ARCHIVIO TEMATICO (in allestimento. Pronto l'indice dei redattori)

domenica 31 luglio 2011

LA CATASTRÒFA Marcinelle 8 Agosto 1956

Dal sito ANOIPIACE

Io mi domando Gesù Cristo che stava a pensa’.

I corpi ritrovati il 9 dicembre 1957 sono come pietrificati o mummificati. La carne è ridotta in polvere e mescolata con la terra e il ghiaione. Gli scheletri sono relativamente completi. Le ossa essiccate. Sono stati ritrovati frammenti di tessuto, pezzi di cuoio, fibbie e cinture, sandali di caucciù leggermente fusi, bidoni sgualciti, oggetti personali come orologi, fedi, lampade elettriche numerate in pessimo stato. (Rapporto Commissione d’Inchiesta Governo Belga)

Un giorno della primavera 1986, davanti al Cazier, Angelo Galvan, già molto malato, disse a memoria i nomi dei 262 morti. Pare lo facesse spesso.

Nell’epoca moderna il lavoro dovrebbe essere considerato uno strumento di emancipazione, le conquiste sociali del ‘900 andavano in questa direzione, ma i ricchi, il sistema capitalista, si è sempre opposto a questo principio, e la storia degli operai, di ieri e di oggi, è storia di sfruttamento, sacrifici, povertà, malattie, tragedie; spesso unificate sotto la voce emigrazione.

La catastròfa il bellissimo libro di Paolo Di Stefano, giornalista del Corriere della Sera, tratta di questi temi. Racconta la tragedia di Marcinelle, Belgio, e lo fa secondo la migliore tradizione della storia orale e dell’inchiesta vecchio stile. Di Stefano si reca in Belgio, ritorna in Italia, incontra i vecchi minatori sopravvissuti, le loro famiglie. Intervista le vedove, i figli – alcuni all’epoca della tragedia non erano ancora nati, altri avevano pochi giorni – tutti, indistintamente, segnati per l’intera vita da quel dramma.

Era l’8 agosto 1956 a Marcinelle, quella prima mattina il cielo era azzurro come raramente si vedeva da quella parti, tutti hanno il ricordo nitido di quella che si preannunciava una bella giornata. Fu subito offuscata dal fumo che saliva dalla miniera, la catastròfa che si manifesta. Moriranno 262 minatori provenienti da 12 paesi diversi, 136 sono italiani: veneti, abruzzesi, marchigiani, siciliani.

È Vincenzo a parlare: “Eppure noi li sentivamo i vecchi che dicevano sempre in miniera sai quando scendi ma non sai se rimonti, e ricordatevi che il grisù è un gas. Poi però, quando sei sotto nel pozzo, c’è un’amicizia che ti fa pensare che sei forte e nessuno può farti male, neanche il grisù. Dici siamo tutti qua nello stesso inferno e se non succede niente, un pezzo di pane ce lo mangiamo insieme.”. Sotto nella miniera non esistevano nazionalità o regioni, appartenevano tutti alla famiglia dei minatori, non c’era Nord e Sud nella mina, se qualcuno si era dimenticato di portarsi appresso il pranzo il compagno lo divideva con lui, le difficoltà si affrontavano insieme. Quando salivi era diverso, per gli immigrati italiani la vita era dura. Dovevi fare i conti con i soliti luoghi comuni razzisti: sono venuti a mangiarci il pane e a portarci via le donne. Alcuni locali sulla porta recavano la scritta “ni chiens ni italiens”.

Quando arrivavano nel Belgio i minatori erano alloggiati in baracche che erano servite per rinchiudere i prigionieri di guerra tedeschi e polacchi. Erano alloggi indecenti senza bagni interni e una fontana in comune all’aperto. In quegli anni il governo italiano si era impegnato a inviare nelle miniere belghe 2.000 uomini alla settimana senza preoccuparsi troppo delle condizioni di vita e di lavoro di quella gente. Per ogni mille operai che partivano per le miniere il governo belga ricompensava l’Italia con 2.500/5.000 tonnellate di carbone mensili a secondo della produzione.

Nella mina il lavoro era pesante, per la produzione giornaliera dovevi scavare 9 metri cubi di carbone, guadagnavi 320 franchi che bastavano appena, allora per qualche franco in più si lavorava a cottimo e si rischiava la vita. Antonio racconta: “quando si rimontava al giorno ci domandavamo sempre – Ehi, quanti caduti oggi? – Dove si rompeva la cinta, dove cadeva la frana, dove scoppiava un’esplosione o un incendio. È normale, la sicurezza non contava niente, contava solamente u carbone. U governo belga scriveva in Italia: mandami nu tot di persone, e u governo italiano mandava carne da maciello, De Gasperi aveva fatto u contratto e chi moriva moriva e chi campava era chiù fortunato.”.

La tragedia di Marcinelle è stata provocata dalla totale assenza di misure di sicurezza in una miniera obsoleta anche per quell’epoca, a cui si sono aggiunti errori umani e disorganizzazione nei soccorsi. Una tragedia che si sarebbe potuta evitare se solo si fosse messo in primo piano la sicurezza, il rispetto per la vita, per i lavoratori e per il lavoro; invece ha prevalso il profitto, ieri come oggi. Il profitto e il potere che hanno poi impedito alla giustizia di fare il suo corso. I veri colpevoli di quel disastro non saranno mai condannati. Da subito fu una corsa ad occultare, insabbiare, in seguito a dimenticare.

La catastròfa ha il merito di riportare alla memoria quei fatti attraverso testimonianze e documenti, togliendo dall’oblio storie commoventi, storie molto belle, intrecciate con la storia dell’emigrazione italiana del secondo dopoguerra.

Un libro che merita di essere letto perché, come spiega Goffredo Fofi in un suo recente articolo, ci ricorda la necessità della “lotta di classe”, le sue eterne ragioni. O come dice Peppe: “e io penso che il mondo marcia marcia, ma per i poveracci marcia sempre da fermo mentre che per i ricchi signori minchioni marcia in avanti sempre meglio”. Già, i ricchi signori minchioni.

h.

