In una conferenza tenuta a Korcula in Jugoslavia nel 1964, Herbert Marcuse sollevò la questione “se è possibile concepire una rivoluzione quando non ne esiste la necessità vitale”. Marx, affermava Marcuse, prevedeva una rivoluzione della classe operaia perché, secondo lui, le masse lavoratrici rappresentavano la negazione assoluta dell’ordine borghese. L’accumulazione del capitale destinava gli operai ad una crescente miseria materiale e sociale, per cui essi erano portati sia per inclinazione sia per necessità ad opporsi alla società capitalista e a trasformarla. Ma se il proletariato non è più la negazione del capitalismo, allora, scrive Marcuse in “Socialism in the Developed Countries” (1), “esso non è più qualitativamente diverso da qualsiasi altra classe e quindi non è più capace di creare una società qualitativamente diversa”.
Marcuse è pienamente cosciente dell’inquietudine sociale che esiste anche nelle nazioni capitaliste avanzate, e delle situazioni concretamente e potenzialmente rivoluzionarie di molti paesi sottosviluppati. Tuttavia, i movimenti nelle nazioni avanzate sono movimenti in favore di “diritti borghesi”, come, ad esempio, le lotte dei negri degli Stati Uniti. E i movimenti nei paesi sottosviluppati sono palesemente movimenti non proletari ma nazionali, che si propongono di porre fine all’oppressione straniera e all’arretratezza delle loro condizioni interne. Sebbene le contraddizioni del capitalismo continuino ad esistere, il concetto marxiano di rivoluzione non si attaglia più alla situazione reale perché, secondo Marcuse, il sistema capitalistico è riuscito a “incanalare gli antagonismi in modo da poterli manipolare”. Dal punto di vista sia materiale che ideologico “proprio le classi che un tempo erano la negazione assoluta del sistema capitalistico sono oggi sempre più integrate in esso”.
Nel suo libro “L’uomo ad una dimensione” Marcuse sviluppa ampiamente il significato e la misura di questa “integrazione”. L’uomo integrato vive in una società senza opposizione. Sebbene borghesia e proletariato siano ancora le classi fondamentali di questa società, la loro struttura e la loro funzione sono talmente alterate che “esse non appaiono più essere agenti di trasformazione storica”. Anche se la società industriale avanzata è “in grado di contenere il mutamento qualitativo nel futuro che si può prevedere”, Marcuse riconosce che “esistono (ancora) forze e tendenze capaci di spezzare tale contenimento e di fare esplodere la società”. Tuttavia, a parer suo, “predomina la prima tendenza, e quei presupposti d’un rovesciamento che possono esserci ancor oggi vengono adoperati per impedirlo”. Questa situazione potrebbe venir alterata accidentalmente, “ma a meno che il riconoscimento di quanto viene fatto e di quanto viene impedito sovverta la coscienza e il comportamento dell’uomo, nemmeno una catastrofe produrrà il mutamento”.
Ad essere cancellata come agente di mutamento storico non è la classe operaia soltanto, ma anche il suo avversario borghese. È come se in seno ad una società classista si stesse formando una società “senza classi”, giacché gli antagonisti d’un tempo sono ora uniti da un “interesse prepotente per la conservazione ed il miglioramento dello status quo istituzionale”. E questo perché, secondo Marcuse, lo sviluppo tecnologico — trascendendo il modo di produzione capitalistico — tende a creare un apparato produttivo totalitario che determina non solo le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. Tale sviluppo “dissolve l’opposizione tra esistenza privata e esistenza pubblica, tra i bisogni individuali e quelli sociali” e serve a “istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale più efficaci e più piacevoli”. Nella tecnologia totalitaria “la cultura, la politica, e l’economia si fondano in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative. La produttività e il potenziale dì sviluppo di questo sistema stabilizzano la società e limitano il progresso tecnico mantenendolo entro il quadro del dominio”.
Marcuse riconosce naturalmente che ci sono vaste aree in cui queste tendenze totalitarie di controllo e di coesione non esistono. Ma per lui tale fatto è semplicemente una questione di tempo, poiché queste tendenze si affermano “diffondendosi nelle aree meno sviluppate e persino nelle aree preindustriali del mondo, creando aspetti simili nello sviluppo del capitalismo e del comunismo”. Poiché la razionalità tecnologica tende a diventare razionalità politica, Marcuse pensa che la nozione tradizionale della “neutralità della tecnologia” vada abbandonata, giacché qualsiasi mutamento politico “si trasformerebbe in mutamento sociale qualitativo solo in quanto sapesse modificare la direzione del progresso tecnico: il che significa sviluppare una nuova tecnologia”.
È chiaro che Marcuse ci offre non una descrizione realistica delle condizioni esistenti, ma piuttosto un quadro delle tendenze rilevabili nell’ambito di queste condizioni. A parer suo, è l’incontrastato processo di realizzazione delle potenzialità insiste nell’attuale sistema che sembra condurre verso la società totalitaria completamente integrata. Per impedire questo sviluppo, dice Marcuse, bisognerebbe che le classi oppresse “si liberassero da se stesse non meno che dai loro padroni”. Non è possibile trascendere le condizioni stabilite se già non vi è trascendenza nell’ambito di queste condizioni: un’audacia negata all’uomo a una dimensione in una società a una dimensione”. E così Marcuse conclude che “la teoria critica della società non possiede concetti che possano colmare la lacuna tra il presente e il suo futuro, non avendo promesse da fare né successi da mostrare, essa rimane negativa”.
Rifiutando di accettare le condizioni apparentemente immutabili di una nuova “barbarie” che si considera con arroganza il culmine della civiltà, Marcuse trasforma il suo negativismo in un’efficace critica sociale, che rimane valida anche se le tendenze generali della società che ne derivano potranno non realizzarsi, o realizzarsi non nella maniera da lui prevista. Sebbene si possa non condividere il suo eccessivo “pessimismo” nei confronti del “futuro che si può prevedere”, questo pessimismo trova nondimeno una valida giustificazione nelle condizioni esistenti.
Di solito, oggi come in passato, la speranza di una rivoluzione operaia socialista viene abbandonata nella prospettiva che i problemi sociali possano essere risolti mediante riforme entro i confini del capitalismo. In questo quadro, la rivoluzione diventa non solo assai improbabile, ma completamente inutile. La nascita della società a una dimensione e dell’uomo a una dimensione non solo non viene deplorata, ma si arriva persino a celebrarla come una conquista comune del lavoro e del capitale a beneficio dell’intera società. Marcuse si differenzia da questo genere di “critici” della rivoluzione proletaria contestando i risultati “finali” dei tentativi riformisti. Per lui, il mondo versa in cattive condizioni, anzi in condizioni disperate, proprio perché non c’è stata, e a quanto pare non ci sarà, una rivoluzione proletaria, proprio perché il marxismo ha dimostrato di non saper far fronte all’elasticità del capitalismo e alla sua capacità non solo di assorbire le potenzialità rivoluzionarie della classe operaia ma addirittura di volgerle a proprio vantaggio.
Considerando l’attuale situazione delle nazioni capitaliste avanzate, la storia sembra convalidare il revisionismo “marxiano” più che il marxismo rivoluzionario. Quest’ultimo è stato il prodotto di un periodo di sviluppo in cui l’accumulazione del capitale rappresentava effettivamente un periodo di miseria crescente per la popolazione lavoratrice. Verso la fine del secolo scorso, tuttavia, apparve chiaro che nei suoi aspetti decisivi la prognosi marxiana deviava da quel che era lo sviluppo reale: cioè, il capitalismo non comportava il continuo impoverimento della classe operaia, e gli operai stessi, lungi dall’acquisire una più profonda coscienza di classe, si dimostravano sempre più soddisfatti del costante miglioramento delle loro condizioni entro il sistema capitalistico. La guerra del 1914 rivelò che la classe operaia aveva cessato di essere una forza rivoluzionaria.
