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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 31 dicembre 2013

FLORES D'ARCAIS: “Alle elezioni europee una lista della società civile con Tsipras




Oggi c’è una sola forza politica di sinistra in Europa e si chiama Syriza. Per questo pensiamo che in Italia alle prossime elezioni europee una lista dei movimenti e della società civile, totalmente autonoma (ed estranea alle forze organizzate del "Partito della sinistra europea"), con Tsipras candidato alla presidenza, potrebbe avere un buon risultato”. Pubblichiamo un’intervista del quotidiano greco “Avgì” (Aurora), molto vicino a Syriza, al direttore di MicroMega.

colloquio con Paolo Flores d’Arcais di Argiris Panagopoulos

In Italia sembra che esista una forte maggioranza a sostegno del governo Letta, al punto che il premier insiste che finirà il suo mandato…
Il governo Letta è debolissimo nel paese perché inviso alla schiacciante maggioranza dei cittadini. È debole anche nelle istituzioni, in parlamento, dal momento che il nuovo segretario del Partito Democratico Matteo Renzi, eletto attraverso le primarie e personaggio di destra “alla Blair” ma fuori dagli schemi tradizionali dei vecchi apparati del partito (è popolare per questo) non ha nessuna intenzione di appoggiare a lungo questo governo.
Il realtà la forza di questo governo è duplice. In primo luogo, non è il governo Letta ma il governo Napolitano, cioè del Presidente della repubblica, che si comporta come un vero e proprio sovrano attribuendosi poteri che la Costituzione non gli dà. In secondo luogo le forze dell’opposizione sono debolissime: l’unica forza di opposizione oggi presente in parlamento è il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, una grande forza politica di massa (rappresenta grosso modo il 25% dei votanti) ma strutturata in modo debolissimo e soprattutto con un gruppo dirigente fatto di due persone, Beppe Grillo e un personaggio molto inquietante, che si chiama Casaleggio. Il M5S ondeggia perciò a seconda degli umori di questi due capi. Insomma, la vera forza di Letta è la debolezza dell’opposizione.

Il governo Letta, o del Presidente della Repubblica, non trova appoggi anche come “longa manus” di Bruxelles e Berlino?
“Longa manus” può essere fuorviante. Diciamo che c’è una strettissima convergenza di interessi fra l’establishment delle istituzioni europee e l’establishment italiano rappresentato da Napolitano e da Letta.
Ma se la gigantesca opposizione che c’è nel paese trovasse modo di avere anche una sua rappresentanza politica parlamentare la situazione cambierebbe radicalmente.

mercoledì 25 dicembre 2013

La presa di Pando: culmine e declino dei Tupamaros, di Riccardo Achilli

La piazza centrale della città di Pando

di Riccardo Achilli

La cosiddetta “presa di Pando” fu un episodio particolarmente importante nella storia della guerriglia del Movimiento de Liberación Nacional (MLN), meglio noto come Tupamaros. Fu, in qualche modo, l'azione più eclatante, più mediatica, che diede alla guerriglia tupamara una notorietà internazionale, ed una (illusoria) immagine di onnipotenza (di fatto, come meglio vedremo, sia pur per pochissime ore, riuscirono a “conquistare” un'intera cittadina) ma, di fatto, fu il picco da cui iniziò il rapidissimo declino militare ed organizzativo, che portò alla completa disfatta del MLN nel giro di 2-3 anni, ed un completo fiasco in termini politici, cioè di coinvolgimento delle masse nella causa dei Tupamaros.

Il contesto

Il MLN nacque in un contesto sociale e politico già gravemente deteriorato. L'Uruguay, un tempo noto per il suo benessere, il suo stato sociale e la sua democrazia estremamente avanzati, sin dalla metà degli anni Cinquanta era entrato dentro un tunnel di decadenza economica, in larga misura determinato dalla chiusura protezionistica dei mercati agricoli europei e statunitensi, che aveva prosciugato il canale esportativo principale del Paese. I nodi di un modello produttivo basato su una monocultura economica, e di un modello sociale basato sul compromesso battlista, garantito dal predominio politico dei colorados (stato sociale avanzato in cambio della pace sociale e della pressoché totale assenza di attività sindacale) iniziarono a venire tragicamente al pettine.

lunedì 23 dicembre 2013

La fin du rêve européen, di Renato Costanzo Gatti



di Renato Costanzo Gatti

E’ il titolo del libro pubblicato da un europeista convinto come Francois Heisbourg, che constata la fine di quel sogno che ha connotato la cuktura europea dall’immediato dopoguerra.
Al di là delle ragioni tecniche e politiche di questo fallimento (a mio parere immanente ma evitabile) il fallimento culturale sarà certificato dalle prossime elezioni europee di metà 2014. Come un turbine, una bora fredda, uno tsunami distruttivo, tutto il malcontento, la delusione, la rabbia, il senso di impotenza, la paura della fame e della miseria, la piccineria di Masanielli da strapazzo, li celti sopravvissuti, di neo profeti urlanti, si riverseranno sul voto delle europee scardinando ciò che si è costruito in questi sessantenni facendo virare la rotta politica verso gli anni trenta del secolo scorso. I miseri interessi elettoralistici di forze emarginate si associano con le profezie apocalittiche di scialbi imitatori del Mussolini socialista direttore dell’Avanti, sposandosi con il comprensibile sdegno degli emarginati, degli sconfitti, dei “vinti” dalla globalizzazione. Vent’anni di cultura berlusconiana hanno intaccato la nostra cultura, l’elogiata follia berlusconiana è gramscianamente diventata senso comune. Ad una riunione di partito dell’altra sera si parlava di un’Europa che ha impoverito tutti i paesi tranne la Germania, di un cambio euro/marco 1 a 1, di un ritorno alle barriere doganali, e, come potete immaginare, era la riunione di un partito di sinistra, di quelli che ancora si riuniscono in rituali sempre più nostalgici.

giovedì 19 dicembre 2013

La piazza o la politica? Implicazioni per la sinistra e per SEL, di Riccardo Achilli



di Riccardo Achilli

Questo breve articolo nasce da una interessante contrapposizione, sul web, fra chi intravede nel rapido precipitare della protesta di piazza nel nostro Paese, non solo limitato ai Forconi, una opportunità per la sinistra di classe, e chi invece ritiene che tale evoluzione sia sterile, in assenza di politiche fatte dentro le istituzioni. Ed ha ovviamente un riflesso immediato per l’unico partito di sinistra democratica ancora rimasto in piedi nel nostro Paese, ovvero SEL. Di seguito riporto alcune mie riflessioni che, ovviamente, impegnano solo la responsabilità di chi scrive, e non la redazione di BRIM.

