di Riccardo Achilli
Il contesto: lo scenario neoimperialista nell’Africa moderna
I fari dell’informazione
giornalistica e politica sono sempre lontanissimi dalla tragedia africana,
nonostante il fatto che in tale gigantesco continente siano intrappolati oltre
1 miliardo di esseri umani, alle prese con tragedie endemiche: povertà, malattie,
fame, guerre civili e tribali, imperialismo esterno.
La stessa lontananza dai
riflettori dei media internazionali è l’elemento più evidente che dimostra una
visione dell’Africa, all’interno del capitalismo mondiale, che non è mutata di
un millimetro rispetto alle prime conquiste coloniali: un territorio privato
della sua dignità, in un mondo in cui è la presenza sul grande network
dell’informazione a conferire identità, collocato all’ultimo anello della
filiera della produzione di valore nel capitalismo globale, quello dei
fornitori di materia prima, i cui prezzi vengono fissati su mercati delle
commodity pesantemente influenzati dalla speculazione, sui quali l’elevata
omogeneità del prodotto consente di azzerare il potere negoziale
dell’offerente, tramite le grandi multinazionali che raccolgono e portano sul
mercato il lavoro di milioni di micro-produttori locali, fissando un prezzo di
ingresso che è per oltre il 90% scollegato dalla prima fase di lavorazione
agricola, essendo influenzato dal gioco speculativo dei futures e dei contratti
a termine. Speculazioni peraltro sostenute proprio dalle multinazionali che
organizzano l’offerta, talché questi mercati si configurano come veri e propri
casinò, nei quali le dinamiche di domanda, offerta e fissazione del prezzo sono
quasi completamente svincolate dalle esigenze di remunerazione dei produttori e
anche in buona misura dalla domanda. Con il risultato che le terre più fertili
vengono distolte dalle esigenze di autoconsumo alimentare delle popolazioni che
le coltivano, per fare spazio a coltivazioni industriali (cotone, caffè, cacao,
frutta tropicale, ma in modo crescente anche coltivazioni per biocarburanti,
assolutamente inadeguate al consumo umano) ed i produttori locali, cui non di
rado rimane il 5-6% del valore del prodotto (come nel caso del mercato del
cacao), non hanno nemmeno i mezzi economici per acquistare alimenti in misura
sufficiente ad evitare la fame. La progressiva estensione delle coltivazioni
Ogm in Africa, operata dalla statunitense Monsanto, con il beneplacito di
Governi compiacenti, acuisce la dipendenza schiavistica del piccolo produttore
rispetto alla multinazionale, poiché egli si trova costretto ad acquistare le
sementi Ogm esclusivamente presso l’azienda fornitrice, per lavorare terreni
che non possono più essere diversificati verso altri tipi di coltivazione,
poiché la semina di Ogm li ha resi permanentemente inadatti ad ospitare altre
colture.
Di fatto, interi popoli, interi
continenti dipendono dai prezzi imposti in modo oligopolistico da non più di
una dozzina di trading houses con sede legale prevalentemente in Svizzera,
negli Usa, ad Hong Kong e Singapore, ma che in realtà sono veri e propri player
globali, apolidi (la sede legale viene scelta esclusivamente per motivi fiscali)
con solide radici nell’economia reale (poiché controllano piantagioni, o intere
aree territoriali grandi quanto una nazione, organizzandone la produzione a
carico di contadini locali, e poi curando la fase della prima trasformazione
del prodotto grezzo, del packaging, della logistica e della distribuzione) e fortissime ramificazioni nel mondo della
finanza. Tali multinazionali, assolutamente opache rispetto alle loro modalità
operative ed agli intrecci societari e finanziari che intrattengono (molte di
loro, pur fatturando quasi 200 miliardi di dollari all’anno, non si quotano ai
mercati borsistici per non fornire informazioni sulle loro catene di controllo
e sulla composizione societaria) hanno una posizione assolutamente dominante
sui mercati, e lo stesso gioco speculativo sui futures da esse alimentato rende
il prezzo delle commodity estremamente variabile, impedendo quindi persino quel
minimo di stabilità del già gramo fatturato, tale da consentire agli
agricoltori africani una sia pur piccola programmazione economica e finanziaria
delle loro attività. Tali multinazionali si stanno anche concentrando,
accrescendo la loro posizione dominante: a novembre 2012, la Glencor (l’azienda
che ha chiuso l’ALCOA in Sardegna) che da sola controllava già il 55% della produzione
di zinco nel mondo, ed il 36% di quella del rame, ha acquisito la Xstrata, che
è fra i primi cinque produttori mondiali di rame, carbone, ferrocromo, nichel,
argento, piombo, platino, oro, ecc.