Le sofferenze della guerra e il lungo periodo di depressione che ad essa fece seguito riaccesero in certa misura le tendenze oppositrici della classe operaia, e lo spettro della rivoluzione sociale incombette di nuovo sul mondo. Ma ancora una volta il capitalismo si mostrò capace di deviare le energie rivoluzionarie in pieno fermento e di utilizzarle per il perseguimento dei suoi fini. Dal punto di vista sia pratico che ideologico, la seconda guerra mondiale e le sue conseguenze portarono ad un’eclissi quasi totale del socialismo operaio. È inutile negare questa evidente realtà. È vero, però, che l’assenza di qualsiasi efficace opposizione al sistema capitalistico presuppone la capacità da parte del sistema di migliorare costantemente le condizioni di vita delle masse lavoratrici. Se dovesse risultare che tale capacità non è costante, l’attuale “coesione” del sistema capitalistico finirebbe di nuovo per saltare, com’è avvenuto nelle precedenti crisi di lunga durata.
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Marcuse fonda il suo pessimismo su quel che gli sembra essere la nuova capacità acquisita dal capitalismo di risolvere i problemi economici con mezzi politici. Secondo lui, il capitalismo del “laissez-faire” con le sue crisi ricorrenti è stato felicemente “trasformato in un’economia del profitto regolata, controllata dallo Stato e dai grandi monopoli, cioè in un sistema di «capitalismo organizzato»” (2). Egli parte dal presupposto che questo sistema sia costantemente in grado di aumentare la produzione e la produttività, con l’aiuto in particolare dell’automazione, e che potrà continuare a mantenere alti livelli di vita per i suoi operai. Esiste, ritiene Marcuse, un’effettiva e potenziale “abbondanza” che, pur essendo accompagnata da “una concentrazione di potere culturale, militare e politico senza precedenti e da una grande ricchezza”, soddisfa i bisogni materiali dell’uomo tanto da estinguere in lui il desiderio di mutamento sociale e fargli auspicare un “mondo di identificazione”.
Quanto al capitalismo del “laissez-faire”, la predizione di Marx circa il suo declino e la sua definitiva cessazione è tuttora ovviamente convalidata dall’effettivo sviluppo del capitalismo. Anche Marcuse insiste a dire che “l’economia può funzionare soltanto grazie all’intervento diretto o indiretto dello Stato nei suoi settori più vitali”. Egli riconosce inoltre che esistono “conflitti tra il settore privato e quello pubblico” dell’economia, ma non crede che si tratti di “uno di quei conflitti esplosivi che potrebbero portare alla distruzione del capitalismo”.; in particolare, egli aggiunge, perché questi conflitti “non rappresentano una novità nella storia del capitalismo” (3).
Naturalmente, l’opposizione ai controlli statali così come sono configurati nell’ideologia del “laissez-faire” c’è sempre stata, ma l’attuale conflitto oggettivo tra lo Stato e il mondo degli affari è di natura diversa a causa dello sviluppo relativamente più rapido della produzione determinata dallo Stato nel corso dell’espansione generale del capitale. Il mutamento quantitativo segnala la presenza di un mutamento qualitativo certo non voluto, ma tuttavia inevitabile. Il capitale privato deve contrastare questo mutamento con la stessa determinazione con cui contrasta il socialismo, perché un ampio controllo statale dell’economia preannuncia la fine dell’impresa privata. L’opposizione oggettiva tra produzione a controllo pubblico e produzione del capitale privato è ancora nebulosa e appare sotto forma di collaborazione soggettiva tra mondo degli affari e pubblica amministrazione del quadro dell’economia nominalmente di mercato. Questa “collaborazione” è possibile solo perché subordina ancor; la politica governativa ai bisogni specifici del grande capitale. Ma i bisogni specifici del grande capitale sono in contrasto con bisogni generali della società e i conflitti sociali che di conseguenza scaturiscono si tra sformeranno in conflitti circa il ruolo dello Stato negli affari economici, e cioè diventeranno lotte politiche per il controllo dello Stato al fine di restringere o di estendere suoi interventi nell’economia. Questa lotta trascende le condizioni stabilite e le trascende nell’ambito di queste condizioni. Dovrebbe apparire chiaro che la dinamica della produzione del capitale non coincide con lo sviluppo tecnologico. La molla vitale del capitalismo non è la produzione o la produttività come tali, ma la produzione di profitti come accumulazione del capitale. Ad esempio, in una situazione di crisi non è un’incapacità materiale a produrre che provoca il declino della produzione, ma l’incapacità di produrre con profitto. L’eccesso di merci sul mercato indica la differenza tra produzione e produzione capitalistica. Non è dunque la capacità tecnica di produrre “abbondanza” che determina lo stato dell’economia capitalistica ma semplicemente la capacità — o l’incapacità — di produrre abbondanza di profitti.
Secondo Marx, l’accumulazione del capi- tale conduce necessariamente ad una diminuzione del profitto in rapporto alla massa crescente di capitale, e di conseguenza a crisi a depressioni abbastanza disastrose da provocare agitazioni sociali e, alla fine, il rovesciamento del sistema capitalistico. Ma la legge generale dell’accumulazione capitalistica elaborata da Marx, e derivata di fatto da considerazioni altamente astratte sulla struttura e la dinamica del capitalismo, non era accompagnata da un calendario preciso. Le contraddizioni della produzione del capitale sarebbero giunte ad un punto decisivo presto o tardi — anche molto tardi. Le difficoltà nella produzione del capitale sono affrontate, naturalmente, in maniera concreta e con tutti i mezzi disponibili capaci di ripristinare il profitto richiesto, e, in caso di successo, di garantire la continuità del capitalismo. Ma semplice incremento della produzione non è un indizio di espansione capitalistica; esso è tale solo quando porta alla formazione di capitale, e a ritmo accelerato. Sebbene in tempo di guerra si abbia un enorme aumento della produzione, tale aumento è accompagnato da un saggio di formazione del capitale eccessivamente basso. Il pluslavoro, invece essere capitalizzato in addizionali mezzi produzione, fonte di profitto, viene utilizzato nella produzione di spreco e per la distruzione del capitale già accumulato. Parimenti, in tempo di “pace” la produzione può essere aumentata, nonostante il ristagno o il declino del saggio di formazione del capitale, mediante una produzione compensativa, stimolata dall’autorità pubblica. Ma dire questo significa semplicemente riconoscere che il capitalismo si troverebbe in una situazione di depressione se non fosse per l’espansione del settore pubblico dell’economia.
Se il fine dell’intervento statale è la stabilizzazione dell’economia di mercato, la produzione stimolata dallo Stato deve essere non competitiva. Se lo Stato acquistasse beni di consumo e beni durevoli per distribuirli, esso ridurrebbe, in proporzione ai suoi acquisti, la domanda di mercato per tali merci a danno della produzione privata. Se poi dovesse produrre entrambi questi tipi di merci in imprese di proprietà pubblica e quindi offrirle in vendita, aumenterebbe le difficoltà dei suoi concorrenti privati riducendo la loro quota in una domanda di mercato già limitata. Gli acquisti pubblici, e la produzione che_ comportano, non devono interferire nel sistema di mercato, ma essere supplementari alla produzione di mercato. Lo Stato è quindi interessato soprattutto a beni e a servizi che non hanno collocazione nell’economia di mercato, cioè ai lavori pubblici e a spese di tutti i generi.
La divisione tra produzione privata e produzione pubblica non è, naturalmente, assoluta. Le esigenze politiche inducono i governi a entrare nella sfera della produzione di mercato sovvenzionando, ad esempio, la produzione di certe merci, e acquistando i prodotti eccedenti per utilizzarli nei propri piani I di aiuto interni ed esterni. Capita talvolta che in varie branche della produzione, oltre che nella sfera della compravendita e del finanziamento, le attività economiche pubbliche e private si sovrappongano. In generale, però, si può parlare di divisione dell’economia in settore privato, mosso dal profitto, e in settore pubblico, più ristretto ed estraneo all’incentivo del profitto. Il settore privato deve realizzare i suoi profitti mediante operazioni di mercato; quello pubblico opera indipendentemente dal mercato, anche se la sua esistenza e le sue attività influiscono sui rapporti di mercato del settore privato.