Perché non serve più la piazza

Per capire quali implicazioni abbia la protesta di piazza, occorre avere un’idea delle evoluzioni del capitalismo moderno, in direzione del capitalismo cognitivo del general intellect. Il general intellect è una categoria marxiana, è stata definita nel frammento sulle macchine dei Grundrisse, e si riferisce ad una evoluzione del capitalismo in cui i tradizionali fattori di produzione si smaterializzano, per cui il fattore produttivo di base diviene l’informazione, la conoscenza ed il suo modo di trasmettersi. Anche in questo, quindi, Marx ha indovinato nel prevedere le evoluzioni cognitive che il capitalismo avrebbe avuto nella sua fase post-industrialistica. Tuttavia, l’errore è stato quello di pensare che tale evoluzione, con la formazione di un lavoratore cooperativo collettivo associato, inevitabilmente coalizzantesi con il proletariato industriale, avrebbe accelerato il superamento del capitalismo stesso.

martedì 17 dicembre 2013

L’AVVENTO DEL TOTALITARISMO “DEMOCRATICO” NELLA PROFEZIA DI ALDOUS HUXLEY (1958) di Norberto Fragiacomo



L’AVVENTO DEL TOTALITARISMO “DEMOCRATICO” NELLA PROFEZIA DI ALDOUS HUXLEY (1958) 
di 
Norberto Fragiacomo


Il grande saggista e scrittore inglese Aldous Huxley morì cinquant’anni fa, lo stesso giorno dell’assassinio di John F. Kennedy a Dallas. Malgrado il suo pessimismo di fondo sulla natura umana (si legga, a riprova, l’opera principale “I diavoli di Loudun”, in cui i veri diavoli sono gli esseri umani tutti), Huxley era un democratico convinto e piuttosto tradizionalista, che considerava comunismo e capitalismo alla stregua di ideologie totalitarie e perniciose: non a caso i protagonisti del suo “Mondo nuovo” (1932) hanno cognomi come Marx, Bakunin, Rothschild, e nomi come il buffissimo Lenina dell’avvenente miss Crowne. La trovata, tanto spiritosa quanto rivelatrice delle idiosincrasie dell’autore, è stata presa a prestito da Altieri per il suo Magdeburg, ma il lascito di Aldous Huxley non è solamente ideologico-letterario. Il nostro è, infatti, un attento e preoccupato osservatore dell’animo umano che, alla maniera di uno psicostorico (figura inventata dal suo quasi collega Isaac Asimov), anticipa le tendenze evolutive della società, tracciando un quadro cupo ma attendibile del futuro. 

lunedì 16 dicembre 2013

Il debito pubblico italiano, di Renato Costanzo Gatti



di Renato Costanzo Gatti

Vorrei segnalare un articolo sul Sole 24 ore di sabato 14 dicembre firmato da Isabella Bufacchi dal titolo  LA SORPRESA DEL DEBITO SOSTENIBILE.
Il Centro studi dell’Università di Friburgo ha elaborato un indice relativo al debito degli stati che risulta dalla somma del debito esplicito, con il debito implicito quel debito cioè che tiene conto degli obblighi di spesa futura (in particolare pensioni e sanità). Ebbene la tabella è la seguente:

PAESE………………………..DEBITO …DEBITO…DEBITO
                                              Esplicito        implicito        totale
Lettonia………………………..41………….18………..59            green light
Italia…………………………….127………..-53……….73            green light
Estonia…………………………..10………….83……….93           green light
Germania……………………….81…………73………154           yellow light
Svezia…………………………….38……….209……  247           red light
Danimarca……………………..40………...286……....327            red light
Francia…………………………..90……….359…….,.449            red light
Grecia…………………………..157……….475……..632            red light
Regno Unito……………………98……….552…….....640            red light
Belgio………………………..….100……….545……..644            red light
Spagna……………………………86………..586……672           red light
Irlanda…………………………..117…….1.150…….1.286         red light.

Per curiosità gli Stati Uniti hanno un Debito totale di 1.300.
Allora sturiamo lo spumante? Ma perché gli indici di Friburgo sono così diversi da quelli delle rating compagnie? Queste ultime danno molto peso alla crescita che incrementando il denominatore fa abbassare gli indici di debito, ma lo sguardo è sull’immediato e l’orizzonte dell’outlook è limitato. Friburgo guarda più lontano per dare questo responso che si chiama “indice di sostenibilità).
Un esempio lampante è quello tedesco. Come noto in Germania ci sono 6 milioni di mini jobs che danno un reddito pulito al lavoratore di 450€ pari al costo che sostiene il datore di lavoro. Con un costo del lavoro così basso si ottiene il duplice risultato di abbassare gli indici di disoccupazione e di aiutare le imprese a competere. Qui si fermano le rating compagnie. Friburgo guarda più in laà, ovvero al momento in cui questi 6 milioni di mini jobbers andranno in pensione senza aver versato un euro di contributi e soprattutto senza che le imprese abbiano versato un  € di contributi. Saranno tutte pensioni sociali a carico della collettività e che entrano nel conto del debito implicito.
Viva la Fornero? Calma e gesso. Consideriamo altri aspetti. L’enorme debito pubblico che abbiamo e che ci costa oltre 80 miliardi l’anno, dopo l’inizio della crisi (fallimento Lehman Bros) ha subito variazioni sostanziali (*):
a)                           la prima variazione è la nazionalizzazione. Dopo un primo periodo (1997-1999) il processo di convergenza verso la moneta unica aveva portato ad una europeizzazione del debito, con una crescita decisa della quota detenuta dal settore bancario estero, prevalentemente comunitario. Dopo un periodo di costanza nei rapporti dei creditori, dal 2009 si è registrato un aumento della quota detenuta dalle banche nazionali e una improvvisa riduzione della quota detenuta dagli investitori esteri. Questa nazionalizzazione ci dovrebbe rendere più riparati dal peggioramento dello spread, più giapponesi, anche se però per i giapponesi la moneta è giapponese e non quasi-esterna come l’euro.
b)                          La seconda variazione vede le banche  nazionali nel periodo post crisi, passare dal 30% al 50%, gli investitori privati dal 40 al 10%, le banche estere dal 20 al 35% essendo il residuo posseduto dalla Banca d’Italia.
c)                           Le immissioni di liquidità fatte dalla BCE, le due grandi LTRO a 3 anni vengono assorbite soprattutto (quasi il 50%) dai sistemi bancari italiano e spagnolo, ma mentre queste ultime mostrano un incremento nei rimborsi il nostro paese segna dei ritardi, potendo alfine affermare che “allo stato attuale l’Italia è il Paese più supportato dell’Unione monetaria in termini di liquidità erogata”
d)                          Il grande afflusso di liquidità europea è alla base dell’aumento della quota di debito pubblico detenuto dalle banche, i grandi acquisti di debito pubblico eseguito dal sistema bancario nazionale ci fa sorgere la domanda di come, nello stesso periodo, il sistema bancario abbia supportato le imprese produttive e le famiglie. La risposta ci viene dall’indice ISER (indice di supporto all’economia reale); fino al 2008 il sistema bancario nazionale supporta in maniera crescente l’economia reale, dopo lo shock Lehman Bros il supporto si riduce progressivamente per via dell’impegno crescente nel rifinanziamento del debito pubblico. Il calo è impressionante e continuo e costituisce una tra le principali cause della nostra depressione.