Un sito utile: http://vergaelen.michel.ibelgique.com/Marcinelle.htm


giovedì 28 luglio 2011

La resa dei conti, di Riccardo Achilli


La questione del limite legale al debito pubblico federale USA è in parte una falsa questione, un tecnicismo che sicuramente fra poche ore, o giorni, verrà superato, con un accordo democratici-repubblicani per l'innalzamento del tetto all'indebitamento e un piano, del valore di circa 3.000 miliardi, di minori spese (molte) e maggiori entrate (pochissime, nell’ultima versione presentata da Reid, capo dei demcoratici in Senato, praticamente quasi nessuna) assolutamente inadeguato anche solo a contenere il problema del crescente dissesto dei conti pubblici USA, buono solo per tenere buoni i piccoli risparmiatori sui mercati finanziari. Basti pensare che fra 2010 e 2011 il debito federale è cresciuto di quasi 2.000 miliardi! Le elezioni presidenziali del 2012 rendono assolutamente impensabile il varo di una manovra finanziaria più robusta, che sarebbe indispensabile per evitare il crollo.
Ma dietro la soluzione del tecnicismo sul tetto del debito, che ovviamente verrà venduta dalla stampa e dagli economisti borghesi come epocale riforma del welfare, il probema rimarrà intatto. Il debito pubblico federale, secondo stime diverse da quelle del Governo, che includono il settore pubblico allargato, raggiunge il 140% del PIL (è quindi ampiamente superiore anche al rapporto debito/PIL italiano). Cui va aggiunto il dissesto delle amministrazioni locali: 42 Stati su 50 avranno, nel 2012, un deficit di almeno 103 miliardi. Il Minnesota ha chiuso il Governo per 3 settimane in questo mese, per non aver trovato l'accordo sul budget; 16 città sono già in default, e sottoposte alle procdure di tutela dei creditori previste dal Chapter 9. Di fatto già adesso l'enorme peso del debito pubblico impedisce all'economia reale statunitense di consolidare una ripresa produttiva ed occupazionale: il credito bancario, ancora alle prese con gli strascichi della crisi del settore immobiliare, oltre che a causa delle incertezze sul debito federale (che in gran parte è detenuto dalle banche USA, sotto forma di Treasury bonds) non cresce a sufficienza; le imprese, di conseguenza, non investono. l'occupazione cresce troppo lentamente, e quel poco che si crea è di scarsa qualità: a giugno, il tasso di disoccupazione è cresciuto di nuovo di 0,1 punti su base mensile, e solo 18.000 posti di lavoro nel comparto extragricolo (contro gli 80.000 previsti) sono stati creati. I tassi di interesse ed il dollaro sono a livelli troppo bassi per poter scendere ulteriormente, quindi non vi è più alcuna possibilità di stimolare il rilancio dell'economia tramite la politica monetaria o quella valutaria, oramai impotenti (anche perché l'inflazione sta crescendo rapidamente, nonostante l'assenza di qualsiasi significativa ripresa produttiva e lo stato catatonico della domanda: in un anno, fra giugno 2010 e giugno 2011 è passata dall'1,1% al 3,6%).
L'accordo bipartisan sull'innalzamento del tetto del debito non potrà che ritardare di qualche mese l'ineluttabile: gli USA sono in default. I credit default swaps per il debito federale USA, strumenti derivati per coprirsi dal rischio di default sovrano, sono quotati a livelli simili a quelli della disastrata Indonesia. La domanda aggregata è stagnante, e l'enorme voragine del debito federale la farà ineluttabilmente diminuire nei prossimi mesi, trascinandosi dietro la miserrima ripresa produttiva sin qui registratasi. Il debito, che è endogeno alla crescita, non potrà che aumentare ulteriormente, quindi l'abbassamento del rating sovrano degli USA è ineluttabile. Ciò comporterà l'esplosione di una fase di panico sui mercati finanziari globali. I creditori stranieri degli USA,che detengono il 32% del debito pubblico americano, Cina in primis, che detiene da sola 1.100 miliardi di Treasury bonds, cheideranno di rientrare dalla loro esposizione, il che porterebbe il Governo USA al fallimento, oppure negozieranno condizioni politiche ed economiche severissime, in cambio di una rinuncia a tale pretesa, di fatto segnando la fine dell'egemonia politica ed economica degli USA sul mondo, aprendo quindi una fase di instabilità degli assetti geo-politici di dimensioni imprevedibili. I tassi di interesse saliranno in tutto il mondo, strangolando la ripresa dell'economia globale. Una ondata di vendite di titoli denominati in dollari trascinerà di nuovo verso il basso i mercati finanziari, provocando fallimenti a catena di banche, investitori finanziari, semplici risparmiatori, ed imprese industriali quotate, che non potranno più rifinanziarsi sul mercato borsistico. Una nuova recessione appare inevitabile, da qui ad un anno o due al massimo (ma forse anche prima). La macchina del capitalismo globale è rotta e non può essere riparata.
Quali sono gli esiti possibili di una simile situazione? Difficile dirlo, ma alcune tendenze già si intravedono, e peraltro sono coerenti con la storia stessa del capitalismo. Il fallimento della "nuova socialdemocrazia" incarnata da Obama porterà probabilmente ad una estremizzazione neo-liberista, con uno smantellamento, su scala globale, delle tutele dei lavoratori residue, ed una ritirata dello Stato dall'economia e dal welfare di dimensioni epocali. Ma naturalmente ciò non farà altro che peggiorare la situazione economica, ed esasperare la deriva dell'antagonismo sociale, di fronte all'inevitabile rapidissimo incremento delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito. Se la storia ci insegna qualcosa, la risposta a tale deriva sarà una svolta autoritaria, con esperimenti di neo-fascismo. L'esplosione di una miriade di micro-conflitti locali si accelererà, come risposta al vuoto di potere nello scacchiere geo-politico derivante dal declino economico, e quindi politico-militare, degli USA. E' arrivato un drammatico momento di svolta della storia: niente sarà più come prima e tempi di cataclisma si annunciano. Il linguaggio da armageddon è sicuramete da evitare in generale, ma molto sangue scorrerà e molta povertà si creerà nelle contorsioni di un capitalismo non più all'altezza delle sue contraddizioni. Le preghiere non basteranno. Nemmeno i buoni propositi o i richiami alla purezza degli ideali. Occorre che chi si richiama agli ideali del comunismo trovi la strada di una riunificazione e di una proposta internazionalista a difesa del proletariato globale.

I limiti dell'integrazione (di Paul Mattick)



In una conferenza tenuta a Korcula in Jugoslavia nel 1964, Herbert Marcuse sollevò la questione “se è possibile concepire una rivoluzione quando non ne esiste la necessità vitale”. Marx, affermava Marcuse, prevedeva una rivoluzione della classe operaia perché, secondo lui, le masse lavoratrici rappresentavano la negazione assoluta dell’ordine borghese. L’accumulazione del capitale destinava gli operai ad una crescente miseria materiale e sociale, per cui essi erano portati sia per inclinazione sia per necessità ad opporsi alla società capitalista e a trasformarla. Ma se il proletariato non è più la negazione del capitalismo, allora, scrive Marcuse in “Socialism in the Developed Countries” (1), “esso non è più qualitativamente diverso da qualsiasi altra classe e quindi non è più capace di creare una società qualitativamente diversa”.

Marcuse è pienamente cosciente dell’inquietudine sociale che esiste anche nelle nazioni capitaliste avanzate, e delle situazioni concretamente e potenzialmente rivoluzionarie di molti paesi sottosviluppati. Tuttavia, i movimenti nelle nazioni avanzate sono movimenti in favore di “diritti borghesi”, come, ad esempio, le lotte dei negri degli Stati Uniti. E i movimenti nei paesi sottosviluppati sono palesemente movimenti non proletari ma nazionali, che si propongono di porre fine all’oppressione straniera e all’arretratezza delle loro condizioni interne. Sebbene le contraddizioni del capitalismo continuino ad esistere, il concetto marxiano di rivoluzione non si attaglia più alla situazione reale perché, secondo Marcuse, il sistema capitalistico è riuscito a “incanalare gli antagonismi in modo da poterli manipolare”. Dal punto di vista sia materiale che ideologico “proprio le classi che un tempo erano la negazione assoluta del sistema capitalistico sono oggi sempre più integrate in esso”.

Nel suo libro “L’uomo ad una dimensione” Marcuse sviluppa ampiamente il significato e la misura di questa “integrazione”. L’uomo integrato vive in una società senza opposizione. Sebbene borghesia e proletariato siano ancora le classi fondamentali di questa società, la loro struttura e la loro funzione sono talmente alterate che “esse non appaiono più essere agenti di trasformazione storica”. Anche se la società industriale avanzata è “in grado di contenere il mutamento qualitativo nel futuro che si può prevedere”, Marcuse riconosce che “esistono (ancora) forze e tendenze capaci di spezzare tale contenimento e di fare esplodere la società”. Tuttavia, a parer suo, “predomina la prima tendenza, e quei presupposti d’un rovesciamento che possono esserci ancor oggi vengono adoperati per impedirlo”. Questa situazione potrebbe venir alterata accidentalmente, “ma a meno che il riconoscimento di quanto viene fatto e di quanto viene impedito sovverta la coscienza e il comportamento dell’uomo, nemmeno una catastrofe produrrà il mutamento”.

Ad essere cancellata come agente di mutamento storico non è la classe operaia soltanto, ma anche il suo avversario borghese. È come se in seno ad una società classista si stesse formando una società “senza classi”, giacché gli antagonisti d’un tempo sono ora uniti da un “interesse prepotente per la conservazione ed il miglioramento dello status quo istituzionale”. E questo perché, secondo Marcuse, lo sviluppo tecnologico — trascendendo il modo di produzione capitalistico — tende a creare un apparato produttivo totalitario che determina non solo le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. Tale sviluppo “dissolve l’opposizione tra esistenza privata e esistenza pubblica, tra i bisogni individuali e quelli sociali” e serve a “istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale più efficaci e più piacevoli”. Nella tecnologia totalitaria “la cultura, la politica, e l’economia si fondano in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative. La produttività e il potenziale dì sviluppo di questo sistema stabilizzano la società e limitano il progresso tecnico mantenendolo entro il quadro del dominio”.