Lo Stato incrementa la “domanda effettiva” attraverso acquisti dall’industria privata, pagandoli o con il denaro delle imposte oppure con i prestiti ottenuti sul mercato del capitale. Fin tanto che lo Stato finanzia le sue spese con il denaro delle imposte, esso non fa che trasferire nel settore pubblico il denaro fatto nel settore privato: il che può mutare in certa misura la natura della produzione, ma non necessariamente allargarla. Se lo Stato prende a prestito il denaro sul mercato del capitale, in tal caso può incrementare la produzione con i suoi acquisti. Il capitale esiste sia in forma “liquida”, cioè in denaro, sia in forma fissa, cioè come mezzi e materiali di produzione. Il denaro preso a prestito dallo Stato mette in attività le risorse produttive. Queste risorse sono proprietà privata che, per funzionare come capitale, devono riprodursi e allargarsi. Le spese di ammortamento e i profitti ottenuti nel corso della produzione commissionata dallo Stato, non essendo realizzabili sul mercato, sono “realizzati” con il denaro che lo Stato ha preso in prestito. Ma anche questo denaro è proprietà privata: è prestato allo Stato a un determinato saggio di interesse. La produzione dunque è aumentata e i suoi costi si accumulano come debito pubblico.
Per pagare i suoi debiti e i relativi interessi lo Stato usa il denaro delle imposte o chiede nuovi prestiti. I costi dell’ulteriore produzione su contratti pubblici sono così sostenuti dal capitale privato, sebbene vengano distribuiti sull’intero corpo sociale e ammortizzati lungo un notevole periodo di tempo. In altre parole, i prodotti che lo Stato “acquista” non vengono veramente acquistati, ma dati allo Stato gratuitamente, perché lo Stato non ha nulla da dare in cambio se non la validità del suo credito, il quale, a sua volta, non ha altra base che il potere di tassazione dello Stato e la sua facoltà di aumentare l’emissione di moneta di credito. Non entreremo qui nei meandri di questo complicato processo perché, per quanto un’espansione del credito sia provocata e regolata nel corso di un’espansione della produzione stimolata dall’autorità pubblica, una cosa è chiara e cioè che il debito pubblico, con i relativi interessi, non può essere onorato se non con una riduzione del reddito presente e futuro: reddito che viene generato nel settore privato dell’economia.
Se non è causato da una guerra, l’intervento dello Stato nell’economia trova la sua giustificazione nel cattivo funzionamento della produzione del capitale privato. Essa non rende abbastanza da assicurarsi quell’autoespansione che è condizione indispensabile per l’uso completo delle sue risorse produttive. Il profitto non può essere aumentato da una produzione che non offra profitto; e fin tanto che il capitale produce indipendentemente dal profitto, esso non funziona come capitale. Sebbene le sue inutilizzate capacità produttive siano messe in funzione da commesse statali, i “profitti” realizzati in questa maniera e il “capitale accumulato” in questo processo sono semplici dati contabili che si riferiscono al debito pubblico, e non nuovi, effettivi mezzi di produzione, fonte di profitto, anche quando l’apparato produttivo materiale s’ingrandisce con l’aumento della produzione.
Un aumento della produzione stimolata dallo Stato, relativamente più rapido di quello della produzione sociale complessiva, implica il relativo declino nella formazione del capitale privato. Poiché la produzione stimolata dallo Stato è di per sé indice di abbassamento del saggio di formazione del capitale nel senso tradizionale, è assurdo credere che essa possa servire come mezzo di espansione del capitale privato in misura sufficiente a garantire condizioni di pieno impiego e di benessere generale. Anzi tale tipo di produzione si trasforma piuttosto in un ostacolo, giacché le richieste dello Stato all’economia, e i crediti vecchi e nuovi da esigere dalla pubblica amministrazione, impediscono la capitalizzazione, a vantaggio privato, di gran parte del nuovo profitto realizzato.
Naturalmente, lo Stato può disconoscere i crediti che le imprese private vantano nei suoi confronti e che formano il debito pubblico, e i “profitti”, realizzati con la produzione su contratti governativi, si rivelano così per quel che sono, cioè profitti immaginari. Ma anche se ciò potrà un giorno essere inevitabile, i governi, che rappresentano il capitale privato, cercheranno di ritardare questo giorno il più possibile, soprattutto perché il solo ripudio dei debiti non garantisce la ripresa di un’accumulazione proficua del capitale privato. Intanto, naturalmente, si assiste ad un lento ma costante deprezzamento di redditi e di debiti attraverso l’inflazione: un processo necessario legato all’espansione della produzione stimolata dallo Stato attraverso finanziamenti basati sul deficit del bilancio statale.
Nonostante la lunga durata di condizioni di relativo “benessere” nei paesi industrialmente avanzati, nulla induce a credere che la produzione del capitale abbia superato le sue contraddizioni interne mediante gli interventi dello Stato nell’economia. Gli interventi stessi denunciano la persistenza della crisi nella produzione del capitale, e lo sviluppo della produzione su contratti pubblici è il sintomo sicuro della costante decadenza dell’economia che si fonda sull’iniziativa privata. Arrestare questa decadenza significherebbe arrestare la notevole espansione della produzione stimolata dall’autorità pubblica e ripristinare la capacità di autoespansione della produzione del capitale. Insomma, ciò implicherebbe il rovesciamento della tendenza generale di sviluppo mostrata dal capitalismo del XX secolo. E poiché il caso è assai improbabile, lo Stato sarà costretto a estendere le sue incursioni economiche nei settori privati dell’economia e a diventare così esso stesso veicolo di distruzione dell’economia di mercato. Ma dove lo Stato rappresenta il capitale privato, questo passo lo farà solo con grande esitazione e affrontando una crescente opposizione da parte del capitale privato. Questa esitazione potrebbe essere sufficiente a mutare le condizioni di apparente “benessere” in condizioni di crisi economica.
Il capitalismo non si trasformerà in socialismo. Ma non potrà rimanere all’infinito un’“economia mista”, nella quale il governo risolve i problemi della produzione del capitale con mezzi politici. L’intervento dello Stato nell’economia capitalistica è esso stesso costretto entro i limiti della produzione del capitale. L’organizzazione della produzione sociale presuppone l’espropriazione del capitale privato. Sarà tuttavia difficile fare una rivoluzione capitalistica di Stato così com’è difficile fare una rivoluzione socialista. Ma senza la nazionalizzazione delle risorse produttive, tutti gli interventi statali. nell’economia di mercato — anche se potranno aumentare il volume della produzione in rapporto agli interventi stessi — aumenteranno le difficoltà nella formazione competitiva del capitale nel futuro che si può prevedere.
Secondo Marx, determinati rapporti sociali, o rapporti di produzione, corrispondono a determinate forze produttive sociali, le quali sono messe in movimento da tali rapporti e legate alla loro esistenza. Il rapporto capitale-lavoro determina il processo di sviluppo tecnologico oltre che l’accumulazione del capitale. Solo entro il quadro della formazione del capitale la scienza e la tecnologia estendono le capacità di produzione sociale incrementando la produttività del lavoro. Nei rapporti sociali creati dalla produzione del capitale, le potenzialità date dalla produzione socializzata non possono venire completamente realizzate, perché la loro realizzazione distruggerebbe i rapporti esistenti in regime di produzione capitalistica. Ad un certo punto del suo sviluppo, il capitalismo diventa un ostacolo a un ulteriore sviluppo delle forze sociali di produzione, e si trasforma da sistema sociale progressivo in sistema sociale regressivo.
Marcuse stesso sottolinea che nella teoria marxiana “il modo sociale di produzione, non la tecnica, è il fattore storico di base” (4). Tuttavia, egli afferma, “il progresso tecnico, la tecnologia stessa sono diventati un nuovo sistema di sfruttamento e di dominio”, un sistema che non viene più contestato da nessuna classe sociale, ma che anzi tutte accettano di buon grado o in maniera passiva (5). Sebbene la tecnologia non sia “il principale fattore responsabile della situazione”, la tecnica e lo sviluppo tecnologico, spiega Marcuse, “sono organizzati in modo tale che il sistema esistente nei paesi capitalisti altamente industrializzati è, in larga misura, tenuto insieme da essi”. In altri termini, l’odierna tecnologia offre una via di scampo al capitalismo e quindi rimane il più grande ostacolo alla sua abolizione.