Quindi, apprezzando gli sforzi dell’Università di Friburgo, continuiamo a puntare alla riduzione del debito come vera riforma strutturale da perseguirsi o con una patrimoniale o con il metodo proposto dal prof. Savona, tutti i suggerimenti sono benvenuti, puntando contemporaneamente all’aumento del PIL attraverso investimenti pubblici produttivi, rilancio del lavoro, del contenuto tecnologico del lavoro, del valore aggiunto del lavoro anche attraverso nuove relazioni industriali.
Altro che forconi (piccola borghesia dell’indotto e disperati sociali creati dall’austerity) ma un approccio socialista al rilancio del paese, guidato dal general intellect per rinnovare il che fare e il come fare.

(*) Vedasi IL PROCESSO DI NAZIONALIZZAZIONE DEL DEBITO PUBBLICO ITALIANO di Frank Menichelli su NENS.

venerdì 13 dicembre 2013

Una riflessione sugli eventi di piazza di questi giorni, di Riccardo Achilli


di Riccardo Achilli

L’esplosione sociale che tanto è stata preconizzata, e direi anche, con scarsissimo senso di responsabilità politica, intimamente desiderata da componenti della sinistra radicale, si sta materializzando in questi stessi giorni. La classe politica evidenzia la sua distanza siderale dal Paese reale, dando cenno di non aver compreso affatto il tunnel in cui siamo entrati. Alfano etichetta il tutto sotto la voce “ordine pubblico”, Renzi discetta incomprensibilmente di protesta cattiva, quella di Milano, versus protesta buona, ovvero quella di Torino, e si illude di gettare discredito sui manifestanti che scendono a migliaia in tutta Italia ricordando la scenetta di uno dei leader del Movimento che si presenta in Jaguar. Berlusconi, in modo totalmente surreale, minaccia la rivoluzione se dovesse essere arrestato, non capendo che i sanculotti stanno già iniziando a convergere sul Palazzo, e non certo per salvare lui. Letta dà segno di non aver capito assolutamente niente di ciò che succede nel Paese, definendo lo sciopero selvaggio dei Forconi come la protesta di una fazione minoritaria di una singola categoria, quella degli autotrasportatori, quando invece si tratta di una vera e propria ondata umana che raccoglie tutte le espressioni del disastro sociale voluto dalla Trojka e imposto, fra l’altro, anche dal PD: elementi della piccola borghesia di tutti i generi (non solo autotrasportatori, imprenditori agricoli e pescatori, che costituiscono il nucleo originario dei Forconi, ma anche commercianti, ambulanti, edicolanti, persino i tassisti) insieme a disoccupati, precari, lavoratori dipendenti impoveriti, immigrati, studenti. Tutti accomunati dalla rovina sociale, dalla cancellazione delle proprie legittime aspettative di vita, dallo spettro della povertà che è oramai entrato stabilmente nelle loro case. L’altro ieri, ero a bordo di un treno di pendolari bloccato dai Forconi che occupavano i binari. Naturalmente, nessun politico ha mai viaggiato su un simile treno, e quindi nessuno si rende conto dell’umore della gente: non solo i viaggiatori non hanno protestato per la lunga attesa ed hanno atteso compostamente e tranquillamente che il treno potesse ripartire, ma una signora mi ha anche detto: “perderò la giornata di lavoro, ma non me la sento di condannare i contestatori, hanno avuto perlomeno il coraggio di scendere in piazza”. Letta, che parla di protesta minoritaria dentro il Paese, Alfano, che riduce il tutto ad una deriva ribellistica di fazioni, non hanno assolutamente il polso della situazione reale.

E al contempo, per il classico effetto di contagio che si verifica quando la situazione sociale è arrivata al punto di non ritorno, dopo la protesta dei Forconi esplode, sia pur per motivi diversi, l’Università di Roma: una vera e propria guerriglia urbana fra studenti e polizia dentro la città universitaria impedisce a Letta ed a Napolitano di presenziare ad un innocuo convegno. Il centro della capitale si trasforma in un carosello di cortei di protesta: la Fiom, i giovani medici, e chi più ne ha più ne metta. E, direi con una certa sicurezza, siamo solo all’inizio.