Marcuse riconosce naturalmente che ci sono vaste aree in cui queste tendenze totalitarie di controllo e di coesione non esistono. Ma per lui tale fatto è semplicemente una questione di tempo, poiché queste tendenze si affermano “diffondendosi nelle aree meno sviluppate e persino nelle aree preindustriali del mondo, creando aspetti simili nello sviluppo del capitalismo e del comunismo”. Poiché la razionalità tecnologica tende a diventare razionalità politica, Marcuse pensa che la nozione tradizionale della “neutralità della tecnologia” vada abbandonata, giacché qualsiasi mutamento politico “si trasformerebbe in mutamento sociale qualitativo solo in quanto sapesse modificare la direzione del progresso tecnico: il che significa sviluppare una nuova tecnologia”.

È chiaro che Marcuse ci offre non una descrizione realistica delle condizioni esistenti, ma piuttosto un quadro delle tendenze rilevabili nell’ambito di queste condizioni. A parer suo, è l’incontrastato processo di realizzazione delle potenzialità insiste nell’attuale sistema che sembra condurre verso la società totalitaria completamente integrata. Per impedire questo sviluppo, dice Marcuse, bisognerebbe che le classi oppresse “si liberassero da se stesse non meno che dai loro padroni”. Non è possibile trascendere le condizioni stabilite se già non vi è trascendenza nell’ambito di queste condizioni: un’audacia negata all’uomo a una dimensione in una società a una dimensione”. E così Marcuse conclude che “la teoria critica della società non possiede concetti che possano colmare la lacuna tra il presente e il suo futuro, non avendo promesse da fare né successi da mostrare, essa rimane negativa”.

Rifiutando di accettare le condizioni apparentemente immutabili di una nuova “barbarie” che si considera con arroganza il culmine della civiltà, Marcuse trasforma il suo negativismo in un’efficace critica sociale, che rimane valida anche se le tendenze generali della società che ne derivano potranno non realizzarsi, o realizzarsi non nella maniera da lui prevista. Sebbene si possa non condividere il suo eccessivo “pessimismo” nei confronti del “futuro che si può prevedere”, questo pessimismo trova nondimeno una valida giustificazione nelle condizioni esistenti.

Di solito, oggi come in passato, la speranza di una rivoluzione operaia socialista viene abbandonata nella prospettiva che i problemi sociali possano essere risolti mediante riforme entro i confini del capitalismo. In questo quadro, la rivoluzione diventa non solo assai improbabile, ma completamente inutile. La nascita della società a una dimensione e dell’uomo a una dimensione non solo non viene deplorata, ma si arriva persino a celebrarla come una conquista comune del lavoro e del capitale a beneficio dell’intera società. Marcuse si differenzia da questo genere di “critici” della rivoluzione proletaria contestando i risultati “finali” dei tentativi riformisti. Per lui, il mondo versa in cattive condizioni, anzi in condizioni disperate, proprio perché non c’è stata, e a quanto pare non ci sarà, una rivoluzione proletaria, proprio perché il marxismo ha dimostrato di non saper far fronte all’elasticità del capitalismo e alla sua capacità non solo di assorbire le potenzialità rivoluzionarie della classe operaia ma addirittura di volgerle a proprio vantaggio.

Considerando l’attuale situazione delle nazioni capitaliste avanzate, la storia sembra convalidare il revisionismo “marxiano” più che il marxismo rivoluzionario. Quest’ultimo è stato il prodotto di un periodo di sviluppo in cui l’accumulazione del capitale rappresentava effettivamente un periodo di miseria crescente per la popolazione lavoratrice. Verso la fine del secolo scorso, tuttavia, apparve chiaro che nei suoi aspetti decisivi la prognosi marxiana deviava da quel che era lo sviluppo reale: cioè, il capitalismo non comportava il continuo impoverimento della classe operaia, e gli operai stessi, lungi dall’acquisire una più profonda coscienza di classe, si dimostravano sempre più soddisfatti del costante miglioramento delle loro condizioni entro il sistema capitalistico. La guerra del 1914 rivelò che la classe operaia aveva cessato di essere una forza rivoluzionaria.

Le sofferenze della guerra e il lungo periodo di depressione che ad essa fece seguito riaccesero in certa misura le tendenze oppositrici della classe operaia, e lo spettro della rivoluzione sociale incombette di nuovo sul mondo. Ma ancora una volta il capitalismo si mostrò capace di deviare le energie rivoluzionarie in pieno fermento e di utilizzarle per il perseguimento dei suoi fini. Dal punto di vista sia pratico che ideologico, la seconda guerra mondiale e le sue conseguenze portarono ad un’eclissi quasi totale del socialismo operaio. È inutile negare questa evidente realtà. È vero, però, che l’assenza di qualsiasi efficace opposizione al sistema capitalistico presuppone la capacità da parte del sistema di migliorare costantemente le condizioni di vita delle masse lavoratrici. Se dovesse risultare che tale capacità non è costante, l’attuale “coesione” del sistema capitalistico finirebbe di nuovo per saltare, com’è avvenuto nelle precedenti crisi di lunga durata.

2

Marcuse fonda il suo pessimismo su quel che gli sembra essere la nuova capacità acquisita dal capitalismo di risolvere i problemi economici con mezzi politici. Secondo lui, il capitalismo del “laissez-faire” con le sue crisi ricorrenti è stato felicemente “trasformato in un’economia del profitto regolata, controllata dallo Stato e dai grandi monopoli, cioè in un sistema di «capitalismo organizzato»” (2). Egli parte dal presupposto che questo sistema sia costantemente in grado di aumentare la produzione e la produttività, con l’aiuto in particolare dell’automazione, e che potrà continuare a mantenere alti livelli di vita per i suoi operai. Esiste, ritiene Marcuse, un’effettiva e potenziale “abbondanza” che, pur essendo accompagnata da “una concentrazione di potere culturale, militare e politico senza precedenti e da una grande ricchezza”, soddisfa i bisogni materiali dell’uomo tanto da estinguere in lui il desiderio di mutamento sociale e fargli auspicare un “mondo di identificazione”.

Quanto al capitalismo del “laissez-faire”, la predizione di Marx circa il suo declino e la sua definitiva cessazione è tuttora ovviamente convalidata dall’effettivo sviluppo del capitalismo. Anche Marcuse insiste a dire che “l’economia può funzionare soltanto grazie all’intervento diretto o indiretto dello Stato nei suoi settori più vitali”. Egli riconosce inoltre che esistono “conflitti tra il settore privato e quello pubblico” dell’economia, ma non crede che si tratti di “uno di quei conflitti esplosivi che potrebbero portare alla distruzione del capitalismo”.; in particolare, egli aggiunge, perché questi conflitti “non rappresentano una novità nella storia del capitalismo” (3).

Naturalmente, l’opposizione ai controlli statali così come sono configurati nell’ideologia del “laissez-faire” c’è sempre stata, ma l’attuale conflitto oggettivo tra lo Stato e il mondo degli affari è di natura diversa a causa dello sviluppo relativamente più rapido della produzione determinata dallo Stato nel corso dell’espansione generale del capitale. Il mutamento quantitativo segnala la presenza di un mutamento qualitativo certo non voluto, ma tuttavia inevitabile. Il capitale privato deve contrastare questo mutamento con la stessa determinazione con cui contrasta il socialismo, perché un ampio controllo statale dell’economia preannuncia la fine dell’impresa privata. L’opposizione oggettiva tra produzione a controllo pubblico e produzione del capitale privato è ancora nebulosa e appare sotto forma di collaborazione soggettiva tra mondo degli affari e pubblica amministrazione del quadro dell’economia nominalmente di mercato. Questa “collaborazione” è possibile solo perché subordina ancor; la politica governativa ai bisogni specifici del grande capitale. Ma i bisogni specifici del grande capitale sono in contrasto con bisogni generali della società e i conflitti sociali che di conseguenza scaturiscono si tra sformeranno in conflitti circa il ruolo dello Stato negli affari economici, e cioè diventeranno lotte politiche per il controllo dello Stato al fine di restringere o di estendere suoi interventi nell’economia. Questa lotta trascende le condizioni stabilite e le trascende nell’ambito di queste condizioni. Dovrebbe apparire chiaro che la dinamica della produzione del capitale non coincide con lo sviluppo tecnologico. La molla vitale del capitalismo non è la produzione o la produttività come tali, ma la produzione di profitti come accumulazione del capitale. Ad esempio, in una situazione di crisi non è un’incapacità materiale a produrre che provoca il declino della produzione, ma l’incapacità di produrre con profitto. L’eccesso di merci sul mercato indica la differenza tra produzione e produzione capitalistica. Non è dunque la capacità tecnica di produrre “abbondanza” che determina lo stato dell’economia capitalistica ma semplicemente la capacità — o l’incapacità — di produrre abbondanza di profitti.