Anche per Marx la scienza e la tecnologia sono fattori specifici del capitalismo ma _solo nel senso che la loro direzione e il loro sviluppo trovano determinazione e limiti nei rapporti capitalistici di produzione. Se questi rapporti venissero aboliti, la scienza e la tecnologia assumerebbero un corso libero e ben diverso, in conformità alle decisioni coscienti e razionali dell’uomo, diventato un essere sociale nel senso completo del termine. Per Marx né la scienza né la tecnologia costituiscono un sistema di dominio, ma è il dominio del capitale sul lavoro — accompagnato da tutto il resto — a trasformare la scienza e la tecnologia in strumenti di sfruttamento e di dominio di classe. Secondo Marcuse, invece, non è tanto il capitalismo che oggi determina lo stato e la natura della tecnologia quanto la tecnologia che determina lo stato e la natura del capitalismo.
Marcuse osserva che “Marx non previde la società tecnologicamente avanzata”. Né previde “tutto quel che il capitalismo poteva ottenere… semplicemente sfruttando le sue conquiste tecniche”. Eppure, anche secondo Marcuse, tutto quel che il capitalismo può ottenere in questo modo è di sopravvivere costringendo il progresso tecnologico entro i limiti del dominio di classe. L’affermazione che “Marx non previde la società tecnologicamente avanzata” è difficile da sostenere se si considera la prospettiva da lui tracciata circa la tendenza dello sviluppo sociale all’“abolizione del lavoro” mediante lo sviluppo delle forze sociali di produzione, che comprendono la scienza e la tecnologia. Vero è, però, che Marx non credeva che molto in tale direzione potesse essere fatto entro i limiti del capitalismo: il che era un ulteriore motivo per reclamarne l’abolizione. L’utopistica “abolizione del lavoro” implica l’abolizione del capitalismo o di qualsiasi ulteriore forma di sfruttamento di classe. Questo fine praticamente irraggiungibile serve soltanto a indicare la direzione generale che lo sviluppo sociale deve prendere allo scopo di diminuire il tempo di lavoro socialmente necessario (Arbeitzeit) a vantaggio del tempo libero. Il socialismo era quindi concepito come la fine dello sfruttamento e la liberazione delle forze sociali di produzione dalle catene impostegli dal capitalismo in modo da assicurare il massimo di tempo libero. Il socialismo stesso presupponeva la rivoluzione socialista. Marcuse ritiene tuttavia opportuno mettere in discussione la validità, per il nostro tempo, del concetto marxiano che “il regno del lavoro rimane il regno della necessità, mentre il regno della libertà può svilupparsi soltanto al di là e al di sopra del regno della necessità”, perché, a parer suo, “la fine del lavoro necessario è all’orizzonte; non una utopia, ma una possibilità reale”. Marcuse, certo, è prudente ed esprime i suoi pronostici sotto forma di domande. Chiede ad esempio: “Che cosa avviene quando, in una società tecnologica di massa, il tempo di 1avoro — cioè il tempo socialmente necessario — viene ridotto al minimo e il tempo libero diventa praticamente tempo pieno?”.
Sebbene Marcuse si limiti a porre la do manda, la domanda stessa sembra implicare che un tale stato di cose possa accadere. Ma, collocati nel contesto del capitalismo, questi sono falsi problemi. La rivoluzione tecnica necessaria per eliminare il tempo di lavoro a vantaggio del tempo libero non è compatibile con il capitalismo.
Marcuse stesso afferma che l’automazione, che trasformerebbe il tempo di lavoro in tempo marginale e il tempo libero in tempo pieno… “non può essere applicata nell’attuale sistema”, in quanto ciò significherebbe semplicemente “la catastrofe finale del sistema capitalistico”. Così dicendo, Marcuse confuta, almeno entro certi limiti, un’altra posizione da lui simultaneamente sostenuta, e cioè che la moderna tecnologia “trascende” il modo di produzione capitalistico. Ma quel che è nuovo nella tecnologia è proprio quest’automazione la quale, se impossibile ad applicarsi nel capitalismo, significa che anche questo modo di produzione “trascende” la tecnologia, cioè determina il grado del suo sviluppo. Certo, c’è una bella differenza tra automazione totale ed automazione parziale, ma il fatto che essa possa essere solo parziale e non totale dipende di nuovo dal modo di produzione. Quando l’automazione è vista come alternativa al capitalismo e tuttavia appare nel capitalismo, questo dovrebbe indicare, in una certa misura, l’inizio della fine del capitalismo e non la sua “stabilizzazione” e “integrazione”. Marcuse suppone, tuttavia, che il capitalismo sia capace di usare la nuova tecnologia, compresa l’automazione parziale, per garantirsi la propria esistenza semplicemente elevando i livelli di vita e mediante un enorme incremento della produzione di spreco. Presto o tardi, però, il sistema verrebbe di nuovo costretto ad arrestare un ulteriore sviluppo tecnico in direzione dell’ automazione, perché il numero dei disoccupati arriverebbe a superare quello degli occupati. Alla fine, una piccola minoranza dovrebbe provvedere per la grande maggioranza, rovesciando così le abituali condizioni della società di classe. Ma dove e quando fermare questo processo — dal momento che ognuna delle sue fasi ascendenti porta sempre più vicino alla dissoluzione del sistema capitalistico?
Il capitale, non dimentichiamolo, è pluslavoro congelato nella forma di plusvalore e si alimenta ed estende con il lavoro vivo. Fin tanto che lo sviluppo tecnologico è una funzione della formazione del capitale in termini di valore, il capitale accumulato è la materializzazione del tempo di lavoro non pagato. La riduzione del tempo di lavoro comporta anche la riduzione della formazione di capitale. Indubbiamente, il tempo di lavoro non pagato può essere aumentato a scapito del tempo di lavoro pagato, anche quando il tempo di lavoro complessivo viene diminuito, attraverso l’aumento della produttività del lavoro nel corso dell’espansione del capitale. Poiché un minor tempo di lavoro è necessario per produrre l’equivalente-merce del reddito degli operai, una quota maggiore del tempo di lavoro complessivo può assumere la forma di prodotti di cui i capitalisti si appropriano. Ma la continua riduzione del tempo di lavoro deve alla fine ridurre anche il tempo di lavoro non pagato e arrestare così il processo di espansione del capitale attraverso la crescente produttività del lavoro. Dove non c’è lavoro, non può esserci pluslavoro e, di conseguenza, accumulazione di capitale.
Qualunque sia il grado di diffusione raggiunto dall’automazione e dai calcolatori elettronici, i mezzi di produzione non possono mettersi in funzione né riprodursi da soli. Accogliendo il presupposto, del tutto improbabile, che i loro proprietari, cioè i capitalisti, si impegnassero direttamente nella produzione, la conseguenza sarebbe che essi cesserebbero di essere capitalisti, cioè compratori di forza-lavoro a scopo di sfruttamento. Supponendo, ciò che è più probabile, che i capitalisti riuscissero a ridurre costantemente il numero degli operai produttivi, essi ridurrebbero insieme anche il tempo di lavoro non pagato in rapporto alla massa del capitale accumulato. I rapporti capitale-lavoro sono rapporti di valore, il che significa che i mezzi di produzione non sono soltanto mezzi di produzione, ma anche valori capitali e che la forza-lavoro non è solo forza-lavoro ma anche fonte di valore e di plusvalore. Per completare il processo di produzione capitalistico, il plusvalore deve avere un rapporto ben definito con il valore del capitale, cioè deve essere sufficiente a garantire la sua riproduzione allargata. Poiché i rapporti di valore sono rapporti di tempo-lavoro, dovrebbe essere chiaro, almeno per un marxista, che una riduzione del tempo di lavoro che sconvolgesse il necessario rapporto tra plusvalore e capitale non sarebbe compatibile con il capitalismo e, per tale motivo, interromperebbe o porrebbe fine al processo di produzione capitalistico.