Due Mattei, un'unica irrilevanza, di Norberto Fragiacomo


Non si è accontentato di vincere, Matteo Renzi: ha polverizzato gli avversari, mettendo in saccoccia quasi il 70% dei voti espressi il giorno dell’Immacolata. Anche i timori di una bassa affluenza sono stati clamorosamente fugati: nessuno si immaginava che (poco meno di) tre milioni di persone si recassero ai seggi.
Insomma, il sindaco di Firenze può legittimamente gioire, anche perché la disfatta del povero Cuperlo (17%) è quella dell’intera nomenclatura piddina, D’Alema in testa. Twitter batte Rilke 4 a 1. Niente di strano: il risultato fotografa i tempi, e comunque la maschera “di sinistra” indossata dai vecchi in vista del confronto era, per l’appunto, una maschera di cartapesta. Pippo Civati resta il beniamino di chi non è andato a votare: simpatico, arguto, verosimilmente onesto, ma giudicato – da chi si ritiene di sinistra – non all’altezza del compito di rifondarla.
Per farla breve, sembra che anche l’Italia avrà il suo Blair, con due decenni di ritardo. Il richiamo all’affossatore del Labour – a chi ha dato il colpo di grazia alla classe lavoratrice inglese – intristisce, ma in un Occidente fintamente post-ideologico gli uomini del fare e del dire (in pillole) impazzano. C’è bisogno di intrattenitori per il pubblico pagante, mentre la più subdola e totalitaria delle ideologie – quella del mercato – consuma la rapina del welfare e dei diritti.
Mi sono letto, sul sito di Repubblica, alcune considerazioni di militanti del PD. Il tono è trionfalistico, orgoglioso: ricorre, con inquietante frequenza, la parola “democrazia”. Con questa consultazione il partito avrebbe dimostrato di essere l’unica forza autenticamente democratica presente nel Paese, gli altri (i berlusconiani, ma soprattutto il M5S) sono “fascisti”, come il Ceausescu dell’89. Certo, non tutte le analisi sono così rozze, ma il leitmotiv è suppergiù questo. A me viene in mente un’altra parola: condizionamento. Una volta quei militanti erano comunisti, ora non lo sono più – come direbbe qualche esperto psicologo, proclamarsi comunisti oggi è “poco ecologico”. Si adopera allora un nuovo aggettivo, facile e a portata di mano - perché lo troviamo nella “ditta”. Rammentate: noi siamo per la democrazia, siamo democratici, al bando il populismo, senza l’Europa non andremmo da nessuna parte ecc. L’ex comunista impara le formule magiche a memoria e le ripete ad ogni interlocutore, come i beta e i delta dell’allucinante (per i lettori) mondo nuovo di Huxley. Nella distopia fordista, però, c’è lavoro e svago per tutti: nel mondo attuale, il bravo cittadino “democratico” perde il posto, si indebita per pagare le tasse e non sa se domani avrà pensione e cure mediche.
Cosa farà Renzi? Secondo me nulla di buono, ma poco conta: ai politici è assegnato oggidì un ruolo di contorno, da comprimari o – se vogliamo – da portaordini. In cambio della fedeltà al sistema viene loro garantito un elevato tenore di vita, popolarità (anche quella cattiva fa bene all’ego), onori e viaggi a sbafo. Volano sopra la crisi e, pur chiacchierandone quotidianamente, possono fingere che non ci sia: per loro, difatti, non c’è.
Un nome inflazionato, di questi tempi, è proprio Matteo: Salvini, omonimo di Renzi, ha stracciato lo spettro di Bossi nelle primarie bonsai della Lega (10 mila voti). Come il suo fondatore, la Lega è meritatamente ridotta a un fantasma, e il neosegretario alza subito il livello della discussione paragonando l’Unione Europea a quella Sovietica. Perché? Boh, lo saprà lui – uscite sgangherate come questa, dettate da modesti calcoli personali, sono però graditissime ai reggitori, poiché confermano, agli occhi del gregge benpensante (cioè efficacemente condizionato), che chi parla male della UE lo fa per gretto tornaconto, e con argomentazioni da osteria padana.
Nel frattempo infuria la polemica sulle liste di proscrizione grilline. Raramente si era assistito ad un’altrettanto unanime levata di scudi da parte della categoria dei giornalisti (fanno parziale eccezione quelli del Fatto Quotidiano) in difesa dei colleghi attaccati, prima la Oppo dell’ex gloriosa Unità, quindi Francesco Merlo di Repubblica. Lungi da me dar ragione a Grillo: affermare che quarant’anni di professione giornalistica equivalgono a non aver mai lavorato è una grossolana sciocchezza, una berlusconata. Leggetevi però l’articolo “incriminato” di Merlo (http://www.repubblica.it/politica/2013/12/08/news/il_manganello_dei_grillini-73012665/), e traetene le vostre conclusioni. Le mie sono queste: al di là dell’eleganza della prosa, si tratta di un attacco velenosissimo, intriso, oltre che di dileggio, di paragoni oltraggiosi e insostenibili. “(…)E, a ritroso, i camorristi che inseguirono la Mehari di Giancarlo Siani e i mafiosi che pedinarono Pippo Fava sino alla sede del teatro stabile di Catania. È vero che Grillo non è ancora terrorista né camorrista né mafioso. Sempre più però il suo codice di violenza, i suoi roghi, le sue scomuniche, i suoi avvertimenti, i suoi manganelli foscamente rimandano alla "sgrammatica" dei terroristi, dei camorristi, dei mafiosi.” L’acme, la furbizia, il “messaggio” stanno tutti in quell’«ancora» che fa capolino nella terzultima riga: chi non è «ancora» terrorista né camorrista ha tutto il tempo per diventarlo; intanto, però, si evocano vittime ed assassini spietati. Un brivido di orrore e di paura scuote l’onesto, democratico (e)lettore: con questi sovversivi, garantito, non vorrà mai aver niente a che fare! Condizionamento, propaganda: quella stessa che crocifigge i parlamentari del MoVimento anche quando difendono nobili cause (quella della Costituzione, per citarne una), quella che ce li presenta invariabilmente come talebani semianalfabeti che credono alle sirene e all’Area 51 (a proposito: sabato quest’ultima è stata nominata nel notiziario di Radio Capodistria… ma non ci avevano assicurato che non è mai esistita? Mistero.), mentre l’ignoranza degli altri è perdonabile, non fa nemmeno notizia. E’ così stupefacente che Grillo e i suoi se la prendano con la stampa che ha steso loro intorno un simile cordone sanitario?
L’unico antidoto contro i mali del populismo e la minaccia terroristica è la democrazia stile format delle primarie, supportata dallo sprezzo del pericolo dei nostri valorosi giornalisti: di questo intendono persuaderci - ci sarebbe da ridere, ma la farsa è tragica.
Vedremo quale parte sarà assegnata a Renzi: al popolo – belante o contrariato – è già toccata quella dello schiavo nelle miniere d’argento di Atene. Quasi quasi era meglio nascere gamma o delta nel “Mondo nuovo” del dottissimo profeta Huxley.

mercoledì 11 dicembre 2013

QUESTO E' RENZI: IL NUOVO NEMICO DELLA SINISTRA

In un intervista al Foglio dell'8 giugno 2012 il Renzi-pensiero. La dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, della sua totale estraneità alla Sinistra e persino al cattolicesimo sociale. La Sinistra non ha nulla a che spartire con il liberismo e il capitalismo. La Sinistra è uguaglianza e giustizia sociale da realizzarsi attraverso il controllo collettivo dell'economia.

“Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore”

La candidatura, le idee, il “noi”. Intervista con il sindaco di Firenze

“Sì, è vero: adesso ci siamo. Le primarie, almeno così sembra, alla fine si faranno; e noi, quando Pier Luigi Bersani ufficializzerà la sua scelta, saremo pronti a giocarci la nostra partita. Lo faremo per sfidare il segretario, certo, ma soprattutto lo faremo per affermare le nostre idee, per dare una scossa al partito e per provare una buona volta a rivoluzionare, e a innovare, questo Pd. E però, carini, non fatevi illusioni: ché se qui noi siamo in campo non lo facciamo per partecipare, ma solo perché sappiamo che noi, oggi, in questa gara, possiamo vincere davvero”.

lunedì 9 dicembre 2013

DUE MATTEI, UN’UNICA IRRILEVANZA di Norberto Fragiacomo



DUE MATTEI, UN’UNICA IRRILEVANZA
di
Norberto Fragiacomo
 
 
Non si è accontentato di vincere, Matteo Renzi: ha polverizzato gli avversari, mettendo in saccoccia quasi il 70% dei voti espressi il giorno dell’Immacolata. Anche i timori di una bassa affluenza sono stati clamorosamente fugati: nessuno si immaginava che (poco meno di) tre milioni di persone si recassero ai seggi.
Insomma, il sindaco di Firenze può legittimamente gioire, anche perché la disfatta del povero Cuperlo (17%) è quella dell’intera nomenclatura piddina, D’Alema in testa. Twitter batte Rilke 4 a 1. Niente di strano: il risultato fotografa i tempi, e comunque la maschera “di sinistra” indossata dai vecchi in vista del confronto era, per l’appunto, una maschera di cartapesta. Pippo Civati resta il beniamino di chi non è andato a votare: simpatico, arguto, verosimilmente onesto, ma giudicato – da chi si ritiene di sinistra – non all’altezza del compito di rifondarla.

sabato 7 dicembre 2013

PERCHE' I FILO-ASSAD SI SBAGLIANO




PERCHE' I FILO-ASSAD SI SBAGLIANO
Campo Antimperialista - sez. italiana


Da un appoggio iniziale alla rivolta spontanea scoppiata a Daraa nel marzo 2011 sull’onda delle sommosse nel resto del mondo arabo, il Campo Antimperialista è passato ad una posizione che possiamo schematicamente riassumere “né con il regime né con l’opposizione armata”. Non una posizione indifferentista tuttavia, perché sosteniamo, assieme ai settori della sinistra comunista e democratica siriana, la cessazione della guerra fratricida e l’avvio di un negoziato tra tutte le parti in conflitto.
Alla base di questo mutamento di posizione v’è che l’aspetto oramai prevalente della guerra civile è da tempo diventato quello religioso-comunitario o settario-confessionale. Non è una guerra che vede oppressi da una parte e oppressori dall’altra, né una guerra nazionale di liberazione. Se le cose stanno così, e secondo noi così stanno, i rivoluzionari non possono sostenere né il regime capitalista di Assad né il blocco avversario, nel quale da tempo sono diventati egemoni i settori jihadisti e salafiti takfiriti.

Perché non possiamo appoggiare la vittoria dell’uno o dell’altro fronte? Perché la vittoria dell’uno o dell’altro fronte si risolverebbe, date le inenarrabili ferite della guerra fratricida, data la morfologia e la storia della Siria come paese multi confessionale, in un regime di dispotismo sanguinario, di vendetta confessionale, di segregazione di massa su linee comunitarie. Oppure potremmo avere una guerra civile prolungata che farebbe sparire la Siria come stato nazionale unitario per lasciare il posto ad una costellazione instabile di staterelli confessionali.

venerdì 6 dicembre 2013

UNA PROPOSTA DI USCITA DALL'EURO-AUSTERITA' di Riccardo Achilli




UNA PROPOSTA DI USCITA DALL'EURO-AUSTERITA' 
di Riccardo Achilli



Il professor Shumpei Takemori, dell’Università di Tokio, si è chiesto, in un recentissimo convegno, come mai il Giappone, con un rapporto fra debito pubblico e PIL pari a quasi il 240%, non paghi lo stesso tasso di interesse che paga l’Italia, con un rapporto debito/PIL  pari a circa il 132%. Il Giappone, infatti, sui titoli del debito pubblico decennali, nel 2013 ha pagato interessi oscillanti fra un minimo dello 0,6% ed un massimo dello 0,85%, mentre l’analogo tasso di interesse su scadenze decennali, per l’Italia, ha oscillato fra un minimo del 4,15% ed un massimo del 7,2%.
E’ naturalmente ben noto che il livello del tasso di interesse sui bond pubblici misura il livello di fiducia e credibilità che i mercati assegnano al debito pubblico di un Paese, e che tassi di interesse elevati generano un effetto “palla di neve”, aumentando la quota capitale del debito per le esigenze di copertura degli stessi. Come mai il Giappone, ben più indebitato dell’Italia, può permettersi tassi di interesse più bassi sul suo debito pubblico?

giovedì 5 dicembre 2013

RE GIORGIO E I COMPRIMARI di Norberto Fragiacomo




RE GIORGIO E I COMPRIMARI
di
Norberto Fragiacomo


Neanche il tempo di riporre i bignami nel cassetto che già le mareggiate della politica (rectius: dell’economia – la politica è, oggi più che mai, mero travestimento degli interessi economici, squallida pochade) disperdono quel poco di ottimismo accumulato in una mattina romana. In verità, non è che la tormenta si fosse placata: ero io a “sonnecchiare” sui libri, dimentico del mondo esterno. Il pianeta, però, seguitava a ruotare, la crisi a infierire sugli estranei all’elite globalizzata: il pomeriggio del 20 novembre avevo annotato con inquietudine la massiccia presenza di poliziotti e blindati nel centro di Roma. Una città occupata, pareva: soltanto la sera avrei appreso, dalla tivù, dell’assalto dimostrativo dei No Tav alla sede del PD, e dei successivi scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. 

