fondo una riforma che annichilisce la democrazia locale
(Regioni, Province e Comuni, in barba alle svuotate enunciazioni degli articoli
5 e 114 della Carta) e altri provvedimenti-schifezza come lo Slaveries act
renziano.
Lo Staino che parla alla pancia flaccida di un elettorato così
ebete da immaginarsi comunista e sostenere col proprio voto politiche di destra
è naturalmente soltanto una freccia, e manco la più appuntita fra quelle
estratte dalla faretra dell’ultimo, onnipresente Renzi: insidie maggiori provengono dal
ritorno dello Spread, arma micidiale e sperimentata, dalla retorica del
cambiamento purchessia (anche passare dal proprio letto a un cartone sul
marciapiede è un cambiamento: lo sperimenteremmo di buon grado?), dalle
menzogne di media al guinzaglio che ripetono a disco rotto che i fautori del sì
si occupano “del merito della riforma” mentre – per calcolo e comprovata
inettitudine – fanno l’esatto contrario.
In ogni caso, non limitiamoci a guardare con commiserazione
mista a scherno il fumettaro avanti con gli anni che, benedetto dall’alta
finanza, rivendica pateticamente il suo essere “comunista”: fu la
suggestionabilità di uomini e topi, non la di lui perizia artistica, a conferire
potere al pifferaio di Hamelin.
Malgrado tutto, spero ardentemente che il 4 dicembre prevalga
la pars valentior, e – nonostante i sondaggi, sinistramente a noi
favorevoli – una slavina di NO zittisca gli squittii “riformatori”.