In termini astratti di valore, un aumento del capitale investito nei pezzi di produzione più rapido di quello del capitale investito nella forza-lavoro diminuisce il saggio del profitto, che è valutato in base al capitale complessivo. Il profitto può essere mantenuto soltanto attraverso una crescente produttività, attraverso le innovazioni tecniche che permettono una riduzione di forza-lavoro e un risparmio di capitale. Il costante aumento della produzione e della produttività attraverso l’espediente del risparmio di lavoro ha il duplice effetto di aumentare il profitto del capitale e di riprodurre il bisogno di ulteriori, ampi aumenti della produttività su una base sempre decrescente di produzione del capitale. Anche se gli espedienti di risparmio di capitale dovessero arrestare il crescente divario tra capitale investito in mezzi di produzione e capitale investito in forza-lavoro e in tal modo frenare la caduta del saggio del profitto del capitale complessivo, ciò sarebbe soltanto un palliativo temporaneo. La costante- riduzione della forza-lavoro terminerà fatalmente nella distruzione del profitto. Ma il capitalismo non può far a meno di questa continua riduzione, perché essa è, a quanto pare, l’unica “via di uscita che gli rimane per far fronte alla crescente produzione senza profitto in un’economia che si basa sul profitto. Ma se la riduzione della forza-lavoro è l’unica via d’uscita per il capitalismo, questa stessa via conduce solo a un “cul-de-sac”. Quel che Marcuse considera la soluzione capitalistica delle difficoltà del capitalismo, e cioè la sua nuova tecnologia, rappresenta invece l’insolubile contraddizione presente e futura della produzione del capitale nell’ambito dei rapporti di proprietà dell’economia di mercato.
Non entreremo nei dettagli tecnici del perché l’effetto della diminuzione del profitto provocata dalla riduzione del numero dei lavoratori non può essere in eterno neutralizzato, o ampiamente compensato dalla loro crescente produttività e del perché, per tale, motivo, la tendenza alla diminuzione del saggio del profitto deve trasformarsi ad un certo stadio della espansione del capitale nella sua effettiva caduta. Infatti, considerando la presente minaccia dell’automazione, oggi quasi tutti si rendono conto che il crescente divario tra lavoro e capitale arriverà necessariamente al punto da escludere un’ulteriore, progressiva espansione del capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro.
Questa convinzione sempre più diffusa implica un’inconscia adesione alla teoria marxiana dell’accumulazione, se non altro perché si presenta rivestita di termini non-marxiani. Invece di dedurre il crollo finale del capitalismo dalla “produttività del lavoro”, che è solo un’altra espressione per accumulazione del capitale, i “marxisti” alla rovescia lo deducono dalla “produttività del capitale” e dalla sua tendenza alla riduzione della forza-lavoro. In entrambi i casi, il sistema di produzione del capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro finisce per cessare. Dal momento che la crescente produttività del lavoro implica la crescente produttività del capitale, la fine del capitalismo attraverso l’automazione non si differenzia dalla fine del capitalismo per mancanza di plusvalore.
Mentre gli eventi futuri devono ancora dimostrare se il pessimismo di Marcuse nei confronti della possibilità di una rivoluzione operaia sia più o meno giustificato, il suo “ottimismo” circa la capacità del capitalismo di salvarsi attraverso mezzi tecnologici e politici_ _sarà molto probabilmente smentito dagli avvenimenti concreti. Al momento, naturalmente, all’affermazione di Marcuse si può rispondere solo con una contro-affermazione. In considerazione di quanto è accaduto da fine della seconda guerra mondiale ad oggi, sembrerebbe che il capitalismo abbia trovato un modo di sfuggire ai pericoli della sua struttura di classe e sia stato capace di trasformarsi in una società libera da ogni efficace opposizione.
Ogni situazione particolare del capitalismo è transitoria. Ma è solo considerando leggi generali dello sviluppo capitalistico che ognuna delle sue situazioni storiche date rivela la sua natura transeunte. Il futuro del capitalismo poggia sulla sua costante capacità di trarre sufficienti profitti dalla produzione sociale, così da garantire la sua riproduzione allargata. Una persistente diminuzione del saggio di espansione del capitale indica, sempre più, che il capitalismo va perdendo questa sua capacità, e questo nonostante un aumento generale della produzione attraverso gli interventi statali. Tuttavia, fin quando l’aumento può ancora essere conciliato con il diminuire della formazione di capitale privato attraverso la crescente produttività del lavoro, l’“economia mista” può dimostrarsi non una temporanea possibilità ma un’effettiva trasformazione, capace di risolvere le contraddizioni della produzione del capitale.
La questione è dunque: può il capitalismo evolversi in qualcosa di diverso da quello che è? Possono le leggi generali dello sviluppo capitalistico essere annullate dai mezzi tecnologici e politici che provvedono sia alle esigenze di profitto del capitale sia al benessere generale mediante il semplice espediente della produzione di spreco? È vero che questo è esattamente quel che è accaduto. Eppure vedere questo processo come una pratica sociale permanente e sempre più diffusa significa supporre che il capitalismo può trasformarsi in un sistema diverso in cui — per dirla in termini marxiani — non è più il valore di scambio che domina ma il valore d’uso. Tale mutamento implicherebbe un mutamento nei rapporti di proprietà basati, allo stato attuale delle cose, sulla produzione e distribuzione del valore di scambio. In altre parole, richiederebbe una rivoluzione sociale. Ma Marcuse non è di quest’opinione. La società industrialmente avanzata, dice, “è una società statica, malgrado tutto il suo dinamismo. La sua incessante espansione, la sua produttività in continuo aumento, il suo crescente sviluppo non producono altro se non sempre di più le stesse cose, senza alcun mutamento qualitativo o alcuna speranza di mutamento qualitativo”. Ma Marcuse parla anche di “metamorfosi” capitalistica in risposta al fenomeno della guerra fredda, che prima di ogni altro fornisce al capitalismo l’impulso a “organizzarsi” e ad ampliare la sua produzione. Ciononostante, secondo Marcuse, questa “metamorfosi” implica un mutamento non qualitativo, ma solo quantitativo attraverso la “sempre crescente marea di beni, e il sempre più alto livello di vita, che sembrano acquistare una sempre maggiore attrattiva” e che danno .alle masse “tutte le ragioni per integrarsi in una simile società”.
Tuttavia, secondo Marcuse, anche “il capitalismo più altamente organizzato serba il bisogno sociale di procedere all’appropriazione e alla distribuzione private del profitto come regolatore dell’economia” (6). Se è così, anche “il capitalismo organizzato” conserva dunque intatti i rapporti di valore capitalistici e diventa quindi necessario per Marcuse dimostrare che questi rapporti sono in armonia con la continua espansione della produzione, raggiunta con mezzi tecnologici e politici. A tal proposito Marcuse si rifà a Marx e afferma che “la macchina non crea mai valore: essa trasferisce semplicemente il proprio valore nel prodotto, mentre il plusvalore risulta dallo sfruttamento del lavoro vivo”. Considerando l’automazione, Marcuse nota tuttavia che essa “sembra alterare qualitativamente la relazione tra lavoro morto e lavoro vivo; essa procede verso il punto in cui la produttività è determinata dalle macchine e non dal rendimento individuale”. Questo lo aveva notato anche Marx, il quale aveva messo in rilievo che la ricchezza sociale è non solo un rapporto di valore ma è incorporata, in misura crescente, in un apparato produttivo che trasforma la produttività del lavoro in produttività del capitale. “Sebbene lo sviluppo stesso dei mezzi di produzione moderni — scriveva Marx — indichi in qual notevole grado il sapere generale della società è diventato una forza produttiva immediata che condiziona la vita sociale e determina la sua trasformazione”, il contributo particolare del capitalismo a questo stato di cose non consiste in null’altro che nel “suo uso di tutti i mezzi delle arti e delle scienze per aumentare il pluslavoro, perché la sua ricchezza, sotto forma di-valore, non è altro che appropriazione del tempo di pluslavoro”.
