BREXIT? YES, WHY NOT?
di
Norberto Fragiacomo
Manca più di un mese al referendum che deciderà sulla permanenza della Gran Bretagna nell'Unione, ma la classe politica (non solo quella inglese, fino a ieri celebrata per il suo mitologico aplomb) è già piombata in un’agitazione frenetica.
David Cameron - discutibilissimo premier “riformatore”, che ricordavamo isolazionista – si è esibito in una piroetta da fare invidia a Renzi, rendendo una dichiarazione ai limiti della paranoia: rischi di guerra in Europa in caso di Brexit! Sembra una scemenza, invece è uno slogan ben coniato, perché si fonda sul presupposto (menzognero, ma una balla ripetuta mille volte assurge a verità) secondo cui la c.d. unificazione avrebbe posto fine ai conflitti tra le nazioni europee, regalando al continente un cinquantennio e passa di pace. L'equazione UE=pace è di sicura presa sull'elettorato, anche perché i fatti paiono suffragarla. Cosa vi direbbero gli inventori/propalatori di questa tesi? Che dal dopoguerra ad oggi (fossero più precisi citerebbero il Trattato di Parigi del '51 o quello di Roma del '57, ma dalle date si può prescindere, sono "nozionismo" fuori moda) nell'Europa occidentale tutte le controversie fra Stati sono stati composte pacificamente, si sono creati saldi legami fra i popoli ecc.; certo, vi sono state scaramucce ad est (Ungheria, Cecoslovacchia) e poi nei Balcani, ma la colpa è addebitabile all'URSS prima, a qualche regime tardocomunista poi. Il dato innegabile che i conflitti più aspri e sanguinosi siano scoppiati negli anni della massima espansione della UE - alludo alla Yugoslavia, ma anche all'Ucraina - è un'obiezione facilmente superabile, ci assicurano: la presenza di fattori esterni, di "dittatori" ha giocato un ruolo determinante, e la panacea di questi mali antichi è semmai l'ingresso di nuovi Paesi nell'Unione, civile, democratica e rispettosa dei diritti umani.
Si tratta evidentemente di una ricostruzione ideologica, di una vera e propria falsificazione della Storia, che opera su vari piani. Anzitutto i sostenitori della pax europea dimenticano opportunamente il diretto, attivo coinvolgimento di istituzioni comunitarie e stati membri nella generalità di queste crisi (dalla Serbia all'Ucraina); in secondo luogo fingono di non notare che i focolai più pericolosi si sono accesi, alla periferia orientale, dopo il 1991, cioè dopo il venir meno della balance of power tra est e ovest. Andrebbe dunque riconosciuto alla NATO - come ha affermato l'ex sindaco di Londra Boris Johnson, replicando a Cameron - il merito di mezzo secolo di prosperità occidentale? Chiaramente no, perché la NATO esiste ancora, e oggi più che mai attizza le braci delle rivalità interetniche per fomentare uno stato di guerra permanente (e remunerativo). Ci tocca insomma ringraziare - per qualche decennio di relatività tranquillità, oltre che per l’irripetibile trentennio d’oro - la guerra fredda che contrappose due blocchi di potenze: fu paradossalmente la paura della bomba a liberarci da una secolare angoscia. Le caserme al di qua e al di là dell'Elba rigurgitavano di occupanti americani e sovietici, che fino agli anni '80 disputarono una cauta partita a due, relegando i loro sudditi continentali in gradinata (più spesso nelle curve).
Con tutto ciò il processo di unificazione europea c'entra relativamente: la UE è stata e seguita ad essere una sorta di superfetazione della NATO, l'amministratore per conto di Washington e delle grandi multinazionali delle politiche continentali in campo economico. Non un garante di pace e libertà, ma un cinico procacciatore di affari. Questa cornice è andata sempre un po' stretta alla Gran Bretagna, abituata da secoli ad uno splendido isolamento e a trarre profitto dalle contese altrui. Purtroppo per Sua Maestà la flotta non è più quella dei tempi di Wellington o Churchill, e soprattutto lo strapotere economico è svanito insieme all'impero coloniale. Vincendo la seconda guerra mondiale Londra ha perso definitivamente la sua leadership mondiale, riducendosi in men che non si dica a colonia della superpotenza USA. Il pragmatismo inglese ha suggerito che, per contenere il danno e renderlo (un po' meno) irreparabile, conveniva proporsi come l'alleato più fedele ed affidabile degli Stati Uniti d'America. I rigurgiti di grandeur francese hanno spianato la strada, e grazie allo strettissimo rapporto (di clientela) con gli USA la Gran Bretagna è andata collocandosi in una posizione privilegiata rispetto agli altri membri di quella che sarebbe diventata l'Unione. Volete delle prove? E' sufficiente ricordare l'ottenimento di un corposo sconto sui contributi annui dovuti a Bruxelles e l'esito più che soddisfacente, per Londra, delle recenti trattative finalizzate a scongiurare (quasi a qualsiasi prezzo, come si è visto!) la Brexit.
Una cosa però è battere i pugni sul tavolo per strappare condizioni di particolare favore (c'è chi può e chi non può: il suddito Italia, ad esempio, malgrado le smargiassate di Renzi ad uso interno), tutt'altro paio di maniche è screditare lo strumento-Europa in un momento di forte difficoltà: l'altolà è stato recapitato a lord Cameron via Panama papers, e il premier - che troppo sciocco non dev'essere - ha immediatamente mangiato la foglia.
