di Riccardo Achilli
Le tesi di Chiarini
In un recentissimo libro ("Alle origini di una strana Repubblica", edizioni Marsilio, 2013), lo
storico Roberto Chiarini si interroga sui motivi dello iato esistente, nel
nostro Paese, fra una cultura politica di sinistra, che si manifesta nel mito
dell’antifascismo e nelle caratteristiche di una Costituzione sostanzialmente
progressista, ed una società che esprime valori fondamentalmente conservatori e
di destra.
La tesi centrale del libro è che
tale contraddizione nasce dallo stesso processo di formazione dell’Italia
repubblicana, dentro una sorta di doppia delegittimazione reciproca fra destra
e sinistra, la prima etichettata di fascista, la seconda di comunista, che di
fatto le ha annullate, impedendo loro di esercitare la funzione di protagoniste
del gioco politico, lasciando spazio ad una deriva centrista, rappresentata
dalla Dc e dai suoi alleati, che in qualche modo rappresentava l’unica sintesi
possibile di tale contraddizione, dando rappresentanza ad una maggioranza
silenziosa di italiani per niente disposta a dare spazio alle conseguenze che
una cultura politica progressista avrebbe avuto, provocando uno scollamento fra
una cultura politica di sinistra ed imperniata sul mito dell’antifascismo e sui
richiami ideali della Resistenza, della libertà, della giustizia e del diritto
al lavoro, ed un Paese reale che cova sentimenti reazionari. Da ultimo, con
l’avvento della Seconda Repubblica, l’emergere di una destra lungamente tenuta
fuori dal contesto politico ed istituzionale “ufficiale”, spesso tinteggiatasi
di eversione negli anni di piombo, non ha consentito di elaborare un progetto
politico autonomo, democratico, europeo e moderno, incentivando, nella
sinistra, la prosecuzione del gioco alla delegittimazione, che ha, a sua volta,
impoverito le basi culturali e politiche della sinistra stessa, congelando il
Paese in una sterile contrapposizione fra una destra populista, corporativa,
ancora innervata da tensioni socialfasciste o comunque, in altri modi,
“eversive” (riferendosi l’autore al messaggio separatista leghista) ed una
sinistra senza progetto, bloccata nel gioco della delegittimazione, che quindi
cercava in tentazioni neocentriste il consenso che non poteva conquistare con
il peso delle idee. Il tutto mentre, sempre per tenere a mente le distinzioni
operate dall’autore, il Paese “legale”, connotato da una pregiudiziale
antifascista non fa collante con il Paese reale, che invece è caratterizzato da
una pregiudiziale anticomunista. La paralisi istituzionale e politica che
deriva da una incapacità di destra e sinistra di diventare protagoniste di un
confronto politico basato su proposte mirate alle esigenze di modernizzazione
del Paese , e non sulla demonizzazione reciproca, fornisce la stura per
riaprire la storica tendenza degli italiani verso l’antipolitica, il rifiuto
della partecipazione e del confronto pubblico, la diffidenza verso il ruolo
dello Stato, l’individualismo anarcoide. E si traduce quindi nella marea
montante di disprezzo verso le istituzioni dello Stato e le istituzioni
intermedie della rappresentanza, fondamentali in una democrazia, ovvero partiti
e sindacati.
Una costruzione sbilenca dello Stato e della borghesia nazionale, che
ha dato corpo ad un brodo di coltura reazionario ed individualista
La tesi di Chiarini è suggestiva,
e contiene elementi di profondo interesse, soprattutto in merito all’incapacità
della Seconda Repubblica, liberatasi dei vincoli della guerra fredda, di
superare il gioco reciproco alla delegittimazione, e quindi incapace di
riformulare una cultura politica, andatasi via via estinguendo. Tuttavia,
l’elemento centrale di tale tesi è solo in parte condivisibile, a mio avviso.
Non penso che vi sia stata una delegittimazione reciproca “ab origine”, cioè
sin dalla nascita della Repubblica, fra sinistra e destra. La versione italiana
del comunismo, cioè il togliattismo, ha operato sin dall’inizio per gestire in
forma consociativa con la destra democratica, rappresentata dalla Democrazia
Cristiana, la costruzione di una Repubblica democratica liberale e
filo-occidentale , dentro la quale il PCI avrebbe avuto la garanzia del suo
spazio di potere e di influenza culturale. “L'obiettivo che noi proponiamo al
popolo italiano da realizzare finita la guerra, sarà quello di creare in Italia
un regime democratico e progressivo”, avrà a dire il Migliore a Napoli, nel
1944. All’indomani della cacciata di comunisti e socialisti dal Governo, che
preannunciò il passaggio ad una opposizione strutturale, egli dichiarerà: “grazie
alla nostra politica siamo riusciti ad ottenere che la lotta per la
democratizzazione del nostro Paese si svolga in quel quadro dell’unità
nazionale che fu conquistato nel secolo scorso”, accettando quindi
implicitamente la collocazione del suo partito dentro il quadro democratico e
liberale che egli stesso ha contribuito a costruire. Parimenti, la
delegittimazione del fascismo passa solo tramite vie formali, culturali e
sovrastrutturali, nella misura in cui gran parte della classe dirigente del
periodo fascista transita, tranquillamente, dentro i quadri
politico/amministrativi della neonata Repubblica, la stessa Democrazia Cristiana
integra, dentro le sue correnti di destra, esponenti politici del vecchio
regime, interi spezzoni di ordinamento giuridico fascista vengono riprodotti
nella nuova Italia democratica (si pensi al codice penale) e c’è il divieto
assoluto, da parte di De Gasperi, ad istituire una Norimberga italiana, che dia
un giudizio storico definitivo sul fascismo, come la Norimberga tedesca lo ha
dato sul nazismo.
Probabilmente la verità è che
l’anomalia italiana, in termini di scollamento fra cultura politica e Paese
reale, ha radici ancor più lontane, da un lato nello stesso processo di
formazione dello Stato unitario, e dall’altro nei processi di consolidamento
della borghesia nazionale.