Contemporaneamente stava accadendo qualcosa di più grave (per un Paese che si professa democratico), ma non di inatteso: Letta, d’ordine del Colle, poneva una fiducia extra ordinem all’assemblea del PD, salvando un ministro dalle pessime frequentazioni e certificando, a beneficio degli ingenui, che il “dovere di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina e onore” (art. 54 Cost.), “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98), vale solo per impiegatucci e politici di quarta fila. A quel diktat il PD reagiva da par suo: piegando lamentosamente il capo. Avevo ascoltato la sera prima, alla radio, la requisitoria di Felice Casson contro la Cancellieri: una condanna (politica) motivata e senza appello. Risultato? L’uomo che non risponde ai giudici scende in campo, e tutti si mettono sull’attenti, come i corazzieri di Crozza. A Pippo Civati sfugge uno “stronzi” deluso ma assai poco incisivo: anche lui si adegua alla circolare. Confesso di avere un minimo di simpatia per Civati, mio quasi coetaneo (lui è più giovane di qualche anno), ma quando lo sento dire che “cambierà il PD” - se il giorno dell’Immacolata fosse eletto segretario, s’intende - non riesco a trattenere un sogghigno: chi s’inchina, su una vicenda in apparenza marginale, alla ragion del Quirinale ben difficilmente troverà la forza, domani o dopodomani, di resistere allo strapotere della troika schiavista. In ogni modo il trentottenne lombardo non diventerà segretario: la carega è già prenotata da uno assai più scaltro e “italiano” di lui, che miete consensi parlando come i compagnoni di Amici miei. Anche Renzi ha velleità di innovatore, ma tra la sua supercazzola pop e i moniti di Re Giorgio non potrà mai esserci partita. Mille volte meglio (di entrambi) il conte Mascetti, comunque.

mercoledì 4 dicembre 2013

LA LEGGE DI BOWLEY di Renato Costanzo Gatti





LA LEGGE DI BOWLEY

di Renato Costanzo Gatti



Leonello Tronti dalle pagine di Repubblica esamina i dati relativi ai salari rispetto alla produttività: “La regola d’oro dei salari richiede che gli stessi crescano nella stessa misura della produttività del lavoro. La regola è d’oro perché il suo rispetto mantiene costanti le quote distributive del lavoro e del capitale nel reddito. La costanza “legge di Bowley” è un principio che discende dalle condizioni che consentono all’economia di seguire un sentiero di crescita bilanciata: costanza del saggio di profitto e coincidenza del tasso di crescita del rapporto capitale/lavoro con quello della produttività. La legge di Bowley consente il massimo aumento dei consumi raggiungibile senza esercitare pressioni inflazionistiche sul saggio di profitto e preserva per lavoratori e imprese l’incentivo a cooperare per il miglioramento della produttività”.

Se questo equilibrio non è mantenuto, si registrano “ effetti redistributivi che si possono calcolare in modo contro fattuale, valutandola differenza tra il valore storico del monte profitti e quello che si sarebbe verificato se i salari reali fossero cresciuti, secondo la regola d’oro, nella stessa misura dei pur modesti aumenti della produttività. Il contributo offerto dalla quota del lavoro alla remunerazione del capitale nel quadro del Protocollo del 1993 è ingente: a prezzi 2005 oltre 50 miliardi l’anno già due anni dopo la sigla del protocollo, fino a più di 75 miliardi l’anno nel triennio 2000/2002 e attorno 68 miliardi l’anno tra il 2003 e il 2007. Soltanto con la crisi (tra il 2009 e il 2012) in dipendenza della tenuta dei salari contrattuali reali a fronte della caduta della produttività del lavoro, il contributo si è ridotto a valori più modesti, 30-40 miliardi l’anno. Il valore cumulato di questi trasferimenti impliciti e silenziosi dal 1993 al 2012 ammonta a ben 1.069 miliardi: una cifra sufficiente a spiegare non solo il freno della domanda interna di consumi  e l’indebitamento delle famiglie, ma i ritardi di innovazione, i mancati investimenti, la sopravvivenza di imprese marginali e inefficienti  i cui prodotti o servizi continuano a gravare  sui bilanci delle famiglie e delle imprese esposte alla concorrenza, l’incapacità del segmento sano dell’apparato produttivo di crescere sino a trainare il Paese fuori dal tunnel della bassa crescita”.

Questa lunga analisi ci conferma che il meccanismo macroeconomico in cui stiamo operando è tutt’altro che naturale, ma soffre di una asimmetria profonda di base che agisce sulla distribuzione del prodotto lordo. 
Se il meccanismo per sua natura porta alla asimmetria denunciata sarà facile comprendere l’andamento dell’indice Gini che registra un crescente accentramento dei redditi nei decili alti e un restringimento nei decili centrali e bassi. Si ha cioè la conferma che il meccanismo di base è di per sé distorsivo nella distribuzione del reddito, e non c’è crisi o uscita dalla crisi che possa riequilibrare la mala-distribuzione.

Il mondo del lavoro deve quindi farsi carico del tema “produttività”, esserne compartecipe, responsabile e beneficiario; non si può minimizzare o, quel che è peggio, ignorare questo elemento sottovalutandolo. Ma deve anche ritornare alla distribuzione dei vantaggi della produttività in modo sistematicamente differente da quei ridicoli vantaggi fiscali sui salari di produttività. Anche le relazioni industriali dovrebbero puntare a quella cooperazione tra imprenditori e lavoratori nel comune obiettivo di miglioramento della produttività e il fisco dovrebbe premiare in modo ben diverso l’ACE (aiuto alla crescita economica che matura 1000 euro reinvestendo utili per 100.000 euro) premiando finalmente i fattori della produzione anziché penalizzarli con accise e balzelli improduttivi, favorendo il reinvestimento dei profitti nella circolazione produttiva anziché in quella finanziario-speculativa.
Ma serve un’altra considerazione, specialmente dopo la seconda bocciatura della legge di stabilità decretata dai tecnocrati di Bruxelles: serve la consapevolezza che per far fronte al debito pubblico, agli impegni (assurdi) conseguenti il fiscal compact, per toglierci quella palla al piede che risucchia con il costo del suo servizio 80 miliardi l’anno, per allontanarci dal 130% del rapporto debito/PIL , che solo una patrimoniale sulle grandi ricchezze (arricchitesi di 1000 miliardi in questo ventennio berlusconiano) può dare una svolta concreta al nostro sistema macroeconomico.