Anatema sulla Brexit, quindi, ed evocazione di inverosimili venti di guerra. Ora, non occorre essere un politologo da talk show per intendere che una vittoria dei sì il 23 giugno destabilizzerebbe l'Unione. Anzitutto le procurerebbe un fastidioso imbarazzo: ai tempi del referendum sull'indipendenza scozzese, Bruxelles si schierò pesantemente dalla parte di Londra, malgrado gli highlanders, a differenza dei poco amati vicini, siano degli europeisti convinti, e lo Scottish National Party avesse manifestato l'intenzione di aderire subito alla UE. Cosa accadrebbe se, a fronte di un'autoesclusione della Gran Bretagna, Edimburgo estraesse una seconda volta dal mazzo la carta della secessione? La retorica europeista imporrebbe una scelta ben precisa (l'appoggio incondizionato agli scozzesi), la geopolitica quella opposta: prevedo che le ragioni della struttura finirebbero per imporsi su quelle della sovrastruttura, ma in tal caso la sconfessione del dogma europeista sarebbe troppo macroscopica per risultare giustificabile agli occhi di un'opinione pubblica sempre più "malfidente". C'è pure un'altra grana di mezzo: nell'eventualità di una Brexit il Sinn Féin chiamerebbe gli irlandesi al voto per una riunificazione dell'isola (l'ha detto il premier cattolico nordirlandese Martin McGuinness, aggiungendo che al popolo irlandese andrebbe riconosciuto il diritto di mantenere un ruolo nella UE: non è certo una boutade). Ritengo tuttavia che il raggelante aut aut (o ti comporti come chi dici di essere oppure come chi sei per davvero, e fai l'esatto contrario) sarebbe per le istituzioni europee soltanto l'antipasto di una crisi epocale, che potrebbe portare ad una rapida disgregazione: l'addio di Londra certificherebbe che la UE non è un destino o, se si vuole, una condanna a vita, e che uscirne senza soverchi traumi è possibile. Perché la domanda è questa: come reagirebbero i mercati, che in passato abbiamo visto così pronti a punire con draconiana severità il minimo disallineamento di stati come l'Italia e - in particolare - la Grecia? Ho seri dubbi che bombarderebbero la loro base di Londra... e questo è ben noto a Boris Johnson, che di quel mondo fa parte ed è a conoscenza di molti arcana imperii.
Nelle dichiarazioni dell'ex sindaco, riportate da Repubblica ("L'eterno problema, è che manca una sottostante lealtà all'idea di Europa. Non esiste una singola autorità che tutti rispettino o capiscano. Questo crea un grande vuoto democratico", ha affermato Johnson, che ha invocato lo spirito di Winston Churchill, invitando i britannici ad essere di nuovo "gli eroi dell'Europa" votando per l'uscita della Gran Bretagna dalla Ue al referendum del 23 giugno. I "disastrosi fallimenti" dell'Ue, ha detto ancora l'ex sindaco, hanno provocato tensioni fra gli Stati membri permettendo alla Germania di "rilevare" l'economia italiana e "distruggere" la Grecia.), troviamo qualche lampo di verità, stemperato da reticenze e dai soliti luoghi comuni su una presunta "onnipotenza" tedesca - presunta nel senso che la Germania è semmai prepotente, ma da qui a identificare in essa il motore immobile della “costruzione europea” ce ne corre. Su Italia e Grecia, comunque, il biondo e ricchissimo Boris ha pienamente ragione, così come quando stigmatizza la totale assenza di democrazia e trasparenza nelle decisioni (v. la trattativa segretissima sul Ttip, oggi per fortuna al centro dell'attenzione, e non certo per merito delle istituzioni). In verità, esternazioni come questa appena commentata risultano senz'altro utili, poiché - al di là dell'interesse, spudoratamente personale, di chi le rende - interrompono l'ipnotico dipanarsi della liturgia europeista, costringendo l'ascoltatore ad una pausa di riflessione. Ecco perché i custodi dell'ortodossia, in casi come l’attuale, sono costretti ad intervenire senza indugio, con contromisure consistenti nella squalifica/dileggio del contestatore (di "gioco sporco" e "dichiarazioni isteriche" parla la deputata Yvette Cooper, una laburista d'ordine).
E' chiaro che Johnson pensa anzitutto alla sua futura carriera: aspira alla premiership, e nel caso di una vittoria dei sì il suo desiderio potrebbe avverarsi a breve. I rischi di dover regnare sulle macerie sono remotissimi: Obama, ormai a fine corsa, ha provato a fare la voce grossa, ma si tratta più di un appello al "buon senso" che di una reale minaccia. Gli USA non abbandonerebbero il Regno Unito al suo destino in nessun caso (è ancora militarmente utile, ma c'è un legame ben più forte: elites ed economie dei due Paesi sono simbiontiche), ma hanno interesse a preservare l'integrità dell'Unione per motivi di rilievo strategico, geopolitico ed economico: la sede della NATO a Bruxelles é contigua a quella della Commissione UE (sarà frutto del caso?) e la "implementazione" nelle colonie europee del modello iperliberista non si è ancora conclusa.
La Brexit potrebbe produrre una reazione a catena: cercheranno perciò di influenzare il voto con ogni mezzo lecito e illecito, ma non è sicuro che ci riescano. Indipendentemente dalla bontà delle ragioni degli isolazionisti (piuttosto meschine ed egoistiche, a dire il vero), un successo dei sì rappresenterebbe un'eccellente novità per i popoli europei: il contraccolpo per la tecnocrazia brussellese sarebbe tremendo, il pregiudizio d'immagine quasi irrimediabile - la scoperta che il nemico, l'oppressore non è invincibile è già una mezza vittoria. Per conseguire l'altra metà ci vorranno coraggio, idee chiare, caparbietà, abilità diplomatica e (moltissima) fortuna.
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