Secondo Marx, l’accumulazione del capi- tale conduce necessariamente ad una diminuzione del profitto in rapporto alla massa crescente di capitale, e di conseguenza a crisi a depressioni abbastanza disastrose da provocare agitazioni sociali e, alla fine, il rovesciamento del sistema capitalistico. Ma la legge generale dell’accumulazione capitalistica elaborata da Marx, e derivata di fatto da considerazioni altamente astratte sulla struttura e la dinamica del capitalismo, non era accompagnata da un calendario preciso. Le contraddizioni della produzione del capitale sarebbero giunte ad un punto decisivo presto o tardi — anche molto tardi. Le difficoltà nella produzione del capitale sono affrontate, naturalmente, in maniera concreta e con tutti i mezzi disponibili capaci di ripristinare il profitto richiesto, e, in caso di successo, di garantire la continuità del capitalismo. Ma semplice incremento della produzione non è un indizio di espansione capitalistica; esso è tale solo quando porta alla formazione di capitale, e a ritmo accelerato. Sebbene in tempo di guerra si abbia un enorme aumento della produzione, tale aumento è accompagnato da un saggio di formazione del capitale eccessivamente basso. Il pluslavoro, invece essere capitalizzato in addizionali mezzi produzione, fonte di profitto, viene utilizzato nella produzione di spreco e per la distruzione del capitale già accumulato. Parimenti, in tempo di “pace” la produzione può essere aumentata, nonostante il ristagno o il declino del saggio di formazione del capitale, mediante una produzione compensativa, stimolata dall’autorità pubblica. Ma dire questo significa semplicemente riconoscere che il capitalismo si troverebbe in una situazione di depressione se non fosse per l’espansione del settore pubblico dell’economia.

Se il fine dell’intervento statale è la stabilizzazione dell’economia di mercato, la produzione stimolata dallo Stato deve essere non competitiva. Se lo Stato acquistasse beni di consumo e beni durevoli per distribuirli, esso ridurrebbe, in proporzione ai suoi acquisti, la domanda di mercato per tali merci a danno della produzione privata. Se poi dovesse produrre entrambi questi tipi di merci in imprese di proprietà pubblica e quindi offrirle in vendita, aumenterebbe le difficoltà dei suoi concorrenti privati riducendo la loro quota in una domanda di mercato già limitata. Gli acquisti pubblici, e la produzione che_ comportano, non devono interferire nel sistema di mercato, ma essere supplementari alla produzione di mercato. Lo Stato è quindi interessato soprattutto a beni e a servizi che non hanno collocazione nell’economia di mercato, cioè ai lavori pubblici e a spese di tutti i generi.

La divisione tra produzione privata e produzione pubblica non è, naturalmente, assoluta. Le esigenze politiche inducono i governi a entrare nella sfera della produzione di mercato sovvenzionando, ad esempio, la produzione di certe merci, e acquistando i prodotti eccedenti per utilizzarli nei propri piani I di aiuto interni ed esterni. Capita talvolta che in varie branche della produzione, oltre che nella sfera della compravendita e del finanziamento, le attività economiche pubbliche e private si sovrappongano. In generale, però, si può parlare di divisione dell’economia in settore privato, mosso dal profitto, e in settore pubblico, più ristretto ed estraneo all’incentivo del profitto. Il settore privato deve realizzare i suoi profitti mediante operazioni di mercato; quello pubblico opera indipendentemente dal mercato, anche se la sua esistenza e le sue attività influiscono sui rapporti di mercato del settore privato.

Lo Stato incrementa la “domanda effettiva” attraverso acquisti dall’industria privata, pagandoli o con il denaro delle imposte oppure con i prestiti ottenuti sul mercato del capitale. Fin tanto che lo Stato finanzia le sue spese con il denaro delle imposte, esso non fa che trasferire nel settore pubblico il denaro fatto nel settore privato: il che può mutare in certa misura la natura della produzione, ma non necessariamente allargarla. Se lo Stato prende a prestito il denaro sul mercato del capitale, in tal caso può incrementare la produzione con i suoi acquisti. Il capitale esiste sia in forma “liquida”, cioè in denaro, sia in forma fissa, cioè come mezzi e materiali di produzione. Il denaro preso a prestito dallo Stato mette in attività le risorse produttive. Queste risorse sono proprietà privata che, per funzionare come capitale, devono riprodursi e allargarsi. Le spese di ammortamento e i profitti ottenuti nel corso della produzione commissionata dallo Stato, non essendo realizzabili sul mercato, sono “realizzati” con il denaro che lo Stato ha preso in prestito. Ma anche questo denaro è proprietà privata: è prestato allo Stato a un determinato saggio di interesse. La produzione dunque è aumentata e i suoi costi si accumulano come debito pubblico.

Per pagare i suoi debiti e i relativi interessi lo Stato usa il denaro delle imposte o chiede nuovi prestiti. I costi dell’ulteriore produzione su contratti pubblici sono così sostenuti dal capitale privato, sebbene vengano distribuiti sull’intero corpo sociale e ammortizzati lungo un notevole periodo di tempo. In altre parole, i prodotti che lo Stato “acquista” non vengono veramente acquistati, ma dati allo Stato gratuitamente, perché lo Stato non ha nulla da dare in cambio se non la validità del suo credito, il quale, a sua volta, non ha altra base che il potere di tassazione dello Stato e la sua facoltà di aumentare l’emissione di moneta di credito. Non entreremo qui nei meandri di questo complicato processo perché, per quanto un’espansione del credito sia provocata e regolata nel corso di un’espansione della produzione stimolata dall’autorità pubblica, una cosa è chiara e cioè che il debito pubblico, con i relativi interessi, non può essere onorato se non con una riduzione del reddito presente e futuro: reddito che viene generato nel settore privato dell’economia.

Se non è causato da una guerra, l’intervento dello Stato nell’economia trova la sua giustificazione nel cattivo funzionamento della produzione del capitale privato. Essa non rende abbastanza da assicurarsi quell’autoespansione che è condizione indispensabile per l’uso completo delle sue risorse produttive. Il profitto non può essere aumentato da una produzione che non offra profitto; e fin tanto che il capitale produce indipendentemente dal profitto, esso non funziona come capitale. Sebbene le sue inutilizzate capacità produttive siano messe in funzione da commesse statali, i “profitti” realizzati in questa maniera e il “capitale accumulato” in questo processo sono semplici dati contabili che si riferiscono al debito pubblico, e non nuovi, effettivi mezzi di produzione, fonte di profitto, anche quando l’apparato produttivo materiale s’ingrandisce con l’aumento della produzione.

Un aumento della produzione stimolata dallo Stato, relativamente più rapido di quello della produzione sociale complessiva, implica il relativo declino nella formazione del capitale privato. Poiché la produzione stimolata dallo Stato è di per sé indice di abbassamento del saggio di formazione del capitale nel senso tradizionale, è assurdo credere che essa possa servire come mezzo di espansione del capitale privato in misura sufficiente a garantire condizioni di pieno impiego e di benessere generale. Anzi tale tipo di produzione si trasforma piuttosto in un ostacolo, giacché le richieste dello Stato all’economia, e i crediti vecchi e nuovi da esigere dalla pubblica amministrazione, impediscono la capitalizzazione, a vantaggio privato, di gran parte del nuovo profitto realizzato.