Questi processi si innestano su
una decolonizzazione puramente di facciata, che ha creato artificiosamente
Stati privi di qualsiasi radice nazionale reale, disegnati a tavolino dalla
potenza coloniale in base ai propri interessi di “divide et impera”, mettendo
insieme in un’unica entità statuale etnie e tribù tradizionalmente rivali, con
il collante di borghesie autoctone assolutamente fragili sotto il profilo
culturale ed economico, cresciute all’ombra del padrone coloniale con mere
funzioni di amministrazione spicciola (e subordinata) della colonia, e di attività
interstiziali di piccolo commercio/intermediazione. La natura della borghesia
postcoloniale che viene installata al potere da parte delle potenze coloniali è
ben illustrata da F. Fanon, nella sua opera “I Dannati della Terra”: “all’interno
di questa borghesia nazionale non troviamo né industriali né finanzieri. La
borghesia nazionale dei Paesi sottosviluppati non è orientata alla produzione,
l’invenzione, la costruzione, il lavoro. E’ interamente canalizzata verso
attività di intermediazione. Stare dentro il circuito, dentro la “combine”,
questa sembra essere la sua vocazione profonda (…) I quadri universitari e
commerciali (oltre che funzionariali, nda) che rappresentano la fazione più
illuminata del nuovo Stato si caratterizzano per il loro piccolo numero, la
loro concentrazione nella città capitale, il tipo di attività svolte: piccolo
commercio, anche agricolo, libera professione (…) Nella prospettiva culturale
limitata della borghesia nazionale, un’economia nazionale viene identificata
con un’economia basata sui cosiddetti prodotti locali. Grandi discorsi saranno
pronunciati a favore dell’artigianato (…) Questo culto dei prodotti locali,
questa impossibilità di inventare nuove direzioni si manifesteranno anche nel
vincolarsi, da parte di questa borghesia nazionale, alla produzione agricola
tipica del periodo coloniale (…) si tratta sempre della raccolta di arachidi,
di cacao, di olive. Nessuna modifica viene introdotta nel trattamento di questi
prodotti di base. Nessuna industria viene installata nel Paese. Si continua a
fare i piccoli contadini dell’Europa, gli specialisti dei prodotti grezzi (…)
Poiché questa borghesia nazionale non ha né i mezzi tecnici né quelli
intellettuali necessari (ingegneri, tecnici) essa limiterà le sue pretese alla
ripresa degli uffici di intermediazione e delle case di commercio occupati, in
precedenza, dai colonizzatori. La borghesia nazionale prende così il posto dei
vecchi coloni europei: medici, avvocati, commercianti, rappresentanti, agenti
generali, spedizionieri….La borghesia nazionale si assegna la missione storica
di servire da intermediario…a servire da corridoio di trasmissione di un
capitalismo che appare oggi con la maschera neo-colonialista.”
La classe dirigente dei Paesi
neo-decolonializzati, incapace intellettualmente di promuovere uno sviluppo
endogeno, e non desiderosa di spendersi in una simile direzione, diventa quindi
la mera esecutrice, in logica compradora, delle politiche economiche
neo-imperialiste condotte dalla metropoli. Concentrata nella capitale, spesso
priva di conoscenza diretta della realtà sociale del ventre rurale e tribale
del suo stesso Paese, essa lascerà che le terre più produttive o i siti
minerari più ricchi finiscano in mano alle multinazionali straniere
(originarie, nella prima fase, dalla stesa metropoli) oppure a grandi
latifondisti che in un secondo momento, essendo incapaci di gestire tali
ricchezze in forma imprenditoriale, le cederanno alle multinazionali stesse.
In ultima analisi, tale borghesia
nazionale finisce per sperimentare derive nazionalistiche farsesche (costruendo
una liturgia puramente esteriore di una Nazione che non esiste) che, nella
piccola borghesia cittadina e nel proletariato agricolo, proprio in ragione
dell’inesistenza di una cultura nazionale in Stati disegnati a tavolino dalla
metropoli, tracimano in atteggiamenti di razzismo ed aggressività contro le
etnie locali di volta in volta indicate dai vertici politici come “nemiche
dello Stato”, oppure “al soldo degli europei” o degli altri Stati africani con
i quali si è in competizione. Da tale substrato di nazionalismo etnico e
razzismo emerge un modo di produzione basato, per utilizzare i termini
dell'analisi di C. Moffa (1993)
,
sul conflitto interetnico per il controllo e lo sfruttamento delle risorse del territorio,
in cui, all'interno dei rapporti fra clan, si riproducono forme di sfruttamento
fra una aristocrazia dominante, definita su base etnica, ed i clan dominati e
depredati (e dove quindi di fatto gli unici elementi produttivi di tipo
capitalistico si riscontrano nelle piantagioni e nelle miniere controllate
dalle multinazionali, dove si utilizzano metodi di sfruttamento spinti
all’estremo).