La diminuzione del lavoro come fonte e misura di valore avviene già nelle attuali condizioni capitalistiche. A seconda dello stato della struttura del capitale, essa può avere un effetto positivo o negativo sul processo di accumulazione. Ora, quando Marcuse dice che “anche il capitalismo più altamente organizzato serba il bisogno di procedere all’appropriazione e alla distribuzione del profitto come regolatore dell’economia”, egli non fa che dire che i rapporti di valore nel processo di produzione del capitale sono in esso conservati e regolano l’economia. In altre parole, l’economia è “regolata” dalla sua capacità o incapacità di produrre plusvalore e non dalla sua capacità o incapacità di produrre semplicemente. L’appropriazione e la distribuzione private del profitto presuppongono dei rapporti di mercato, e questi rapporti di mercato presuppongono dei rapporti di valore. In queste condizioni, il profitto rimane plusvalore, o pluslavoro, anche quando i rapporti tra lavoro “morto” e lavoro “vivo” sono stati invertiti.
Marcuse pensa che il capitalismo risponda alla sfida del comunismo mediante uno “sviluppo spettacoloso di tutte le forze produttive, una volta posti sotto controllo gli interessi privati per il profitto che arrestano tale sviluppo”. Inoltre, secondo Marcuse, non è solo la sfida del comunismo che provoca tale mutamento, ma anche “il processo tecnologico e la produzione di massa, che distruggono le forme individualistiche in cui il progresso operava in epoca liberistica” (7). A parte il fatto che queste “forme individualistiche” sono state per la prima volta radicalmente distrutte in nazioni tecnologicamente arretrate senza produzione di massa, se fosse proprio vero che queste “forme individualistiche” sono distrutte, non potrebbe essere nello stesso tempo vero che “l’appropriazione e la distribuzione private del profitto” vengono considerate il “regolatore dell’economia”. E, se tale affermazione fosse vera, non potrebbe esser vero che “gli interessi privati per il profitto” sono stati “subordinati” al bisogno sociale di un ulteriore “spettacoloso sviluppo delle forze produttive”.
Le due cose non possono essere contemporaneamente vere; o si lascia che l’economia si “autoregoli” attraverso i rapporti valore-prezzo in un mercato competitivo di produttori orientati in maniera individualistica, cioè capitalistica; oppure l’economia è coscientemente regolata, con maggiore o minor successo, da decisioni dell’autorità pubblica che considera l’economia nazionale come un tutto sulla base dei suoi ordinamenti istituzionali particolari. Una combinazione di regolazione di mercato e regolazione pianificata dell’economia può esserci solo se le due componenti coesistono una accanto all’altra; tale combinazione “non mescola” realmente l’economia, ma tende, nel corso dello sviluppo, a eliminare l’una parte o l’altra, a meno che una di queste parti non possa essere tenuta costantemente in posizione subordinata. Ma ciò significherebbe limitare l’efficacia di questo tipo di soluzione. Poiché l’espansione della produzione stimolata dallo Stato non può intensificarsi ma solo tenersi ai margini della formazione del capitale privato, in quanto le sue spese devono essere in ultima analisi sostenute dal settore privato dell’economia, la sopravvivenza della produzione del capitale privato pone limiti ben definiti allo sviluppo generale della produzione d’iniziativa pubblica. Di conseguenza, la continua espansione della produzione deve essere realizzata dalla produzione privata. Ma questa produzione privata è soggetta ai rapporti di valore come si manifestano sul mercato, e trova i propri limiti nella sua stessa espansione. Esistono dunque, nell’ambito dei rapporti capitalistici di produzione, dei limiti posti sia dalla produzione privata sia da quella pubblica; i limiti di quest’ultima sono i limiti della produzione stessa del capitale.
5
Il capitalismo ha da tempo cessato di essere un sistema di produzione socialmente progressivo ed è diventato — nonostante tutte le apparenze in contrario — una forma di produzione sociale regressiva e distruttiva. Ha portato alla divisione del mondo in un piccolo gruppo di nazioni altamente industrializzate e una grande maggioranza di nazioni incapaci di sollevarsi da uno stato di crescente miseria. Eppure i destini di tutte le nazioni sono strettamente collegati fra loro; è la situazione nel suo complesso, la situazione mondiale, che alla fine determina il futuro di ciascuna e di tutte le nazioni. Le prospettive dei vari paesi, anche di quelli più avanzati, vanno considerate alla luce delle condizioni esistenti e da questo punto di vista bisogna riconoscere che non sono molto brillanti. Le condizioni di benessere costituiscono piccole oasi in un immenso deserto di miseria umana.
Non più capaci di trarre dalle loro masse lavoratrici le quantità di pluslavoro che garantirebbero un’accumulazione proficua del capitale, le potenze capitaliste dominanti si sono rese conto che anche le fonti di pluslavoro esistenti nelle zone sottosviluppate del mondo vanno prosciugandosi. L’eccessiva accumulazione nelle nazioni di grande sviluppo economico è, in gran parte, responsabile della mancanza di accumulazione nei paesi sottosviluppati. Se le potenze capitaliste continueranno a sfruttare le aree depresse, distruggeranno a poco a poco ogni possibilità di un loro sfruttamento. Ma non sfruttarle significa ridurre ulteriormente il già insufficiente profitto del capitale nelle nazioni avanzate. Invece di rallentare il loro sfruttamento, esse cercheranno dunque di intensificarlo, se non più in collaborazione con le classi dominanti tradizionali dei paesi arretrati, attraverso il neo-colonialismo, cioè in collaborazione con le nuove classi dominanti che sono rapidamente scaturite dai movimenti anti-coloniali.
Tuttavia, la continua dominazione economica esercitata dal capitale occidentale sulle nazioni meno sviluppate non offre alcuna soluzione agli effettivi bisogni delle grandi masse popolari di quei paesi, né risolverà per il capitalismo occidentale i problemi di fondo della produzione del capitale. Tutto quel che fa è alimentare un po’ più a lungo le capacità vitali dell’economia capitalistica mondiale in via di disintegrazione, ricorrendo anche alla brutale repressione di ogni forma di rivolta, provocata dalla crescente miseria sociale che nessuno si preoccupa di alleviare. Non è azzardato prevedere che, almeno nelle zone sottosviluppate del mondo, la miseria generale condurrà a sempre nuove ribellioni contro la dominazione straniera e insieme contro i suoi collaboratori locali.
È vero naturalmente quel che Marcuse dice, e cioè che le rivolte nelle nazioni sottosviluppate non sono movimenti proletari in senso marxiano. Anche se questi movimenti rivoluzionari-nazionali dovessero trionfare, la loro vittoria condurrebbe semplicemente all’instaurazione di organizzazioni sociali simili a quelle che caratterizzano il mondo capitalistico all’Est o all’Ovest, dove le rivoluzioni socialiste in senso marxiano non sembrano più possibili. Secondo Marcuse, “la realtà delle classi lavoratrici nella società industriale avanzata fa del “proletariato” marxiano un concetto mitologico; [e] la realtà del socialismo odierno fa dell’idea marxiana un sogno” (8). Non esiste tuttavia alcun “socialismo odierno” che, con la sua azione, dimostri l’irrealtà del concetto marxiano di socialismo, cioè della società senza classi libera da rapporti economici di valore. Né la realtà delle classi lavoratrici nella società industriale avanzata nega la realtà del concetto marxiano di proletariato semplicemente perché il loro livello di vita è migliorato e la loro coscienza di classe svanita. Come in precedenza, la società è divisa in proprietari dei mezzi di produzione e in classe operaia nullatenente, ossia in capitalisti che controllano l’economia e in salariati senza alcun potere.