Naturalmente, lo Stato può disconoscere i crediti che le imprese private vantano nei suoi confronti e che formano il debito pubblico, e i “profitti”, realizzati con la produzione su contratti governativi, si rivelano così per quel che sono, cioè profitti immaginari. Ma anche se ciò potrà un giorno essere inevitabile, i governi, che rappresentano il capitale privato, cercheranno di ritardare questo giorno il più possibile, soprattutto perché il solo ripudio dei debiti non garantisce la ripresa di un’accumulazione proficua del capitale privato. Intanto, naturalmente, si assiste ad un lento ma costante deprezzamento di redditi e di debiti attraverso l’inflazione: un processo necessario legato all’espansione della produzione stimolata dallo Stato attraverso finanziamenti basati sul deficit del bilancio statale.

Nonostante la lunga durata di condizioni di relativo “benessere” nei paesi industrialmente avanzati, nulla induce a credere che la produzione del capitale abbia superato le sue contraddizioni interne mediante gli interventi dello Stato nell’economia. Gli interventi stessi denunciano la persistenza della crisi nella produzione del capitale, e lo sviluppo della produzione su contratti pubblici è il sintomo sicuro della costante decadenza dell’economia che si fonda sull’iniziativa privata. Arrestare questa decadenza significherebbe arrestare la notevole espansione della produzione stimolata dall’autorità pubblica e ripristinare la capacità di autoespansione della produzione del capitale. Insomma, ciò implicherebbe il rovesciamento della tendenza generale di sviluppo mostrata dal capitalismo del XX secolo. E poiché il caso è assai improbabile, lo Stato sarà costretto a estendere le sue incursioni economiche nei settori privati dell’economia e a diventare così esso stesso veicolo di distruzione dell’economia di mercato. Ma dove lo Stato rappresenta il capitale privato, questo passo lo farà solo con grande esitazione e affrontando una crescente opposizione da parte del capitale privato. Questa esitazione potrebbe essere sufficiente a mutare le condizioni di apparente “benessere” in condizioni di crisi economica.

Il capitalismo non si trasformerà in socialismo. Ma non potrà rimanere all’infinito un’“economia mista”, nella quale il governo risolve i problemi della produzione del capitale con mezzi politici. L’intervento dello Stato nell’economia capitalistica è esso stesso costretto entro i limiti della produzione del capitale. L’organizzazione della produzione sociale presuppone l’espropriazione del capitale privato. Sarà tuttavia difficile fare una rivoluzione capitalistica di Stato così com’è difficile fare una rivoluzione socialista. Ma senza la nazionalizzazione delle risorse produttive, tutti gli interventi statali. nell’economia di mercato — anche se potranno aumentare il volume della produzione in rapporto agli interventi stessi — aumenteranno le difficoltà nella formazione competitiva del capitale nel futuro che si può prevedere.

Secondo Marx, determinati rapporti sociali, o rapporti di produzione, corrispondono a determinate forze produttive sociali, le quali sono messe in movimento da tali rapporti e legate alla loro esistenza. Il rapporto capitale-lavoro determina il processo di sviluppo tecnologico oltre che l’accumulazione del capitale. Solo entro il quadro della formazione del capitale la scienza e la tecnologia estendono le capacità di produzione sociale incrementando la produttività del lavoro. Nei rapporti sociali creati dalla produzione del capitale, le potenzialità date dalla produzione socializzata non possono venire completamente realizzate, perché la loro realizzazione distruggerebbe i rapporti esistenti in regime di produzione capitalistica. Ad un certo punto del suo sviluppo, il capitalismo diventa un ostacolo a un ulteriore sviluppo delle forze sociali di produzione, e si trasforma da sistema sociale progressivo in sistema sociale regressivo.

Marcuse stesso sottolinea che nella teoria marxiana “il modo sociale di produzione, non la tecnica, è il fattore storico di base” (4). Tuttavia, egli afferma, “il progresso tecnico, la tecnologia stessa sono diventati un nuovo sistema di sfruttamento e di dominio”, un sistema che non viene più contestato da nessuna classe sociale, ma che anzi tutte accettano di buon grado o in maniera passiva (5). Sebbene la tecnologia non sia “il principale fattore responsabile della situazione”, la tecnica e lo sviluppo tecnologico, spiega Marcuse, “sono organizzati in modo tale che il sistema esistente nei paesi capitalisti altamente industrializzati è, in larga misura, tenuto insieme da essi”. In altri termini, l’odierna tecnologia offre una via di scampo al capitalismo e quindi rimane il più grande ostacolo alla sua abolizione.

Anche per Marx la scienza e la tecnologia sono fattori specifici del capitalismo ma _solo nel senso che la loro direzione e il loro sviluppo trovano determinazione e limiti nei rapporti capitalistici di produzione. Se questi rapporti venissero aboliti, la scienza e la tecnologia assumerebbero un corso libero e ben diverso, in conformità alle decisioni coscienti e razionali dell’uomo, diventato un essere sociale nel senso completo del termine. Per Marx né la scienza né la tecnologia costituiscono un sistema di dominio, ma è il dominio del capitale sul lavoro — accompagnato da tutto il resto — a trasformare la scienza e la tecnologia in strumenti di sfruttamento e di dominio di classe. Secondo Marcuse, invece, non è tanto il capitalismo che oggi determina lo stato e la natura della tecnologia quanto la tecnologia che determina lo stato e la natura del capitalismo.

Marcuse osserva che “Marx non previde la società tecnologicamente avanzata”. Né previde “tutto quel che il capitalismo poteva ottenere… semplicemente sfruttando le sue conquiste tecniche”. Eppure, anche secondo Marcuse, tutto quel che il capitalismo può ottenere in questo modo è di sopravvivere costringendo il progresso tecnologico entro i limiti del dominio di classe. L’affermazione che “Marx non previde la società tecnologicamente avanzata” è difficile da sostenere se si considera la prospettiva da lui tracciata circa la tendenza dello sviluppo sociale all’“abolizione del lavoro” mediante lo sviluppo delle forze sociali di produzione, che comprendono la scienza e la tecnologia. Vero è, però, che Marx non credeva che molto in tale direzione potesse essere fatto entro i limiti del capitalismo: il che era un ulteriore motivo per reclamarne l’abolizione. L’utopistica “abolizione del lavoro” implica l’abolizione del capitalismo o di qualsiasi ulteriore forma di sfruttamento di classe. Questo fine praticamente irraggiungibile serve soltanto a indicare la direzione generale che lo sviluppo sociale deve prendere allo scopo di diminuire il tempo di lavoro socialmente necessario (Arbeitzeit) a vantaggio del tempo libero. Il socialismo era quindi concepito come la fine dello sfruttamento e la liberazione delle forze sociali di produzione dalle catene impostegli dal capitalismo in modo da assicurare il massimo di tempo libero. Il socialismo stesso presupponeva la rivoluzione socialista. Marcuse ritiene tuttavia opportuno mettere in discussione la validità, per il nostro tempo, del concetto marxiano che “il regno del lavoro rimane il regno della necessità, mentre il regno della libertà può svilupparsi soltanto al di là e al di sopra del regno della necessità”, perché, a parer suo, “la fine del lavoro necessario è all’orizzonte; non una utopia, ma una possibilità reale”. Marcuse, certo, è prudente ed esprime i suoi pronostici sotto forma di domande. Chiede ad esempio: “Che cosa avviene quando, in una società tecnologica di massa, il tempo di 1avoro — cioè il tempo socialmente necessario — viene ridotto al minimo e il tempo libero diventa praticamente tempo pieno?”.

Sebbene Marcuse si limiti a porre la do manda, la domanda stessa sembra implicare che un tale stato di cose possa accadere. Ma, collocati nel contesto del capitalismo, questi sono falsi problemi. La rivoluzione tecnica necessaria per eliminare il tempo di lavoro a vantaggio del tempo libero non è compatibile con il capitalismo.

