di Lorenzo Mortara
Rsu Fiom Rete28Aprile
Lo
confesso, conosco poco la figura di Claudio Sabattini e mi riprometto
per il 2013 di colmare questa mia lacuna, a cominciare dal libro che
le edizioni Ediesse,
la volenterosa casa editrice della Cgil, gli hanno dedicato: Operai
e sindacato a Bologna – l’esperienza di Claudio Sabattini
(1968-1974).
Nel frattempo, però, chi come me volesse saperne di più su di lui
può leggersi alcuni suoi testi recentemente pubblicati dalla
Fondazione che porta il suo nome, e ripresi dal sito della Fiom
Nazionale in
vista di una serie di iniziative che cominceranno a Roma il 25
Gennaio per celebrare i dieci anni dalla sua scomparsa.
Sono
quattro i testi presentati, uno del 1996 incentrato sull’autonomia
del sindacato, uno del 1998 sull’esperienza dei consigli
di fabbrica,
uno del 2000 sull’impatto che hanno avuto ed hanno le tecnologie
sui lavoratori, infine l’ultimo, del 2003, è dedicato agli accordi
separati che proprio allora ricominciavano ad affacciarsi nel
comparto dei metalmeccanici, preannunciando l’accelerazione che
avrebbero avuto oggi, col ripresentarsi, e per giunta aggravata,
della stessa identica situazione.
Nelle
prossime righe proveremo a rileggere criticamente questi testi,
cercando di trarre il massimo insegnamento che la lezione di
Sabattini può ancora offrire ai sindacalisti di oggi. E non solo ai
sindacalisti...
Poiché
i quattro testi sono indipendenti l’uno dall’altro e la critica
abbastanza lunga, abbiamo diviso gli Appunti
su Sabattini
in cinque parti, una per discorso più una dedicata alle
conclusioni, che vedranno la pubblicazione a distanza abbastanza
ravvicinata l’una dall’altra. Qui sotto segnaliamo a mo’ di
indice le cinque parti (man mano che le pubblicheremo inseriremo il
link alla pagina corrispondente), di cui oggi pubblichiamo la prima:
5) Conclusioni
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APPUNTI SU SABATTINI: PRIMA PARTE
AUTONOMIA
INDIPENDENZA E CINGHIA DI TRASMISSIONE
Il primo testo è forse
il meno interessante, il più confuso e pasticciato. Nella relazione
introduttiva al XXI Congresso Nazionale della Fiom, tenuto a Rimini
dal 17 al 20 Giugno del 1996, dopo aver ricordato che nei contratti
non è importante portare a casa qualcosa, perché bisogna sempre
vedere se sia qualcosa in più o in meno, lezione che potremmo
ripresentare paro paro ai burocrati di oggi che ci accusano di non
firmare contratti, senza mai chiedersi se quelli che firmano loro
siano buoni o cattivi, facendo della firma un valore in sé, cioè
una cosa idiota, Sabattini si sofferma sulla proposta fatta dalla sua
Fiom di andare oltre l’autonomia sindacale passando al
concetto di indipendenza. È qui che, leggendo questi testi,
chi scrive ha avuto la sua unica vera e propria delusione, pensando
per un momento di trovarsi in mezzo al solito scritto burocratico ad
uso e consumo dell’apparato per le sue beghe interne del tutto
avulse dai problemi concreti dei lavoratori. Siccome però negli
altri testi ho trovato solo ottimi spunti, a tratti addirittura
illuminanti, alla fine mi sono riletto questi primi passi per vedere
se non esprimessero davvero onestamente gli effettivi limiti di un
sindacalista, anziché l’equilibrismo, al limite del linguaggio
cifrato, di un burocrate come un altro. In effetti, se si pensa che
autonomia e indipendenza sono quasi sinonimi, non si capisce molto
bene questa presa di posizione per il passaggio dall’una all’altra.
Se però si incastra il discorso nel contesto storico in cui venne
fatto, la cosa apparirà forse in maniera più chiara.