La seconda deriva di questa
borghesia nazionale, che spesso si verifica dopo un primissimo tentativo di
scimmiottare una democrazia parlamentare di tipo occidentale palesemente
inadeguata alla realtà sociale del loro Paese (che, come detto, gli è in buona
parte sconosciuta), è di tipo autoritario, appoggiandosi in misura crescente sull’esercito,
l’unica forza organizzata gerarchicamente nel Paese (in ciò aiutata dalla
metropoli, che fornisce all’esercito nazionale l’armamento, l’equipaggiamento e
la formazione ed inquadramento dei suoi ufficiali, e che quindi fa transitare
dalle Forze Armate locali il suo controllo neocoloniale). Per mantenere il
potere, la borghesia nazionale dovrà, infine, in misura crescente appoggiarsi
ai clan ed alle etnie dalle quali fuoriesce il ceto dirigente, costruendo
apparati politico/amministrativi tenuti insieme dal nepotismo, dalla corruzione,
dalla cleptocrazia.
L’impasto vizioso che è la base
del disastro umano, economico, civile, sociale dell’Africa è dunque presente
dentro la sua struttura sociale nel momento della decolonizzazione. I suoi
ingredienti sono una struttura economica mantenuta esattamente uguale a quella
del periodo coloniale, anche e soprattutto in termini di localizzazione delle
reali leve di controllo dell’economia, una cronica incapacità di promuovere una
sia pur minima diversificazione produttiva rispetto ad una realtà di produttori
esclusivamente di materie prime di base, un nazionalismo privo di nazione, che
quindi tracima immediatamente nel ben più pericoloso nazionalismo tribale, un
consociativismo etnico/clanico imbottito di corruzione e nepotismo, una crescente
tendenza autocratica ed una militarizzazione della vita politica.
Il caso della Repubblica Centrafricana: un po’ di storia
La catastrofe della Repubblica
Centrafricana è uno dei tanti paradigmi dello scellerato scenario sopra
descritto. Conosciuto come Oubangui-Chari durante la colonizzazione francese, tale
Paese ottiene l’indipendenza nel 1960, alla fine di un processo piuttosto lungo
di emancipazione, sotto l’impulso politico di Barthélemy Boganda, prete
sconsacrato e leader del MESAN, un movimento a metà fra il religioso ed il
politico, basato sul nazionalismo africano, l’antirazzismo, la lotta non
violenta per i diritti civili e l’idea di cooperazione economica e politica fra
neri e bianchi. Benché Boganda non fosse affatto un nemico degli interessi
economici e politici francesi in Centrafrica, ed anzi considerasse che la
cooperazione economica della metropoli fosse indispensabile per il neonato
Stato, il suo sia pur moderato nazionalismo e la sua pacifica e democratica
lotta per i diritti civili dei neri furono sufficienti (nonostante l’amicizia
personale con De Gaulle) a creargli inimicizia fra le imprese francesi operanti
nel Paese (allarmate dalla crescente conflittualità della forza-lavoro locale,
infiammata dai discorsi sulla parificazione dei diritti dei lavoratori africani
e di quelli francesi) e fra la borghesia nazionale centrafricana, concentrata
nella capitale Bangui, che aspirava al controllo del Paese (Boganda, infatti,
aveva la sua base di consenso nei villaggi agricoli e fra i lavoratori delle
piantagioni di cotone e caffè e delle miniere di diamanti, e aveva l’abitudine
di chiamare i borghesi della capitale con lo sprezzante epiteto di
“Mboundjou-Boko”, ovvero “neri-bianchi”). Egli verrà quindi ucciso in un
attentato aereo i cui mandanti più probabili sono le imprese francesi della
Camera di Commercio di Bangui, la borghesia nera di Bangui, i servizi segreti
francesi e la moglie dello stesso Boganda (Titley, 1997)
.