Marcuse stesso afferma che l’automazione, che trasformerebbe il tempo di lavoro in tempo marginale e il tempo libero in tempo pieno… “non può essere applicata nell’attuale sistema”, in quanto ciò significherebbe semplicemente “la catastrofe finale del sistema capitalistico”. Così dicendo, Marcuse confuta, almeno entro certi limiti, un’altra posizione da lui simultaneamente sostenuta, e cioè che la moderna tecnologia “trascende” il modo di produzione capitalistico. Ma quel che è nuovo nella tecnologia è proprio quest’automazione la quale, se impossibile ad applicarsi nel capitalismo, significa che anche questo modo di produzione “trascende” la tecnologia, cioè determina il grado del suo sviluppo. Certo, c’è una bella differenza tra automazione totale ed automazione parziale, ma il fatto che essa possa essere solo parziale e non totale dipende di nuovo dal modo di produzione. Quando l’automazione è vista come alternativa al capitalismo e tuttavia appare nel capitalismo, questo dovrebbe indicare, in una certa misura, l’inizio della fine del capitalismo e non la sua “stabilizzazione” e “integrazione”. Marcuse suppone, tuttavia, che il capitalismo sia capace di usare la nuova tecnologia, compresa l’automazione parziale, per garantirsi la propria esistenza semplicemente elevando i livelli di vita e mediante un enorme incremento della produzione di spreco. Presto o tardi, però, il sistema verrebbe di nuovo costretto ad arrestare un ulteriore sviluppo tecnico in direzione dell’ automazione, perché il numero dei disoccupati arriverebbe a superare quello degli occupati. Alla fine, una piccola minoranza dovrebbe provvedere per la grande maggioranza, rovesciando così le abituali condizioni della società di classe. Ma dove e quando fermare questo processo — dal momento che ognuna delle sue fasi ascendenti porta sempre più vicino alla dissoluzione del sistema capitalistico?

Il capitale, non dimentichiamolo, è pluslavoro congelato nella forma di plusvalore e si alimenta ed estende con il lavoro vivo. Fin tanto che lo sviluppo tecnologico è una funzione della formazione del capitale in termini di valore, il capitale accumulato è la materializzazione del tempo di lavoro non pagato. La riduzione del tempo di lavoro comporta anche la riduzione della formazione di capitale. Indubbiamente, il tempo di lavoro non pagato può essere aumentato a scapito del tempo di lavoro pagato, anche quando il tempo di lavoro complessivo viene diminuito, attraverso l’aumento della produttività del lavoro nel corso dell’espansione del capitale. Poiché un minor tempo di lavoro è necessario per produrre l’equivalente-merce del reddito degli operai, una quota maggiore del tempo di lavoro complessivo può assumere la forma di prodotti di cui i capitalisti si appropriano. Ma la continua riduzione del tempo di lavoro deve alla fine ridurre anche il tempo di lavoro non pagato e arrestare così il processo di espansione del capitale attraverso la crescente produttività del lavoro. Dove non c’è lavoro, non può esserci pluslavoro e, di conseguenza, accumulazione di capitale.

Qualunque sia il grado di diffusione raggiunto dall’automazione e dai calcolatori elettronici, i mezzi di produzione non possono mettersi in funzione né riprodursi da soli. Accogliendo il presupposto, del tutto improbabile, che i loro proprietari, cioè i capitalisti, si impegnassero direttamente nella produzione, la conseguenza sarebbe che essi cesserebbero di essere capitalisti, cioè compratori di forza-lavoro a scopo di sfruttamento. Supponendo, ciò che è più probabile, che i capitalisti riuscissero a ridurre costantemente il numero degli operai produttivi, essi ridurrebbero insieme anche il tempo di lavoro non pagato in rapporto alla massa del capitale accumulato. I rapporti capitale-lavoro sono rapporti di valore, il che significa che i mezzi di produzione non sono soltanto mezzi di produzione, ma anche valori capitali e che la forza-lavoro non è solo forza-lavoro ma anche fonte di valore e di plusvalore. Per completare il processo di produzione capitalistico, il plusvalore deve avere un rapporto ben definito con il valore del capitale, cioè deve essere sufficiente a garantire la sua riproduzione allargata. Poiché i rapporti di valore sono rapporti di tempo-lavoro, dovrebbe essere chiaro, almeno per un marxista, che una riduzione del tempo di lavoro che sconvolgesse il necessario rapporto tra plusvalore e capitale non sarebbe compatibile con il capitalismo e, per tale motivo, interromperebbe o porrebbe fine al processo di produzione capitalistico.

In termini astratti di valore, un aumento del capitale investito nei pezzi di produzione più rapido di quello del capitale investito nella forza-lavoro diminuisce il saggio del profitto, che è valutato in base al capitale complessivo. Il profitto può essere mantenuto soltanto attraverso una crescente produttività, attraverso le innovazioni tecniche che permettono una riduzione di forza-lavoro e un risparmio di capitale. Il costante aumento della produzione e della produttività attraverso l’espediente del risparmio di lavoro ha il duplice effetto di aumentare il profitto del capitale e di riprodurre il bisogno di ulteriori, ampi aumenti della produttività su una base sempre decrescente di produzione del capitale. Anche se gli espedienti di risparmio di capitale dovessero arrestare il crescente divario tra capitale investito in mezzi di produzione e capitale investito in forza-lavoro e in tal modo frenare la caduta del saggio del profitto del capitale complessivo, ciò sarebbe soltanto un palliativo temporaneo. La costante- riduzione della forza-lavoro terminerà fatalmente nella distruzione del profitto. Ma il capitalismo non può far a meno di questa continua riduzione, perché essa è, a quanto pare, l’unica “via di uscita che gli rimane per far fronte alla crescente produzione senza profitto in un’economia che si basa sul profitto. Ma se la riduzione della forza-lavoro è l’unica via d’uscita per il capitalismo, questa stessa via conduce solo a un “cul-de-sac”. Quel che Marcuse considera la soluzione capitalistica delle difficoltà del capitalismo, e cioè la sua nuova tecnologia, rappresenta invece l’insolubile contraddizione presente e futura della produzione del capitale nell’ambito dei rapporti di proprietà dell’economia di mercato.

Non entreremo nei dettagli tecnici del perché l’effetto della diminuzione del profitto provocata dalla riduzione del numero dei lavoratori non può essere in eterno neutralizzato, o ampiamente compensato dalla loro crescente produttività e del perché, per tale, motivo, la tendenza alla diminuzione del saggio del profitto deve trasformarsi ad un certo stadio della espansione del capitale nella sua effettiva caduta. Infatti, considerando la presente minaccia dell’automazione, oggi quasi tutti si rendono conto che il crescente divario tra lavoro e capitale arriverà necessariamente al punto da escludere un’ulteriore, progressiva espansione del capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro.

Questa convinzione sempre più diffusa implica un’inconscia adesione alla teoria marxiana dell’accumulazione, se non altro perché si presenta rivestita di termini non-marxiani. Invece di dedurre il crollo finale del capitalismo dalla “produttività del lavoro”, che è solo un’altra espressione per accumulazione del capitale, i “marxisti” alla rovescia lo deducono dalla “produttività del capitale” e dalla sua tendenza alla riduzione della forza-lavoro. In entrambi i casi, il sistema di produzione del capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro finisce per cessare. Dal momento che la crescente produttività del lavoro implica la crescente produttività del capitale, la fine del capitalismo attraverso l’automazione non si differenzia dalla fine del capitalismo per mancanza di plusvalore.

Mentre gli eventi futuri devono ancora dimostrare se il pessimismo di Marcuse nei confronti della possibilità di una rivoluzione operaia sia più o meno giustificato, il suo “ottimismo” circa la capacità del capitalismo di salvarsi attraverso mezzi tecnologici e politici_ _sarà molto probabilmente smentito dagli avvenimenti concreti. Al momento, naturalmente, all’affermazione di Marcuse si può rispondere solo con una contro-affermazione. In considerazione di quanto è accaduto da fine della seconda guerra mondiale ad oggi, sembrerebbe che il capitalismo abbia trovato un modo di sfuggire ai pericoli della sua struttura di classe e sia stato capace di trasformarsi in una società libera da ogni efficace opposizione.