L’autonomia
dei sindacati dai partiti è un tema ricorrente nella storia del
sindacato dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi. Alla cinghia di
trasmissione che legava la Cgil al PCI, a sua volta legato al
progetto di democrazia progressiva, via italiana per un
socialismo che gli operai non avrebbero visto mai, corrispose via via
un apparato sempre più burocratico, castrato com’era in partenza
dalla contraddizione tra una teoria che non poteva che parlare rosso
comunista, e una prassi di contenimento delle spinte più conseguenti
alla lotta di classe, per garantire la sopravvivenza al sistema
capitalistico che Togliatti e successori non si sognarono mai di
oltrepassare. Dopo un primo colpo dato dai fatti d’Ungheria,
che portarono Di Vittorio, nell’indimenticabile 1956, a rompere la
cinghia di trasmissione ma non la tessera del PCI, cioè a una finta
rottura della subordinazione al partito del sindacato, la reazione
operaia a tutto questo opportunismo non poteva che portare
negli anni della contestazione sessantottina alla richiesta della
soppressione delle doppie cariche, di partito e di sindacato, che
altro non era che la richiesta della base operaia di un movimento
operaio indipendente dai padroni dai piedi alla testa. Senza la
compromissione istituita e costituzionalizzata coi padroni dei
vertici del PCI e quindi del sindacato, la base non avrebbe chiesto
di troncare le doppie cariche. Perché in realtà quello che chiedeva
la base è che finisse il doppio gioco, la carica tra i
rappresentanti dei lavoratori unita alla carica tra i rappresentanti
indiretti dei padroni, cioè il disinnesco della carica operaia con
la nomina nel Partito Comunista (o Socialista) a gendarme aggiunto
del sistema capitalista. La burocrazia, sotto la pressione enorme
della rivolta studentesca combinata con quella operaia, fu costretta
a malincuore a cedere su questo punto, ma si consolò ben presto,
capendo subito che l’eliminazione delle doppie cariche non avrebbe
eliminato affatto la dipendenza della Cgil dal PCI, dipendenza che
infatti continuò indisturbata arrivando fino ai nostri giorni anche
coi nuovi vestiti, taglia PDS-DS-PD, indossati nel frattempo dagli
eredi del vecchio Partito Comunista Italiano. Il movimento operaio,
alla base, nei dieci anni che scossero il dominio padronale fino alla
svolta dell’EUR del 1978, non fu in grado di intravedere, al di
sotto della scorza di quella sua richiesta superficiale, il vero
nocciolo del problema: il legame col sistema capitalistico dei suoi
vertici, sia sindacali che politici. Legame che sarebbe restato anche
qualora i dirigenti della Cgil avessero davvero soppresso la cinghia
di trasmissione che li legava al PCI. L’unica differenza, in questo
caso, è che al posto di due teste marce, sindacato e partito
interclassisti, la base si sarebbe trovata con una testa marcia sola,
ma il corpo sarebbe rimasto ugualmente infettato dal suo
interclassismo in nome del falso interesse generale del Paese, della
tutela dell’orrenda Costituzione borghese favorevole
all’iniziativa privata, della pietosa esaltazione della democrazia
parlamentare e di tutti gli altri orpelli minori che hanno fatto il
corredo completo dello stalinismo italiano fino alla sua scomparsa,
almeno ufficiale.
Il
discorso di Sabattini, arriva appunto alla fine dello stalinismo
italiano. Siamo nel 1996, a pochissima distanza dal crollo del Muro
di Berlino e dal disfacimento dell’URSS. La burocrazia sindacale
fino a questo momento ha risolto la sua subordinazione al partito con
dichiarazioni pompose e regolarmente puntali di “autonomia”. La
collaborazione è lo stesso evidente per non dire smaccata, ma
qualora non la si neghi, si cerca almeno di camuffarla cianciando di
una elaborazione autonoma. Ma l’ex Partito Comunista, legato
indubbiamente alla classe operaia, per la militanza di massa, per il
legame con l’URSS che l’ha reso inviso ai padroni, sta avviando
il suo completo trasbordo sulla sponda avversa. Gli operai stanno per
non avere più il partito, nemmeno doppiogiochista. È per questo che
Sabattini propone l’indipendenza. Se non abbiamo più il partito,
pensa, non possiamo più nemmeno collaborare in maniera autonoma.