Barthélémy Boganda, con il suo amico De Gaulle
Come da scenario sopra
tratteggiato, quindi, la fase democratica e parlamentare della neonata
Repubblica Centrafricana durerà pochissimo, così come esploderà, insieme al suo
fautore Boganda, l’idea di unità di azione e fraternità fra le diverse etnie
che compongono il Paese (oggi in Centrafrica vivono circa 80 gruppi etnici diversi,
anche se i due gruppi principali, i Banda ed i Baya, rappresentano la metà
della popolazione). L’evoluzione politica del Paese, saldamente nelle mani
della borghesia compradora e filofrancese urbana, degraderà quindi
immediatamente verso l’autoritarismo, il consociativismo tribale, la
militarizzazione, mentre il controllo neocoloniale dell’economia ha provocato
fame e tragedie. La storia della
Repubblica Centrafricana non sarà altro che una infinita sequela di guerre
civili e tribali, putsch militari, rivolte autonomiste, una infinita galleria
di dittatori ed autocrati collocati al potere dalla Francia, che continuerà a
tessere le fila della politica di quel Paese, ed a reggerne le sorti
economiche, non rinunciando a mantenere anche una presenza militare diretta
(ancora oggi, la Francia ha circa 300 militari stanziati in una base nei pressi
della capitale, immediatamente aumentabili tramite ponti aerei sempre operativi
dalle basi militari francesi nei Paesi circostanti, nonché un numero
imprecisato di istruttori e consulenti dell’esercito governativo). La presenza
militare francese è stata sistematicamente utilizzata anche direttamente per
sostenere dittatori alleati contro le varie guerriglie, sotto la falsa egida di
missioni internazionali formalmente di “peacekeeping”, in realtà di intervento
diretto contro i nemici degli interessi geostrategici francesi (missioni FOMUC
e successivamente MICOPAX, non a caso supportate da Paesi notoriamente
allineati alla Francia, come il Camerun o il Gabon).
Fra i vari pagliacci messi in
piedi dalla Francia figura, per notorietà internazionale, Jean-Bédel Bokassa,
ex colonnello dell’esercito, che prende il potere con un colpo di Stato
sostenuto dalla Francia nel 1965. Formatosi militarmente in Francia, combatte
nell’esercito della Francia libera durante la seconda guerra mondiale, con il
grado di sergente maggiore, distinguendosi per coraggio e combattività, e viene
poi inviato a combattere in Indocina contro il Viet Minh, raggiungendo il grado
di capitano dell’esercito francese. Per i servigi resi alla metropoli, dopo
essere stato congedato nel 1962, viene rispedito nella madre Patria, alle prese
con un vero e proprio caos politico ed economico, per fare l’uomo di paglia
degli interessi francesi. Amicissimo di tutti i Presidenti della Francia, ma
soprattutto di quelli di destra (si dice che Giscard d’Estaing nutrisse una
vera ammirazione per lui) viene costantemente finanziato e supportato
militarmente dalla Francia, che lo aiuta a sconfiggere ben tre tentativi di colpo
di Stato contro di lui. La Francia lo supporta completamente, anche di fronte
alle sanguinose repressioni politiche che organizza sistematicamente (si dice
anche mangiando alcuni degli oppositori politici uccisi
)
e persino di fronte al totale dissesto finanziario del Paese, causato dalla sua
politica cleptocratica, dalla costosissima propaganda orchestrata attorno ad un
pesante culto della personalità e da faraonici programmi di opere pubbliche
totalmente inutili, mentre la maggior parte dei villaggi dell’interno non ha
nemmeno un pozzo per attingere l’acqua.
La Francia arriva a supportarlo
persino quando, oramai completamente impazzito, nel 1977 si autoproclama
imperatore e sperpera 20 milioni di dollari in una festa di incoronamento che
voleva imitare la cerimonia di ascesa al trono di Napoleone (con tanto di
richiesta inoltrata al Papa per venire ad incoronarlo), in un Paese che muore
letteralmente di fame. Tutto gli viene perdonato, purché continui ad assicurare
regolarmente, a prezzi stracciati, le forniture di uranio, indispensabili per
il programma nucleare francese. Ma non gli vengono perdonate, da un’opinione
pubblica francese fortunatamente più intelligente dei suoi governanti, le
notizie di regali di diamanti sporcati dal sangue dei minatori centrafricani
fatti direttamente a Monsieur Giscard d’Estaing, né i safari di caccia grossa
condotti dal Presidente francese assieme ad un mostro che ad aprile 1979 fece
uccidere un centinaio di studenti “rei” solamente di aver protestato contro
l’obbligo di acquistare uniformi scolastiche molto costose per il budget di una
famiglia centrafricana media. Resosi inaffidabile per aver iniziato a stringere
legami sospetti con Gheddafi ed aver iniziato a mettere in piedi qualche goffa
imitazione delle istituzioni della Jamahiriyah, viene fatto cadere da un colpo
di Stato, il 20 settembre 1979, appoggiato direttamente da truppe francesi ed
orchestrato dal diplomatico d’Oltralpe Jacques Foccart, per mettere al potere
un’altra marionetta, meno imbarazzante per l’immagine pubblica di Giscard
d’Estaing e di sperimentata lealtà rispetto agli interessi della metropoli,
ovvero David Dacko, il precedente dittatore filofrancese esautorato proprio da
Bokassa nel 1965. Nonostante tutto, e malgrado una condanna a morte emessa da
un tribunale nazionale centrafricano, nel 1985 Bokassa venne accolto come
ospite in Francia, con il beneplacito del nuovo governo socialista. Non mancherà, però, l’anno seguente, di farsi
paracadutare in Centrafrica nel tentativo di guidare un nuovo colpo di Stato,
che fallisce miseramente per assenza di appoggio francese, finendo agli arresti
in un carcere di Bangui, dal quale sarà liberato soltanto nel 1993, per
intercessione dell’eterno amico d’Oltralpe, troppo ammanicato con lui per
lasciarlo troppo tempo in gattabuia.