Ogni situazione particolare del capitalismo è transitoria. Ma è solo considerando leggi generali dello sviluppo capitalistico che ognuna delle sue situazioni storiche date rivela la sua natura transeunte. Il futuro del capitalismo poggia sulla sua costante capacità di trarre sufficienti profitti dalla produzione sociale, così da garantire la sua riproduzione allargata. Una persistente diminuzione del saggio di espansione del capitale indica, sempre più, che il capitalismo va perdendo questa sua capacità, e questo nonostante un aumento generale della produzione attraverso gli interventi statali. Tuttavia, fin quando l’aumento può ancora essere conciliato con il diminuire della formazione di capitale privato attraverso la crescente produttività del lavoro, l’“economia mista” può dimostrarsi non una temporanea possibilità ma un’effettiva trasformazione, capace di risolvere le contraddizioni della produzione del capitale.

La questione è dunque: può il capitalismo evolversi in qualcosa di diverso da quello che è? Possono le leggi generali dello sviluppo capitalistico essere annullate dai mezzi tecnologici e politici che provvedono sia alle esigenze di profitto del capitale sia al benessere generale mediante il semplice espediente della produzione di spreco? È vero che questo è esattamente quel che è accaduto. Eppure vedere questo processo come una pratica sociale permanente e sempre più diffusa significa supporre che il capitalismo può trasformarsi in un sistema diverso in cui — per dirla in termini marxiani — non è più il valore di scambio che domina ma il valore d’uso. Tale mutamento implicherebbe un mutamento nei rapporti di proprietà basati, allo stato attuale delle cose, sulla produzione e distribuzione del valore di scambio. In altre parole, richiederebbe una rivoluzione sociale. Ma Marcuse non è di quest’opinione. La società industrialmente avanzata, dice, “è una società statica, malgrado tutto il suo dinamismo. La sua incessante espansione, la sua produttività in continuo aumento, il suo crescente sviluppo non producono altro se non sempre di più le stesse cose, senza alcun mutamento qualitativo o alcuna speranza di mutamento qualitativo”. Ma Marcuse parla anche di “metamorfosi” capitalistica in risposta al fenomeno della guerra fredda, che prima di ogni altro fornisce al capitalismo l’impulso a “organizzarsi” e ad ampliare la sua produzione. Ciononostante, secondo Marcuse, questa “metamorfosi” implica un mutamento non qualitativo, ma solo quantitativo attraverso la “sempre crescente marea di beni, e il sempre più alto livello di vita, che sembrano acquistare una sempre maggiore attrattiva” e che danno .alle masse “tutte le ragioni per integrarsi in una simile società”.

Tuttavia, secondo Marcuse, anche “il capitalismo più altamente organizzato serba il bisogno sociale di procedere all’appropriazione e alla distribuzione private del profitto come regolatore dell’economia” (6). Se è così, anche “il capitalismo organizzato” conserva dunque intatti i rapporti di valore capitalistici e diventa quindi necessario per Marcuse dimostrare che questi rapporti sono in armonia con la continua espansione della produzione, raggiunta con mezzi tecnologici e politici. A tal proposito Marcuse si rifà a Marx e afferma che “la macchina non crea mai valore: essa trasferisce semplicemente il proprio valore nel prodotto, mentre il plusvalore risulta dallo sfruttamento del lavoro vivo”. Considerando l’automazione, Marcuse nota tuttavia che essa “sembra alterare qualitativamente la relazione tra lavoro morto e lavoro vivo; essa procede verso il punto in cui la produttività è determinata dalle macchine e non dal rendimento individuale”. Questo lo aveva notato anche Marx, il quale aveva messo in rilievo che la ricchezza sociale è non solo un rapporto di valore ma è incorporata, in misura crescente, in un apparato produttivo che trasforma la produttività del lavoro in produttività del capitale. “Sebbene lo sviluppo stesso dei mezzi di produzione moderni — scriveva Marx — indichi in qual notevole grado il sapere generale della società è diventato una forza produttiva immediata che condiziona la vita sociale e determina la sua trasformazione”, il contributo particolare del capitalismo a questo stato di cose non consiste in null’altro che nel “suo uso di tutti i mezzi delle arti e delle scienze per aumentare il pluslavoro, perché la sua ricchezza, sotto forma di-valore, non è altro che appropriazione del tempo di pluslavoro”.

La diminuzione del lavoro come fonte e misura di valore avviene già nelle attuali condizioni capitalistiche. A seconda dello stato della struttura del capitale, essa può avere un effetto positivo o negativo sul processo di accumulazione. Ora, quando Marcuse dice che “anche il capitalismo più altamente organizzato serba il bisogno di procedere all’appropriazione e alla distribuzione del profitto come regolatore dell’economia”, egli non fa che dire che i rapporti di valore nel processo di produzione del capitale sono in esso conservati e regolano l’economia. In altre parole, l’economia è “regolata” dalla sua capacità o incapacità di produrre plusvalore e non dalla sua capacità o incapacità di produrre semplicemente. L’appropriazione e la distribuzione private del profitto presuppongono dei rapporti di mercato, e questi rapporti di mercato presuppongono dei rapporti di valore. In queste condizioni, il profitto rimane plusvalore, o pluslavoro, anche quando i rapporti tra lavoro “morto” e lavoro “vivo” sono stati invertiti.

Marcuse pensa che il capitalismo risponda alla sfida del comunismo mediante uno “sviluppo spettacoloso di tutte le forze produttive, una volta posti sotto controllo gli interessi privati per il profitto che arrestano tale sviluppo”. Inoltre, secondo Marcuse, non è solo la sfida del comunismo che provoca tale mutamento, ma anche “il processo tecnologico e la produzione di massa, che distruggono le forme individualistiche in cui il progresso operava in epoca liberistica” (7). A parte il fatto che queste “forme individualistiche” sono state per la prima volta radicalmente distrutte in nazioni tecnologicamente arretrate senza produzione di massa, se fosse proprio vero che queste “forme individualistiche” sono distrutte, non potrebbe essere nello stesso tempo vero che “l’appropriazione e la distribuzione private del profitto” vengono considerate il “regolatore dell’economia”. E, se tale affermazione fosse vera, non potrebbe esser vero che “gli interessi privati per il profitto” sono stati “subordinati” al bisogno sociale di un ulteriore “spettacoloso sviluppo delle forze produttive”.

Le due cose non possono essere contemporaneamente vere; o si lascia che l’economia si “autoregoli” attraverso i rapporti valore-prezzo in un mercato competitivo di produttori orientati in maniera individualistica, cioè capitalistica; oppure l’economia è coscientemente regolata, con maggiore o minor successo, da decisioni dell’autorità pubblica che considera l’economia nazionale come un tutto sulla base dei suoi ordinamenti istituzionali particolari. Una combinazione di regolazione di mercato e regolazione pianificata dell’economia può esserci solo se le due componenti coesistono una accanto all’altra; tale combinazione “non mescola” realmente l’economia, ma tende, nel corso dello sviluppo, a eliminare l’una parte o l’altra, a meno che una di queste parti non possa essere tenuta costantemente in posizione subordinata. Ma ciò significherebbe limitare l’efficacia di questo tipo di soluzione. Poiché l’espansione della produzione stimolata dallo Stato non può intensificarsi ma solo tenersi ai margini della formazione del capitale privato, in quanto le sue spese devono essere in ultima analisi sostenute dal settore privato dell’economia, la sopravvivenza della produzione del capitale privato pone limiti ben definiti allo sviluppo generale della produzione d’iniziativa pubblica. Di conseguenza, la continua espansione della produzione deve essere realizzata dalla produzione privata. Ma questa produzione privata è soggetta ai rapporti di valore come si manifestano sul mercato, e trova i propri limiti nella sua stessa espansione. Esistono dunque, nell’ambito dei rapporti capitalistici di produzione, dei limiti posti sia dalla produzione privata sia da quella pubblica; i limiti di quest’ultima sono i limiti della produzione stessa del capitale.