Solo in base all’assunto che è possibile mantenere lo “status quo” è lecito pensare che tutti i problemi sociali possono essere risolti nell’ambito delle istituzioni esistenti, che la storia è giunta a un punto fermo nelle condizioni stabilite, che il proletariato — vale a dire la grande maggioranza della popolazione nei paesi industrialmente avanzati -non ha alcun ruolo nella storia, in quanto tale ruolo non può essere necessariamente che un ruolo d’opposizione e deve trovare espressione in una coscienza rivoluzionaria rinnovata, o di nuova formazione. Naturalmente, Marcuse non nega un ulteriore sviluppo storico; solo il fattore automazione — egli rileva — “indica la possibilità di una rivoluzione nel capitalismo”. Tuttavia, per Marcuse, tale possibilità è assai remota e ciò lo induce ad aggiungere sempre ai suoi tetri pronostici la clausola “nel futuro che si può prevedere”. Ma cos’è “il futuro che si può prevedere” se non il riconoscimento di alcune tendenze di fondo che influenzano ed alterano le condizioni esistenti in un senso ben determinato? L’accento va messo dunque non sulla possibile, prolungata persistenza delle condizioni esistenti, ma sugli elementi in seno a tali condizioni che ne indicano la dissoluzione.
Marcuse sembra credere che le attuali condizioni di “opulenza” che la classe operaia dei paesi industrialmente avanzati ha raggiunto negli ultimi anni, siano destinate a durare. “S’è verificata — dice — una scissione in seno alla classe operaia stessa, che ha trasformato quasi tutti gli operai organizzati in un’aristrocrazia del lavoro, che ha dato vita ad un nuovo tipo di solidarietà di classe, una solidarietà tra gli operai organizzati che hanno un lavoro ed una certa sicurezza, in contrapposizione a quelli che non hanno lavoro e neppure alcuna possibilità di ottenerlo nel futuro che si può prevedere” (9). Ma qui non siamo di fronte ad un nuovo tipo di solidarietà, ma alla mancanza dì ogni solidarietà, perché, anche nell’ambito della classe operaia organizzata, che rappresenta una minoranza, non c’è solidarietà ma semplicemente, sebbene non sempre, un muto accordo di rispettare il monopolio del lavoro che ogni sindacato esercita nel proprio settore. I sindacati sono semplicemente diventati reazionari perché i rapporti di mercato su cui si basano non sono più rapporti sociali progressivi ma regressivi. Non si tratta di “integrazione sociale” in cui gli interessi del lavoro e del capitale coincidano, ma solo di un esempio della persistenza di istituzioni antiquate in una economia di mercato in decadimento.
Ma tale persistenza non garantirà per il futuro le attuali condizioni sociali. Poiché il capitale non può trarre nulla dai disoccupati, ma deve in qualche modo provvedere ad essi, può guadagnare soltanto, se guadagnare deve, sugli operai occupati. È molto difficile, se non impossibile, far franare certi livelli di vita, una volta che siano stati raggiunti, senza provocare gravi agitazioni sociali. L’alto livello di vita dei paesi industrialmente avanzati finirà necessariamente per trasformarsi in un ostacolo all’espansione del capitale. Perché, per mantenerlo intatto quando il profitto mostra una netta tendenza alla diminuzione, si rende necessaria l’estensione della produzione e questa, a sua volta, implica una necessità sempre maggiore di elevare la produttività del lavoro: il che, nelle attuali condizioni, significa il continuo aumento della disoccupazione. La disoccupazione stessa diventa una spesa sempre crescente che, unita alle altre spese per il mantenimento dell’“opulenza”, finirà presto o tardi per mettere a dura prova anche le più grandi “capaci economiche e tecniche”. La “opulenza” potrà: essere mantenuta solo cambiando la natura della società stessa, solo rinunciando al principio del profitto.
Con ciò non voglio dire che 1’“opulenza” alimenti la rivoluzione, ma solo che non c’è bisogno di un impoverimento assoluto per provocare sentimenti di opposizione. Non necessario che la gente sia ridotta alla fan perché incominci a ribellarsi; può farlo al prime pesanti incursioni contro il suo abituale livello di vita o quando le è vietato l’accesso a quello che ritiene il livello di vita cui ha diritto. Più la gente sta bene, più risente di qualsiasi privazione impostale e più tenacemente si attacca al tono di vita a cui abituata. In questo senso, un parziale calo della diffusa “opulenza” può bastare a distruggere il consenso esistente.
Marx ha detto in qualche luogo che “il proletariato è rivoluzionario oppure non niente”. Oggi il proletariato non è niente e può darsi che continuerà ad essere niente. Ma nessuno può averne la certezza. Marx diceva anche che “le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti”, il che non impedisce il sorgere di idee sovversive. Naturalmente, idee sovversive possono fiorire solo in condizioni di scontento. Nell’odierna società del benessere non c’è abbastanza insoddisfazione, anche se si tratta di un falso benessere. Di conseguenza, esiste un pensiero unidimensionale, una. società senza un’effettiva opposizione. Poiché niente di diverso ci si può aspettare in simili condizioni, non abbiamo voluto andare più a fondo nell’acuta analisi critica che Marcuse ha condotto nei confronti dell’ideologia dominante della società industriale avanzata. Siamo completamente d’accordo con le osservazioni da 1ui fatte in proposito, anzi gli siamo grati di averle fatte. Secondo Marx, c’era da aspettarsi, come osserva Marcuse, che la “società unidimensionale che si va affermando alteri le relazioni tra il razionale e l’irrazionale. In contrasto con gli aspetti capricciosi e folli della sua razionalità, il regno dell’irrazionale diventa sede di ciò che è realmente razionale” (10): il che è il risultato finale del feticismo del capitale e della produzione di merci. Va tuttavia riconosciuto — e lo stesso Marcuse ne offre una testimonianza — che razionalità non-feticista esiste ancora, ma che può, a tutti gli effetti pratici, essere ignorata.
L’opposizione esistente non può diventare una forza sociale perché non rappresenta ancora interessi materiali abbastanza forti dà opporsi agli interessi materiali rappresentati dall’ideologia dominante. Quando l’opposizione cessa di avere una forza materiale, diventa un lusso: la visione più profonda di uomini intelligenti che possono ben disprezzare sia la società sia le sue vittime che difendono con tanta ostinazione l’irrazionalità generale. Eppure la minoranza povera deve vivere nell’ambito di questa irrazionalità ed accettarla come una necessità, la quale viene allora trasformata in una apparente virtù per essere resa più accettabile. Anche quando l’opposizione trova forme politiche, essa trova false espressioni come, ad esempio, nella lotta dei negri d’America per i diritti civili, un obiettivo insignificante che, pur essendo tale, resta irraggiungibile. L’“outsider” non può uscire dalle condizioni esistenti, a meno che non voglia rischiare tutto, persino la sua vita, appiccando fuoco e saccheggiando.
Le sporadiche ribellioni di piccole minoranze, spinte dalla disperazione, possono venire facilmente dominate dall’autorità che rappresenta la maggioranza dei soddisfatti, tra i quali si annoverano anche le masse operaie. Fatto di bianchi o di neri, il “sostrato di reietti e di outsiders” può essere decimato a poco a poco dalle stesse condizioni di vita che gli vengono imposte. Ma con l’aumentare del loro numero — che in effetti sta aumentando — anche i loro atti di ribellione diventeranno più frequenti e così pure crescerà tra il gregge dei soddisfatti il numero di quelli che si rendono chiaramente conto di poter finire essi stessi, un giorno o l’altro, nel mucchio dei rifiuti del capitalismo. Se si prende come esempio il passato, si può vedere che l’aumento della miseria sociale conferisce forza a questa miseria, e la forza porta all’azione. Quando Marcuse dice a proposito di coloro che non sono occupabili che “le capacità economiche delle società stabilite sono abbastanza ampie da permettere aggiustamenti e concessioni a favore dei sottoproletari, e le loro forze armate sono abbastanza addestrate ed equipaggiate per far fronte alle situazioni di emergenza”, egli descrive con esattezza le condizioni esistenti nei paesi industrialmente, avanzati. Ma quello che è vero oggi non è detto che sarà vero domani e, in ogni modo, sarà meno vero se la tendenza dello sviluppo capitalistico continuerà ad essere quella che è stata in passato.