Bokassa imperatore del Centrafrica
In qualche misura, quindi, la
vicenda di Bokassa è altamente istruttiva, poiché egli rappresenta,
insieme ad altri (Mobutu, Idi Amin, Nguema) il paradigma stesso di dittatore
neocoloniale africano: privo di preparazione politica ed identità ideologica,
profondamente asservito agli interessi della ex metropoli ma al tempo stesso
tentato da un potere che gli dà alla testa, e che lo porta a pericolose
avventure o derive (che generalmente gli costano il posto), affascinato da una
retorica nazionalistica completamente priva di riferimenti alla realtà storica
del suo Paese (l’impero centroafricano di cui Bokassa si autoproclama
continuatore non è mai esistito) ed utilizzata essenzialmente come strumento di
propaganda politica presso una piccola borghesia autoctona facilmente
reclutabile con simili parole d’ordine, corrotto fino alla cleptocrazia e
dedito a creare legami di consenso di tipo clanico e tribale, per consolidare
il suo potere, anche con il ricorso al nepotismo più sfrenato. Un simile
personaggio non consentirà alcun progresso economico e sociale al suo Paese,
mantenendolo avvinto, dall’esterno, ai suoi vincoli neocoloniali, ed
all’interno ad un modo di produzione pre-capitalistico.
Gli eventi attuali in Centrafrica
L’attualità del Centrafrica non
presenta alcun elemento di miglioramento. Un tentativo di introdurre forme di
democratizzazione del Paese, a partire dal 1993, porta soltanto ad una cronica
instabilità politica, al lungo dominio di Ange Félix Patassé (ex fedelissimo
collaboratore di Bokassa), caratterizzato da un ulteriore peggioramento della
corruzione e del ladrocinio di risorse pubbliche, da tensioni etniche sempre
più forti (Patassé procederà infatti ad una ampia epurazione di personale di
etnia Yakoma dall’amministrazione pubblica e dalla guardia presidenziale, a
beneficio della sua etnia di appartenenza e di altri gruppi a lui alleati),
dalla prosecuzione del declino economico (nonostante in una prima fase del
Governo di Patassé gli aiuti internazionali fluissero generosamente) e da una politica estera
erratica (prima fedelissimo alleato della Francia, poi inizia a legare rapporti
sempre più stretti con la Libia e con la fazione politica congolese guidata da
Jean Pierre Bemba, che nel caotico teatro politico della Repubblica Democratica
del Congo si ritaglia la posizione di avversario degli interessi occidentali) che
porteranno ad una progressiva infiltrazione di truppe congolesi (comandate da
Bemba) e libiche nel Paese, con un contorno di massacri e violenze su civili ed
alla sua stessa estromissione dal Governo. Nel 2003, infatti, la Francia, stufa
dell’inaffidabile Patassé, promuove l’ennesimo colpo di Stato militare che
parte dal Ciad, altro fedele alleato degli interessi francesi. Con questo colpo
di Stato, arriva al potere l’attuale leader, il generale François Bozizé, un
vero voltagabbana di lungo corso, prima fedele repressore delle rivolte
popolari per conto di Bokassa, poi collaboratore del dittatore militare
Kolingba, fino a quando non tenterà di rovesciarlo con un putsch fallito che
gli costa un periodo di galera ed il successivo esilio, poi fedelissimo
collaboratore di Patassé (che lo ricompensa con la nomina a Capo di Stato
Maggiore dell’esercito), salvo però
farlo fuori con il colpo di Stato del 2003.