Sabattini prosegue l’equivoco della contestazione sessantottina.
Vede il problema della cinghia di trasmissione nel legame tra
sindacato e partito, e non, come in effetti è, nella contraddizione
tra le istanze classiste della base, e la loro subordinazione a
quelle interclassiste dei vertici. Che sia un equivoco, lo si capisce
dal fatto che Sabattini resta prigioniero dello stesso linguaggio
acritico della burocrazia e dei suoi storici apologetici, che parlano
di «superamento
delle componenti socialista e comunista»
senza dare uno straccio di prova dell’effettivo miglioramento che
avrebbe portato il loro scioglimento. E perché, invece, non
rappresenta affatto un avanzamento? Perché a decidere
del superamento o dell’arretramento non dovrebbe essere il giudizio
dei sindacalisti e nemmeno dei loro agiografi camuffati da storici,
quanto la condizione effettiva dei lavoratori in seguito a quella
determinata scelta. Come può essere un superamento, lo scioglimento
delle componenti socialista e comunista, se coincide con lo
smantellamento della scala mobile nel 1993, la Legge Treu nel 1997
eccetera, eccetera. Dallo scioglimento delle componenti interne, in
soli 20 anni, il movimento operaio ha subito un arretramento senza
precedenti, pressoché avallato in blocco dai vertici burocratici. Al
momento in cui scriveva, Sabattini, aveva visto solo l’inizio di
questo pauroso regresso, ma bastava e avanzava per salutare lo
scioglimento delle componenti partitiche per quello che erano, una
delle tante capitolazioni indecorose delle burocrazie sindacali a Sua
Maestà il Capitale. Non
un avanzamento ma il suo esatto opposto. Infatti, come la svolta
dell’Eur era l’adeguamento sindacale allo storico compromesso
politico del PCI con la Democrazia Cristiana, alla stessa maniera lo
scioglimento delle correnti socialista e comunista nella Cgil non
rappresenta affatto un passo avanti per l’indipendenza, al
contrario esprime l’assoluta continuità sindacale con lo scioglimento
parallelo del PCI e sua trasformazione in PDS. E difatti, anche per
le correnti si trattava di un semi-scioglimento come per la fine
delle doppie cariche. Così come prima i sindacalisti restavano in
forza ai partiti con ruoli più o meno analoghi anche se non
ufficiali, così ora i sindacalisti continuavano a dividersi per
correnti interne ma sempre in orbita PDS-DS, saltando dal sindacato
al partito, proprio
come fece lo stesso fautore dello scioglimento delle correnti, Bruno
Trentin un attimo dopo aver rassegnato le dimissioni dalla Fiom, non
prima però di aver firmato l’accordo
insanguinato sullo smantellamento della scala mobile. Dunque, a un legame ufficiale, pubblico, veniva sostituito
un legame sottobanco, più nascosto e più ipocrita. Sabattini con la
sua proposta di indipendenza, pretende appunto che lo scioglimento
delle componenti sia vero, che quindi l’indipendenza non sia una
semplice autonomia di facciata. Ma anche l’avesse ottenuta, le cose
non sarebbero migliorate più di tanto. Infatti, recidendo
completamente il legame coi partiti, il sindacato si sarebbe precluso
una lotta diretta all’interno della politica. Avrebbe potuto sì
polemizzare con le politiche inadeguate dei partiti, ma
indirettamente, perché non avrebbe più potuto pretendere niente. Di
fatto avrebbe ristretto il suo campo d’azione e di conseguenza
ristretti sarebbero stati anche i suoi risultati. Chiuso in sé
stesso, il sindacato avrebbe dovuto avere una sua idea di società,
una sua strategia elaborata «con
le sue sole forze... senza prendere a prestito nulla da nessuno che
non siano coloro che vivono nel sindacato».