lunedì 2 dicembre 2013

SCHIAVITU' A CHILOMETRO ZERO di Giorgio Cremaschi


Prato
SCHIAVITU' A CHILOMETRO ZERO
di Giorgio Cremaschi

Le persone bruciate vive nelle fabbriche tessili segnano la storia dello sviluppo industriale e delle condizioni di lavoro. La stessa data dell'8 marzo ricorda la strage di operaie avvenuta per il fuoco più di un secolo fa negli Stati Uniti.
Dopo aver percorso il mondo con la sua devastazione costellata di stragi di lavoratori, ora, grazie alla crisi, la globalizzazione torna là da dove era partita, e anche da noi si muore come nel Bangladesh o in Cina. Negli Stati Uniti questi laboratori di migranti che si installano nelle antiche zone industriali li chiamano swet shops, fabbriche del sudore.
Da noi la strage di operai cinesi a Prato è stata presentata cercando la particolarità estrema, quasi come fatto di costume. Si è messo l'accento sulla particolare chiusura in sé della comunità cinese, fatto assolutamente vero, quasi per derubricare quanto avvenuto. E soprattutto per non affrontare la questione vera, che in Italia la produzione industriale e il lavoro nei servizi stanno affondando nelle condizioni di quello che una volta si chiamava terzo mondo.
La questione non è che i morti sono cinesi, ma che in Italia si lavora come schiavi per paghe vergognose, e che questo può toccare a tutti. Perché c'è chi ci guadagna a mettere il proprio marchio su ciò che viene fatto per pochi centesimi, e la svalutazione dei nostri redditi ci pesa un po' meno se possiamo comprare indumenti a basso prezzo. Prima si dovevano trasportare da lontano le merci prodotte dagli schiavi, ora la strada è più corta perché gli schiavi li abbiamo in casa. I margini di profitto crescono con la schiavitù a chilometro zero.
Se non si ferma la macchina infernale della globalizzazione, se non si ridà forza e dignità al lavoro quale che sia il colore della pelle o il taglio degli occhi di chi lo fa. Se si continua a parlare di competitività e produttività a tutti i costi. Se si continua ad accettare come fatto inevitabile che il lavoro sia sfruttato qui, tanto sennò lo sfruttano lì. Se continueremo a considerare con riprovazione domenicale ipocrita, il culto che Papa Francesco ha chiamato del Dio Denaro. Se continueremo a sprofondare verso il capitalismo ottocentesco, di quel capitalismo subiremo sempre di più la ferocia.
Se vogliamo fermarci, cominciamo a dire che a Prato sono stati uccisi sette operai, come alla Tyssen Krupp di Torino. Non sette cinesi, ma sette operai vittime in Italia dello schiavismo della globalizzazione.

dal sito Rete 28 Aprile


giovedì 28 novembre 2013

UN ACCORDO DIGNITOSO di Riccardo Achilli



UN ACCORDO DIGNITOSO
di Riccardo Achilli


Qualsiasi considerazione circa gli esiti dell’accordo di Governo fra la Merkel ed i socialdemocratici, stipulato all’alba di stamattina, deve partire dal presupposto che, ovviamente, le elezioni le ha vinte la prima, e che quindi la lady di ferro tedesca è nella posizione di minacciare di socialdemocratici con opzioni alternative a sua disposizione, da un possibile accordo con i Verdi (il cui contenuto sarebbe molto meno progressista dell’accordo raggiunto stanotte, atteso che i Gruenen non hanno la stessa sensibilità della Spd sui temi economici e sociali) ad un altrettanto possibile governo di minoranza, che la Costituzione tedesca consente, a differenza della nostra, poiché è possibile, per il Presidente federale, nominare un cancelliere che raccolga il maggior numero di voti al Bundestag, qualora quest’ultimo non abbia aggregato una maggioranza parlamentare vera e propria (e c’è da scommettere che, messa alle strette, la destra interna dell’Spd potrebbe decidere di far votare per la Merkel i propri parlamentari, temendo, irrazionalmente, una maggioranza che includa la Linke, oppure temendo di tornare alle urne). 

IN VIAGGIO CON RYSZARD di Norberto Fragiacomo




IN VIAGGIO CON RYSZARD
di
Norberto Fragiacomo


Mi pare che mi trovassi proprio a Varsavia, in quel gelido principio del 2007, mentre in una sala operatoria della capitale il cuore generoso di Ryszard Kapuściński cedeva all’improvviso, sotto i ferri del chirurgo. Grave perdita per l’affezionato lettore, a quattro anni appena da quella altrettanto dolorosa di Tiziano Terzani.

martedì 26 novembre 2013

LE CINQUE GIORNATE DI GENOVA CHIAMANO LA SINISTRA DI CLASSE ... di Giancarlo D'Andrea






LE CINQUE GIORNATE DI GENOVA CHIAMANO LA SINISTRA DI CLASSE ...
di Giancarlo D'Andrea



Genova la rossa, Genova dei camalli e della rivolta contro il Governo Tambroni, ha vissuto cinque giornate significative per la sua importante storia di lotte sindacali e politiche.
Questa volta protagonisti sono stati i lavoratori delle aziende del trasporto pubblico genovesi in rivolta dura e rabbiosa contro la delibera di PRIVATIZZAZIONI  varata dalla  Giunta Doria, sindaco in quota SEL.
Si è trattato infatti di una mobilitazione straordinaria, non priva di  limiti e contraddizioni, ma comunque straordinaria: per ben cinque giorni i lavoratori hanno sfidato la Giunta Comunale, i partiti e i sindacati ufficiali, senza indietreggiare di un millimetro neanche di fronte alla precettazione con annesse salatissime multe per interruzione di pubblico servizio.
A Genova è scoppiata una  rabbia profonda accumulatasi nell’arco degli anni, con istituzioni incapaci di prendere decisioni, partiti imprigionati nelle logiche delle compatibilità impossibilitati  a dare indicazioni a fronte  di un dissesto finanziario delle aziende partecipate del trasporto, dissesto che ormai tutte le più autorevoli fonti inseriscono nel dissesto generale del trasporto pubblico dell’intero Paese, che vede ormai tecnicamente in default il 44% delle aziende di trasporto pubbliche italiane, nel frattempo, mentre si insiste in progetti costosi e fallimentari come la TAV, la soluzione è la privatizzazione a scapito dei livelli occupazionali e salariali dei lavoratori e a costi sociali altissimi .
Le improvvide dichiarazioni del Sindaco Doria, cui si sono aggiunte le posizioni apertamente antipopolari del PD, hanno rischiato di aprire la porta a qualche Masaniello della destra di cavalcare la protesta correndo il rischio di sbocchi pericolosi.
Nonostante i disagi fortissimi per la popolazione costretta a piedi ininterrottamente per ben cinque giorni, si percepiva immediatamente che la simpatia del popolo genovese era tutta per i lavoratori in lotta, studenti, lavoratori, anziani non hanno esitato a sostenere e simpatizzare attivamente con i tranvieri in lotta. Tutta Genova ha espresso una solidarietà forte creando il clima, l’atmosfera favorevole, che ha sostenuto la dura lotta dei tranvieri e spinto lavoratori di altre aziende, e gli studenti medi e universitari a scendere in piazza e nelle strade piene di migliaia lavoratori .

E  il sindacato?