L'attuale Presidente Bozizé
Non appena preso il potere, in un
contesto politicamente non più controllabile, e con un Paese oramai lacerato
dalla miseria, dalla presenza stabile di milizie straniere (specie nelle zone
di frontiera con quel vero e proprio guazzabuglio che la Repubblica Democratica
del Congo), da conflitti interetnici esasperati dalle politiche dei suoi
predecessori, Bozizé deve affrontare una guerra civile, guidata da un gruppo
ribelle, l’UFDR (Union des Forces Démocratiques pur le Rassemblement) molto
probabilmente supportato dal Sudan, e composto quasi esclusivamente dall’etnia
Gula, in una zona tradizionalmente esclusa dai programmi di sviluppo dei
governi di Bangui. Nella guerra civile vengono coinvolti altri gruppi armati,
ed in particolare l’APRD (Armée Populaire pur la Restauration de la République
et la Démocratie), un gruppo composito e senza chiaro orientamento politico, in
cui si mescolano disertori dell’esercito governativo, ex miliziani di Bozizé,
militari del Ciad, precedentemente utilizzati a difesa del Governo di Patassé,
allo sbando dopo la presa di potere di Bozizé, delinquenti comuni e gruppi
tribali di autodifesa, ma anche l’FDPC, molto probabilmente supportato dalla
Libia di Gheddafi, ed altri due o tre gruppi organizzati. La posta in gioco è
evidentemente rappresentata dal controllo dei giacimenti di petrolio e di
diamanti del Paese (non a caso il dittatore del Ciad, Déby, invia sue truppe a
sostegno di Bozizé, per proteggere i campi petroliferi, che si trovano lungo il
confine fra Ciad e Centrafrica) e da questo punto di vista è quasi impossibile
escludere il coinvolgimento di gruppi imprenditoriali multinazionali nel
finanziamento dei ribelli. Anche perché nessuna fazione ribelle sembra dotata
di una strategia politica per gestire il Paese in caso di conquista del potere,
e la rapidità con cui vengono formati e buttati nella mischia lascia pensare
più a gruppi prezzolati dall’esterno,
che a movimenti politici, sia pur dotati di bracci armati.
La guerra civile che esplode è
resa ancor più complessa dalla presenza di gruppi armati stranieri nel Paese:
dalla parte di Bozizé, supportato dalla Francia, combattono, come detto,
reparti dell’esercito del Ciad, mentre un movimento di guerriglia
particolarmente feroce, di origine ugandese e con una impostazione ideologica
basata sul fanatismo religioso cristiano, l’LRA (Lord’s Resistance Army) inizia
ad effettuare raid in territorio centroafricano a partire dal 2008, al fine di
depredare i villaggi e sequestrare bambini e giovani, da arruolare nelle
proprie fila.
Scene della guerra civile centrafricana: bambini soldato
La guerra civile, dopo una
raffica di accordi di pace, sembra cessare (apparentemente, come vedremo a
breve) solo a metà 2012, con l’accordo di pace firmato dall’ultimo gruppo
ribelle. Il bilancio è di diverse migliaia di morti, centinaia di villaggi
distrutti, migliaia di ettari di preziosissime coltivazioni agricole bruciati, migliaia
di capi di bestiame abbattuti o rubati alle poverissime popolazioni locali, e
circa 212.000 profughi interni, in un Paese di circa 5 milioni di abitanti. La
guerra produce anche migliaia di bambini soldato, strappati alla scuola ed alla
famiglia, e trasformati in macchine da guerra, disadattati che non potranno più
essere reinseriti dentro la società e destinati ad una vita di violenza e di
emarginazione. Bozizé riesce a sopravvivere soltanto con l’aiuto determinante
della Francia e del Ciad (il cui leader Déby è alleato dei francesi, ed ha
anche un interesse nazionale a pacificare la frontiera con il Centrafrica,
ricca di risorse petrolifere). Infatti, le truppe ONU di peacekeeping,
ampiamente armate ed equipaggiate dai francesi, riescono ad interporsi
efficacemente rispetto all’avanzata dei ribelli, mentre il Ciad invia sue
truppe a rimpolpare un esercito nazionale di appena 5.000 uomini, privo di
addestramento, senza alcuna copertura aerea, malpagato e demotivato, armato
malissimo (per mancanza di depositi, i militari centrafricani devono portarsi
ogni sera a casa le armi di ordinanza loro affidate) e per motivi etnici non
leale rispetto al Presidente (la gran parte dei militari è di etnia Yakoma,
mentre il Presidente è di etnia Gbaya, ed ha cercato costantemente di inserire
parenti, amici e membri della sua etnia nei posti-chiave dell’esercito).