Naturalmente può darsi che gli avvenimenti del passato non siano ripetibili. L’epoca delle rivoluzioni può essere finita e la società unidimensionale, statica e totalitaria, inevitabile. Ma se non possiamo giudicare in base alle esperienze del passato, allora non possiamo giudicare affatto. In tal caso, qualunque cosa è possibile: anche una rivoluzione da parte della classe operaia. Questo presuppone però che il proletariato continui ad esistere, mentre invece pare che sia già in dissolvimento per quel che riguarda non solo la sua coscienza di classe sempre più fievole, ma persino la sua funzione sociale. Spesso si fa una distinzione tra la classe operaia “classica” e l’odierna popolazione lavoratrice, di cui solo una piccola parte ha occupazioni produttive. Ma questa distinzione è artificiosa, perché ciò che distingue il proletariato dalla borghesia non sono le occupazioni particolari dei proletari, bensì la loro mancanza di controllo sopra la stessa esistenza in seguito alla mancanza di controllo sopra i mezzi di produzione. Qualunque siano le loro occupazioni, i salariati sono proletari. Anche se un numero sempre maggiore di operai è occupato nelle industrie non-produttive, nelle cosiddette industrie dei servizi, la loro posizione sociale di fronte ai capitalisti rimane invariata. A causa della concentrazione di capitale e dell’eliminazione della classe media dei proprietari, oggi ci sono più “proletari” di quanto ce ne siano mai stati in passato.
La popolazione lavoratrice forse non si crede, o non ama credersi, una massa di “proletari” e, con questa riluttanza a riconoscere la propria posizione sociale, contribuisce forse alla unidimensionalità dell’ideologia dominante. Tuttavia, per non diventare inutili, tutte le ideologie devono in qualche modo riferirsi ad un determinato stato di fatto; se perdono ogni legame con la realtà, significa che sono sul punto di crollare. Mentre l’operaio occupato e ben pagato può non riconoscere la sua condizione di proletario, il disoccupato la riconoscerà senza indugio, e il povero, trattato come un reietto, non ha più alcuna scelta.
Il capitalismo è sostanzialmente una società a due classi, nonostante le varie differenziazioni di condizione che esistono entro ciascuna classe. La classe dominante è quella che prende le decisioni, l’altra è alla mercé di queste decisioni, che determinano le condizioni generali della società, anche se sono prese in conformità alle esigenze particolari del capitale. La classe dominante non può agire diversamente da come agisce; cioè, in maniera stupida o intelligente, farà di tutto per perpetuarsi come classe dominante. Qualunque cosa decidano coloro che hanno il potere di farlo devono metterla in atto nella sfera della produzione, giacché il sistema di distribuzione e i tipi di consumo dipendono dal tipo di produzione. Senza il controllo sul processo produttivo nessuna decisione può venire presa, nessuna classe può dominare. Il controllo della produzione viene esercitato attraverso il controllo dei mezzi di produzione, mediante l’ideologia e la forza. Ma né la proprietà, né l’ideologia, né la forza possono produrre qualcosa. L’intero edificio sociale poggia sul lavoro produttivo. I lavoratori; (produttivi hanno più potere latente di qualsiasi altro gruppo sociale. Negare questo fatto è il compito principale dell’ideologia borghese. Ciò viene pienamente alla luce nelle sue teorie economiche e nel generale deprezzamento del lavoro produttivo. Tuttavia, nonostante l’opinione diffusa che l’importanza dell’operaio dell’industria sia in costante diminuzione, mai come oggi gli si è dedicata tanta attenzione, perché, in realtà, il suo potenziale di controllo sulla società non è mai stato così grande.
La “socializzazione” tecnico-organizzativa della produzione, cioè l’interdipendenza del processo nazionale di produzione e l’assoluta dipendenza dell’intera popolazione da un ininterrotto flusso di produzione, conferisce alla classe operaia un potere quasi assoluto sulla vita e sulla morte della società. Gli operai potrebbero distruggere la società semplicemente cessando di lavorare. Se questa non può essere la loro intenzione in quanto membri della stessa società, essi potrebbero però scuotere la società fin dalle sue fondamenta se fossero fermamente decisi a mutarne la struttura. È per questa ragione che i sindacati sono stati adattati all’organizzazione capitalistica per controllare i conflitti di lavoro, è per questa ragione che i governi, compresi quelli laburisti, approvano leggi antisciopero, mentre quelli più coscienti della forza latente nell’azione operaia, cioè i regimi totalitari, mettono addirittura fuori legge lo sciopero. Poiché il proletariato industriale, se lo volesse, avrebbe il potere di mutare la società, esso e oggi, come lo era in passato, la classe da cui dipende la trasformazione reale della società.
Osservando il comportamento attuale della classe operaia, e consapevoli del fatto che l’intervento operaio è indispensabile per la realizzazione del socialismo, il socialismo ci appare ancora meno accessibile e niente più di un “sogno marxiano”. Tuttavia, basterà pensare a quel che molto probabilmente accadrebbe senza una rivoluzione socialista, per pensare anche alla possibilità di un tipo diverso di comportamento da parte delle classi lavoratrici. Quel che è destinato ad accadere sta già in qualche misura accadendo, e la proiezione del quantitativa del presente nel futuro che si può prevedere dimostra quanto sia utopistica l’idea di risolvere i problemi sociali con mezzi capitalistici. La frase “socialismo o barbarie” pone le uniche alternative reali.
Il conformismo ideologico dipende dalle condizioni di benessere; da solo non ha possibilità di esistere. Ma, a meno che qualunque ragionamento teorico sia completamente privo di valore, nella misura in cui esso permette di prevedere le cose, esso indica non solo una cessazione del benessere prodotto dal capitalismo, ma la fine del capitalismo stesso. Se la coscienza di classe dipende dalla miseria, non ci può essere dubbio che la miseria che attende la popolazione del mondo andrà oltre ogni esperienza finora fatta in materia, e finirà per travolgere le minoranze privilegiate delle nazioni capitalistiche avanzate, che ancora si credono immuni dalle conseguenze delle loro attività. Poiché non esistono “soluzioni economiche” alle contraddizioni del capitalismo, i suoi aspetti distruttivi vanno assumendo un carattere sempre più violento; all’interno, attraverso una produzione di spreco sempre più intensa; all’esterno, seminando distruzioni in quei territori dove. la popolazione rifiuta di sottomettersi alle esigenze di profitto del capitale straniero, che segnerebbe la loro definitiva rovina. Mentre la miseria generale aumenterà, anche le situazioni particolari di “opulenza” svaniranno, e i benefici della crescente produttività verranno dissipati in una feroce competizione per i profitti in declino della produzione mondiale.
Poiché la classe operaia è la classe che più di ogni altra risentirà di un rovesciamento delle fortune della produzione del capitale, o delle avventure belliche del capitalismo, molto probabilmente sarà la prima a insorgere contro l’ideologia unidimensionale del dominio capitalistico.
Paul Mattick, dal volume “The Critical Spirit”, a cura Kurt H. Wolff e Barrington Moore Jr. (Beacon Press, Boston).
REFERENZE BIBLIOGRAFICHE.
(1) “International Socialist Journal”, II, n° 8,aprile 1965, pag. 150.
(2) “Socialism in the Developed Countries”. Cit., pag. 140.
(3) Ibidem pagg. 141-144.
(4) “L’uomo a una dimensione”, Einaudi Torino, 1967, pag. 168.
(5) “Socialism in the Developed Countries”, pag 140. Le citazioni successive sono tratte dalle pagg. 141-150.
(6) “L’uomo a una dimensione”, cit. pag. 72.
(7) “Soviet Marxism”, rev. ed. New York 1961, pag. 67.
(8) “L’uomo a una dimensione”, cit. pag. 201.
(9) “Socialism in the Developed Countries”, pag. 145.
(10) “L’uomo a una dimensione”, cit. pag. 256.