Perciò, se il sindacato ha davvero un’idea originale di società e
di strategia, ne segue che i partiti, tutti i partiti, compresi
quelli più a sinistra, devono necessariamente avere un’idea di
società diversa dal
sindacato. Ma se questa idea di società, il sindacato la elabora in
funzione degli «interessi
che rappresenta»,
quindi in difesa dei lavoratori, perché un partito che ne elabori
una sua anche lui in difesa dei lavoratori, degli stessi interessi che rappresenta, dovrebbe
elaborarne una diversa? Evidentemente perché Sabattini, purtroppo,
non esce da un’analisi sovrastrutturale
del problema. Vede nel sindacato e nel partito due enti separati, due
soggetti indipendenti perché li guarda dall’alto. Li avesse visti
dal basso della struttura
avrebbe visto che il soggetto è uno, la classe operaia, e il
sindacato e il partito sono solo i due principali strumenti
rappresentativi, uno prettamente economico l’altro squisitamente
politico, che ha disposizione contro l’altro soggetto in campo: la
classe padronale. Quando sindacato e partito vogliono essere
indipendenti nella definizione di sé, come avrebbe voluto Sabattini,
diventano schizofrenici come una persona che soffra dello
sdoppiamento della personalità. Una specie di Dottor Jekyll e Mister
Hide. La definizione di sé è parziale, tronca, cioè sbagliata,
perché il soggetto anche se sdoppiato è e resta uno. La
subordinazione del sindacato al partito è come la subordinazione di
un giocatore al suo allenatore. Se il rapporto è corretto, il
giocatore viene messo al posto giusto e non sente la tirannide. Se il
rapporto si guasta, il calciatore che viene impiegato male, in un
ruolo non suo, di norma chiede la testa dell’allenatore. Ma il
cambio dell’allenatore, dimostra che allenatore e giocatore, come
categorie, non possono fare l’uno a meno dell’altro, e che il
problema è solo un problema di ruoli e di giusta collocazione in
campo. La subordinazione al partito è la giusta collocazione del
sindacato nel comune campo di battaglia dove si svolge lotta di
classe tra padroni e operai. Se uno dei due, di norma il partito,
smette di lottare per la vittoria, accontentandosi del pareggio,
preparando così la sconfitta, la rottura prima o dopo è certa, non
perché uno si senta schiavo e l’altro libero, ma perché uno si
sente subordinato a un risultato, pareggio o sconfitta, che non vuole
affatto, tanto meno se prestabilito dalla concertazione. Solo uniti
fino alla vittoria sindacato e partito possono stare assieme. Divisi
non potranno ottenere granché perché il partito, senza più alcun
pungolo diretto, accelererà il suo passaggio al campo avverso,
mentre il sindacato si avvierà a una concezione di sé che,
nonostante le parole e le buone intenzioni, non potrà che essere
unicamente economica. Infatti, una strategia e una definizione di sé
diverse da quelle di tutti i partiti, sono la politica di un
sindacato che non ha specchi in Parlamento, e di conseguenza di un sindacato che di fatto
non fa politica, anche se si arrampica sui vetri per dimostrare il
contrario. Perché l’unità dialettica tra questione economica e
questione politica, è assolutamente necessaria al sindacato per
avere una qualunque strategia e una definizione di sé. Senza è
impossibile. È lo stesso Sabattini a confermarlo, lo vedremo più
avanti, nel testo dedicato alla questione dell’innovazione
tecnologica. Qui si tratta soltanto di capire perché Claudio
sottovaluti l’importanza della cinghia di trasmissione, e la
sottovaluta perché forse non è ben conscio dell’ideologia di
fondo su cui poggia la sua analisi.