Scene della guerra civile centrafricana:
la città di Birao distrutta dai combattimenti
La gestione di Bozizé è
quantomeno deludente. In economia, nonostante le straordinarie ricchezze del
Paese (petrolio, diamanti, legname di qualità, zucchero, caffè, cotone, ecc.) la
bilancia dei pagamenti è cronicamente in rosso ed il PIL cresce ad un deludente
tasso del 2,8% medio annuo, non lontano dal tasso di crescita medio della popolazione
(2,14%) e quindi non produce alcun incremento reale di benessere. L’industria è
pressoché inesistente: il 55% del PIL è di origine agricola. Il comparto dei
servizi pubblici, interamente nazionalizzato, è fra i più inefficienti e
vetusti del mondo: tenere un macchinario elettrico acceso per più di un’ora
senza black out è un miracolo. La diseguaglianza nella distribuzione del
reddito è fra le più alte del mondo (il Centrafrica ha il sesto peggior valore
mondiale dell’indice del Gini), il 60% della popolazione vive con meno di 1,25
dollari al giorno, il Paese è 98-mo sui 108 Paesi per i quali è stato calcolato
l’indice di povertà umana, la malaria e la lebbra sono endemiche, l’11% della
popolazione è affetto dall’Aids, la mortalità infantile è la quarta più alta al
mondo, con 97 morti su mille, l’aspettativa di vita alla nascita è di appena 50
anni, il tasso di analfabetismo supera il 51% della popolazione adulta. Il 70%
della popolazione vive nelle aree rurali, in condizioni di sostanziale isolamento
dal mondo.
Le infrastrutture di trasporto
sono pressoché inesistenti, o fatiscenti. La criminalità è endemica: prima di
mettersi in viaggio su una strada centrafricana, è meglio fare testamento,
poiché esse pullulano di “coupeurs de route”, banditi di strada che depredano i
viaggiatori e spesso li uccidono. Per tali motivi, il turismo, nonostante le
straordinarie risorse ambientali e naturali del Paese, è inesistente.
Il debito estero rappresenta più
dell’11% del PIL ed è in continua
crescita, pur in assenza di uno specifico programma del FMI, in larga misura
alimentato dalla corruzione e dall’inefficienza del settore pubblico. Il Paese
è caratterizzato da una lunga tradizione di mancato pagamento degli stipendi ai
funzionari pubblici, che nel gennaio 2008 provoca uno sciopero generale, che
costringe Bozizé ad un radicale rimpasto di Governo.
Dal punto di vista strettamente
politico, Bozizé mostra una classica attitudine allo scarso rispetto della
Costituzione: governa spesso e volentieri per decreto, senza consultarsi con il
Parlamento, e nel 2010, quando il suo primo mandato presidenziale è scaduto,
continua a governare “de facto” spostando continuamente in avanti la data delle
elezioni per quasi sette mesi, fino a quando la pressione internazionale lo
costringe a farsi rieleggere Presidente, ad aprile 2011, con una tornata di
voto inquinata da diffuse accuse di broglio. Nella peggiore tradizione
africana, gestisce lo Stato come se fosse una succursale di casa sua, nominando
i figli, i parenti, gli amici ed i membri della sua etnia nelle
posizioni-chiave (uno dei figli diventa così Ministro della Difesa, la sorella
viene nominata Ministro del Turismo e poi dell’Acqua e delle Foreste). Non
riesce a portare avanti la fondamentale riforma delle Forze Armate (una delle
vere priorità di un Paese in cui il ricambio dei governi si fa a colpi di Stato
militari, e dove parti del territorio sono sottratte al potere governativo,
essendo occupate da bande armate), nonostante la disponibilità di aiuti
internazionali (francesi) in tal senso, limitandosi a mettere sotto controllo
il malumore degli Yakoma con la nomina di amici e parenti in tutti i punti
strategici della catena di comando, e circondandosi di pretoriani ciadiani o
della sua etnia nella Guardia Repubblicana, per autoproteggersi.
Soprattutto, non riesce a gestire
politicamente gli accordi di pace con le varie milizie armate che avevano
animato la guerra civile. E così, ai primi di dicembre del 2012, nel nord est
del Paese compare una nuova coalizione ribelle, denominata Séléka, che inizia a
marciare verso Bangui, conquistando una città dopo l’altra, con il consueto
contorno di razzie e violenze sui civili, adducendo la scusa del mancato
rispetto di alcune clausole degli accordi di pace da parte di Bozizé. La scusa
è vera, però la posta in gioco, come nella precedente guerra civile, è la
redistribuzione del potere economico e politico in favore delle regioni nord
orientali, tradizionalmente emarginate dai governi centrafricani, ed il
controllo degli asset minerari nazionali (diamanti e petrolio). Lo scalcinato e
sleale esercito nazionale, che Bozizé non ha volutamente riformato, si sfalda
come burro alle prime schermaglie, ed a fine anno sembra che Séléka sia ad un
passo dalla conquista di Bangui. Anche perché il governo francese, per bocca
del Ministro degli Esteri Fabius e del Presidente Hollande, decide, in
apparenza, di scaricare il suo alleato Bozizé, dichiarandosi neutrale, e
respingendo la richiesta ufficiale di aiuto che il Presidente centrafricano gli
rivolge.