Quelli confederali e gli autonomi, in particolare quelli dei tranvieri,  compreso che senza  l’autorevolezza necessaria ad un’opera di contenimento, una volta scoppiata la protesta e constatato che assumeva radicalità e durezza col passare dei giorni, ha tentato  di cavalcarla: senza indicare obiettivi concreti tali da costituire una vera piattaforma rivendicativa, senza una strategia chiara e condivisa dai lavoratori, dimostrando una grande irresponsabilità.
I lavoratori si sono così  trovati in una strettoia tale per cui o si sarebbero strappati risultati concreti accettabili  oppure si sarebbe stati costretti ad andare avanti a oltranza, con la consapevolezza che in ogni caso si sarebbero fatte avanti  la stanchezza, le sanzioni, la pressione per riprendere il servizio .
La rabbia crescente e la compattezza dei lavoratori ha spinto il sindacato ad avviare una trattativa senza alcun mandato diretto dei lavoratori che si è conclusa con la firma di un accordo che prevede l’ingresso del privato in AMT attraverso l’esternalizzazione delle linee collinari, la  copertura del buco finanziario con risorse in parte improbabili (recupero dell’evasione),  e infine “garanzie” su occupazione e retribuzione per i lavoratori sulla cui  inesigibilità si aprono grandi perplessità.
Emblematica è stata la conclusione nella incredibile assemblea svoltasi sabato 23 , che ha visto una grande esposizione mediatica.
Il pasticcio finale della “votazione o di qua o di là “ in assemblea, come se non fosse bastata la condotta irresponsabile seguita dalle burocrazie sindacali, ha creato le premesse per risentimenti  e ulteriore rabbia che solo in parte si è manifestata con la contestazione ai sindacalisti e il lancio di decine di tessere contro la presidenza segno evidente  che il sindacato, come la Giunta Doria e i Partiti politici,  ne escono con un crollo di credibilità ricco di opportunità per la sinistra di classe ma anche carico di pericoli di derive spurie.

Ormai appare evidente che il peso della crisi economica, il crollo di credibilità della politica e delle istituzioni, stanno comprimendo una rabbia sorda e profonda, che così come è successo a Genova potrebbe esplodere con violente e rabbiose esplosioni di collera, ormai il problema di una strategia per uscire dalla crisi a sinistra è all’ordine del giorno, la sinistra di classe deve farsene carico e farne una ragione decisiva per gettare le basi per una unità programmatica, politica ed organizzativa, altrimenti l’uscita dalla crisi potrebbe avvenire verso altre , tragiche, direzioni.



lunedì 25 novembre 2013

EUROPA ED EURO, LE DESTRE SI PREPARANO ALL’ATTACCO di Anna Lami





EUROPA ED EURO, LE DESTRE SI PREPARANO ALL’ATTACCO
di Anna Lami




Il tema dell’uscita dall’Unione europea e dall’euro è destinato a diventare uno dei più importanti argomenti  del confronto politico dei prossimi mesi, quando partirà la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo.
Cresce nel frattempo, in molteplici frange della società, un sempre più netto sentimento antieuropeista ed antieurista, certificato anche da diversi sondaggi che ricalibrano verso il basso i sentimenti di fiducia nell’Ue di quello, il nostro, che era considerato uno dei popoli più realisti del re.
Nelle scorse settimane la Stampa, con un’eloquente intervista al premier Letta, ha certificato la preoccupazione delle oligarchie che ruotano attorno a Bruxelles per l’inequivocabile ascesa dei movimenti populisti in tutto il continente. Lorsignori battezzano come “populisti” i partiti e movimenti più disparati storicamente ed ideologicamente, che tuttavia individuano nell’Unione europea e nelle sue politiche di austerity la principale responsabile dell’impoverimento repentino di milioni di persone.

domenica 24 novembre 2013

SIGNOR PRESIDENTE ENRICO LETTA di Renato Costanzo Gatti




SIGNOR PRESIDENTE ENRICO LETTA

di Renato Costanzo Gatti


“Presidente Letta tiri una linea, azzeri tutto, prenda atto che la (sua) legge di stabilità non è in grado di cogliere le priorità del Paese e di fornire risposte adeguate. Ha ancora pochissimo tempo a disposizione per porre rimedio, ma può ancora farlo se vuole dare un senso compiuto alla stabilità in linea con il sentimento e le esigenze vitali del Paese. Se non lo farà, il guscio di una governabilità fine a se stessa si rivelerà vuoto, segnerà la chiusura della sua esperienza governativa e, soprattutto, rischierà di aggravare irrimediabilmente il logoramento del tessuto economico e civile di un’Italia stremata e mai (davvero) ripartita. Abbiamo interpellato le forze produttive e sociali di questo Paese e abbiamo chiesto loro che cosa si attendono dalla prossima legge di stabilità. Siamo rimasti colpiti dal tasso comune (pesante) di una insoddisfazione  e dalla (straordinaria) convergenza su un punto strategico disatteso e. cioè, quello di rimettere al centro il lavoro, l’industria, la domanda interna”.

Chi scrive queste parole è il direttore del Sole 24 Ore organo ufficiale della Confindustria. La rimessa al centro del lavoro nelle sue forme variegate è un obiettivo di politica e di filosofia che implica e richiama ragioni costituzionali ed entra nella più perfetta logica della storia dell’analisi economica.
Rimettere al centro il lavoro significa criticare frontalmente la fase attuale del capitalismo: il capitalismo finanziario. Riuscire a entrare in questo concetto significherebbe aver posto le basi per una rivoluzione culturale che affossi gli ultimi trent’anni di storia dell’economia occidentale. Significherebbe inoltre mettere le basi per un nuovo inizio, di una ripresa ben diversa da quella preannunciata e sempre smentita prima da Monti e poi da Saccomanni. Significherebbe dare attuazione all’articolo Uno dell costituzione italiana.
Da quando Quesnay redasse il suo famoso Tableau, si cominciò a ragionare in termini sistematici dell’economia: per Quesnay c’era una classe di proprietari terrieri che tramite la rendita si appropriavano della ricchezza prodotta dall’unica classe produttrice, quella dell’imprenditoria agricola che riceveva uno e rendeva due, e da una classe sterile composta da lavoratori, commercianti, impiegati cui veniva distribuito ciò che ad essi serviva per sopravvivere. Poi Smith e Ricardo sostituirono all’imprenditoria agricola fisiocratica l’impresa ed il lavoro come produttori di ricchezza in permanenza di una classe parassitaria da superare: quella dei rentiers. Marx poi indico nel solo lavoro (inteso nel senso più vasto) la vera fonte della ricchezza che veniva distribuita in modo classista sfruttando, depauperando, alienando alla classe produttiva la ricchezza profonda per ridistribuirla ad un capitale che accresceva così la sua ricchezza e il suo potere.

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