Tutta
la storia dello stalinismo italiano dal 1945 in avanti, può essere
ridotta al passaggio del movimento operaio dal classismo, sempre più
attenuato, all’interclassismo, sempre più accentuato, in sintesi
dal passaggio dal marxismo al liberalismo (passaggio che in verità è
cominciato ben prima del 1945). Il ’68 e il decennio che ne seguì
è il tentativo di fermare questo trapasso, da sinistra verso destra,
riportando il movimento operaio sulla retta via della lotta di
classe, da destra verso sinistra. Il tentativo è fallito non solo
per l’opposizione burocratica ma anche perché di suo ha sempre
cercato di fermarsi a metà, alla stazione più o meno multiforme
dell’anarchismo. E la concezione dell’indipendenza sindacale di
Sabattini si avvicina molto a quella anarchica, e sarebbe senz’altro
un progresso rispetto all’attuale concezione burocratica, cioè il
sindacato cinghia di trasmissione del Partito del Capitale, qualunque
esso sia. Ma questo progresso però non è sufficiente per noi,
perché per contrastare la cinghia di trasmissione con cui il
Capitale, in fabbrica come in Parlamento come dappertutto, vuole
legare a sé il movimento operaio, si può rispondere
conseguentemente solo con la cinghia di trasmissione che lega
indissolubilmente il sindacato al Partito del Lavoro. L’indipendenza
da tutti i partiti potremo volerla solo quando anche il Capitale ci
vorrà davvero autonomi. Ma il capitale non ci ha mai voluto davvero
autonomi, né ieri né oggi né domani né mai. Col sindacato
che non deve fare politica,
con l’autonomia
sindacale, il Capitale
dice solo nel suo linguaggio che il sindacato deve essere subordinato
in tutto e per tutto a lui, come un automa del profitto. Ecco perché
è perdente una risposta di vera autonomia sindacale che venga dagli
elementi migliori delle nostre file, a un discorso di indipendenza
falso e bugiardo che viene sempre dalle peggiori schiere dei nostri
nemici.
Lo
stalinismo, la lebbra del movimento operaio, lo ha riportato talmente
indietro da rimettere in discussione le risposte giuste che a suo
tempo si era dato per risolvere il problema del rapporto tra
sindacato e partito. Sotto il suo dominio, la cinghia di trasmissione
è diventata una caricatura. Da rapporto strettissimo, vivo, tra due
fratelli, sindacato e partito, è diventato qualcosa di burocratico e
mortifero, la colpa non sta né nella cinghia né in Lenin ma
nell’uso che se ne fa. La cinghia leniniana legava in un rapporto
strettissimo due strumenti nell’interesse di una classe sola,
quella staliniana nell’interesse di due, per questo alla fine, per
la contraddizione tra la base e i vertici, si è sclerotizzata e
burocratizzata, trasformandosi in un non-rapporto tra due corpi
morti. Ecco perché l’uno, il sindacato, ha voluto tagliare i
ponti con l’altro, il partito, nella speranza e nell’illusione di
sentirsi vivo. Morto però il partito, quanti in questi anni anziché vederlo riprendere vigore, hanno
sentito le campane suonare a morte anche per un sindacato senza più
l’anima? Eppure, gli eventi di Grecia e degli altri paesi che ruzzolano nel
burrone della crisi, ci mostrano che il sindacato non è
irrimediabilmente perduto, come ripetono gli estremisti in tutti i
tempi e naturalmente anche in quelli odierni, ma è solo assopito, e sta
aspettando, magari anche attraverso la rielaborazione critica
dell’esperienza di Sabattini, di ritrovare il marxismo-leninismo,
la sua giusta strategia, la sua unica, possibile, concezione di sé
stesso, ovvero quella subalterna al suo partito per l’unica
indipendenza di cui il sindacato non può fare a meno: l’indipendenza
dalla classe padronale. Un’altra concezione indipendente di sé stesso, il
sindacato, non potrà mai trovarla, per la semplice ragione che non
c’è. Insista ancora a cercarla e il movimento operaio continuerà
a dormire al suo fianco.
Stazione dei Celti
Gennaio 2013
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