E’ tuttavia impensabile che la
Francia se ne stia ad aspettare la maturazione degli eventi, in un Paese
strategico per i suoi interessi. La dichiarazione ufficiale di neutralità è
solo propaganda per non allarmare l’opinione pubblica francese. In un Paese
talmente abituato all’imperialismo francese da dare luogo ad una grossa
manifestazione di donne, nel centro di Bangui, mirata a chiedere l’intervento
diretto francese per evitare un più che probabile bagno di sangue, la
diplomazia d’Oltralpe si sta muovendo, in queste ore, in modo felpato ma
risoluto. Truppe gabonesi e camerunensi, secondo molti informatori, sono
infatti entrate nel Paese per contrastare l’avanzata di Séléka che, peraltro,
essendo composta soprattutto da gruppi etnici musulmani (mentre il Presidente
Bozizé è cattolico) ed essendo (forse) sostenuta dal Sudan, reca con sé la potenziale
minaccia islamista. E così, non a caso, l’avanzata apparentemente inarrestabile
dei ribelli si è fermata a soli 75 chilometri dalla capitale, e gli stessi si
sono dichiarati disponibili ad avviare negoziati con il governo di Bozizé, che
si terranno in Gabon, patria del filofrancese Ali Bongo, vera e propria
creatura politica di Sarkozy e della Clinton.
Le incerte prospettive
Al momento in cui si scrive, le
sorti del Paese sono ancora in bilico. Mentre prosegue la fragile tregua in
attesa dell’apertura dei negoziati in Gabon, il 10 gennaio prossimo, le
posizioni delle due parti sembrano inconciliabili. Da un lato, i ribelli
chiedono la formazione di un Governo di transizione, per arrivare
immediatamente a nuove elezioni, con la pregiudiziale irrinunciabile
dell’allontanamento immediato di Bozizé. Ed in fondo, la Francia, che supporta
Bozizé in modo piuttosto freddo (probabilmente Hollande non vede di buon occhio
l’amicizia del presidente centrafricano con il suo predecessore Sarkozy, e
nemmeno la sua totale incapacità di gestire il Paese, che finisce ovviamente
per danneggiare anche gli interessi francesi) non sarebbe sfavorevole, purché
il Governo di transizione non sia caratterizzato da elementi islamisti
radicali, includa alleati della Francia e conduca ad elezioni presidenziali in
cui vinca un candidato filofrancese. D’altro lato, Bozizé, che appare sempre
più isolato all’interno e non supportato dal fragile esercito nazionale (in un
tentativo tardivo, e probabilmente inefficace, di riprendere sotto controllo le
Forze Armate, il Presidente ha licenziato suo figlio ed il capo di Stato
Maggiore, assumendo direttamente la carica di Ministro della Difesa, e
nominando un suo vecchio amico di Accademia militare al comando in capo
dell’esercito) non intende in nessun modo lasciare il potere. Anche un
eventuale governo di unità nazionale dovrebbe infatti avere lui come capo di
Stato, fino alla naturale scadenza del suo mandato, nel 2016. Vi è quindi la possibilità che i negoziati
falliscano, poiché la Francia, anche se è fredda con Bozizé, non può sdoganare
al 100% Séléka, senza avere la certezza di portare alla Presidenza un suo
fedele alleato. Anche perché l’ombra del Sudan, o di chissà quale cartello di
interessi imprenditoriali esterni, si allunga inevitabilmente su Séléka stessa,
e tale possibilità non può non preoccupare Parigi.
E quindi, alla fine, la Francia
potrebbe decidere di lasciar fallire il negoziato e far ripartire la guerra
civile, con grave danno per la popolazione civile centrafricana, nel tentativo
di logorare i due contendenti e di cercare di portare al potere qualche
esponente filofrancese dell’opposizione, come l’ex primo ministro filo-patassiano
Martin Ziguélé, non a caso molto attivo, in questi giorni, sulla scena politica
centrafricana. E’ chiaro che una simile soluzione passerebbe tramite l’ennesimo
bagno di sangue, in questo martoriato Paese. La speranza di chi scrive è che i
francesi abbiano il coraggio di terminare definitivamente l’esperienza politica
fallimentare di Bozizé e favorire libere elezioni per un nuovo governo,
accettando anche la possibilità che emerga un Presidente non favorevole ai
propri interessi economici.