5

Il capitalismo ha da tempo cessato di essere un sistema di produzione socialmente progressivo ed è diventato — nonostante tutte le apparenze in contrario — una forma di produzione sociale regressiva e distruttiva. Ha portato alla divisione del mondo in un piccolo gruppo di nazioni altamente industrializzate e una grande maggioranza di nazioni incapaci di sollevarsi da uno stato di crescente miseria. Eppure i destini di tutte le nazioni sono strettamente collegati fra loro; è la situazione nel suo complesso, la situazione mondiale, che alla fine determina il futuro di ciascuna e di tutte le nazioni. Le prospettive dei vari paesi, anche di quelli più avanzati, vanno considerate alla luce delle condizioni esistenti e da questo punto di vista bisogna riconoscere che non sono molto brillanti. Le condizioni di benessere costituiscono piccole oasi in un immenso deserto di miseria umana.

Non più capaci di trarre dalle loro masse lavoratrici le quantità di pluslavoro che garantirebbero un’accumulazione proficua del capitale, le potenze capitaliste dominanti si sono rese conto che anche le fonti di pluslavoro esistenti nelle zone sottosviluppate del mondo vanno prosciugandosi. L’eccessiva accumulazione nelle nazioni di grande sviluppo economico è, in gran parte, responsabile della mancanza di accumulazione nei paesi sottosviluppati. Se le potenze capitaliste continueranno a sfruttare le aree depresse, distruggeranno a poco a poco ogni possibilità di un loro sfruttamento. Ma non sfruttarle significa ridurre ulteriormente il già insufficiente profitto del capitale nelle nazioni avanzate. Invece di rallentare il loro sfruttamento, esse cercheranno dunque di intensificarlo, se non più in collaborazione con le classi dominanti tradizionali dei paesi arretrati, attraverso il neo-colonialismo, cioè in collaborazione con le nuove classi dominanti che sono rapidamente scaturite dai movimenti anti-coloniali.

Tuttavia, la continua dominazione economica esercitata dal capitale occidentale sulle nazioni meno sviluppate non offre alcuna soluzione agli effettivi bisogni delle grandi masse popolari di quei paesi, né risolverà per il capitalismo occidentale i problemi di fondo della produzione del capitale. Tutto quel che fa è alimentare un po’ più a lungo le capacità vitali dell’economia capitalistica mondiale in via di disintegrazione, ricorrendo anche alla brutale repressione di ogni forma di rivolta, provocata dalla crescente miseria sociale che nessuno si preoccupa di alleviare. Non è azzardato prevedere che, almeno nelle zone sottosviluppate del mondo, la miseria generale condurrà a sempre nuove ribellioni contro la dominazione straniera e insieme contro i suoi collaboratori locali.

È vero naturalmente quel che Marcuse dice, e cioè che le rivolte nelle nazioni sottosviluppate non sono movimenti proletari in senso marxiano. Anche se questi movimenti rivoluzionari-nazionali dovessero trionfare, la loro vittoria condurrebbe semplicemente all’instaurazione di organizzazioni sociali simili a quelle che caratterizzano il mondo capitalistico all’Est o all’Ovest, dove le rivoluzioni socialiste in senso marxiano non sembrano più possibili. Secondo Marcuse, “la realtà delle classi lavoratrici nella società industriale avanzata fa del “proletariato” marxiano un concetto mitologico; [e] la realtà del socialismo odierno fa dell’idea marxiana un sogno” (8). Non esiste tuttavia alcun “socialismo odierno” che, con la sua azione, dimostri l’irrealtà del concetto marxiano di socialismo, cioè della società senza classi libera da rapporti economici di valore. Né la realtà delle classi lavoratrici nella società industriale avanzata nega la realtà del concetto marxiano di proletariato semplicemente perché il loro livello di vita è migliorato e la loro coscienza di classe svanita. Come in precedenza, la società è divisa in proprietari dei mezzi di produzione e in classe operaia nullatenente, ossia in capitalisti che controllano l’economia e in salariati senza alcun potere.

Solo in base all’assunto che è possibile mantenere lo “status quo” è lecito pensare che tutti i problemi sociali possono essere risolti nell’ambito delle istituzioni esistenti, che la storia è giunta a un punto fermo nelle condizioni stabilite, che il proletariato — vale a dire la grande maggioranza della popolazione nei paesi industrialmente avanzati -non ha alcun ruolo nella storia, in quanto tale ruolo non può essere necessariamente che un ruolo d’opposizione e deve trovare espressione in una coscienza rivoluzionaria rinnovata, o di nuova formazione. Naturalmente, Marcuse non nega un ulteriore sviluppo storico; solo il fattore automazione — egli rileva — “indica la possibilità di una rivoluzione nel capitalismo”. Tuttavia, per Marcuse, tale possibilità è assai remota e ciò lo induce ad aggiungere sempre ai suoi tetri pronostici la clausola “nel futuro che si può prevedere”. Ma cos’è “il futuro che si può prevedere” se non il riconoscimento di alcune tendenze di fondo che influenzano ed alterano le condizioni esistenti in un senso ben determinato? L’accento va messo dunque non sulla possibile, prolungata persistenza delle condizioni esistenti, ma sugli elementi in seno a tali condizioni che ne indicano la dissoluzione.

Marcuse sembra credere che le attuali condizioni di “opulenza” che la classe operaia dei paesi industrialmente avanzati ha raggiunto negli ultimi anni, siano destinate a durare. “S’è verificata — dice — una scissione in seno alla classe operaia stessa, che ha trasformato quasi tutti gli operai organizzati in un’aristrocrazia del lavoro, che ha dato vita ad un nuovo tipo di solidarietà di classe, una solidarietà tra gli operai organizzati che hanno un lavoro ed una certa sicurezza, in contrapposizione a quelli che non hanno lavoro e neppure alcuna possibilità di ottenerlo nel futuro che si può prevedere” (9). Ma qui non siamo di fronte ad un nuovo tipo di solidarietà, ma alla mancanza dì ogni solidarietà, perché, anche nell’ambito della classe operaia organizzata, che rappresenta una minoranza, non c’è solidarietà ma semplicemente, sebbene non sempre, un muto accordo di rispettare il monopolio del lavoro che ogni sindacato esercita nel proprio settore. I sindacati sono semplicemente diventati reazionari perché i rapporti di mercato su cui si basano non sono più rapporti sociali progressivi ma regressivi. Non si tratta di “integrazione sociale” in cui gli interessi del lavoro e del capitale coincidano, ma solo di un esempio della persistenza di istituzioni antiquate in una economia di mercato in decadimento.

Ma tale persistenza non garantirà per il futuro le attuali condizioni sociali. Poiché il capitale non può trarre nulla dai disoccupati, ma deve in qualche modo provvedere ad essi, può guadagnare soltanto, se guadagnare deve, sugli operai occupati. È molto difficile, se non impossibile, far franare certi livelli di vita, una volta che siano stati raggiunti, senza provocare gravi agitazioni sociali. L’alto livello di vita dei paesi industrialmente avanzati finirà necessariamente per trasformarsi in un ostacolo all’espansione del capitale. Perché, per mantenerlo intatto quando il profitto mostra una netta tendenza alla diminuzione, si rende necessaria l’estensione della produzione e questa, a sua volta, implica una necessità sempre maggiore di elevare la produttività del lavoro: il che, nelle attuali condizioni, significa il continuo aumento della disoccupazione. La disoccupazione stessa diventa una spesa sempre crescente che, unita alle altre spese per il mantenimento dell’“opulenza”, finirà presto o tardi per mettere a dura prova anche le più grandi “capaci economiche e tecniche”. La “opulenza” potrà: essere mantenuta solo cambiando la natura della società stessa, solo rinunciando al principio del profitto.

Con ciò non voglio dire che 1’“opulenza” alimenti la rivoluzione, ma solo che non c’è bisogno di un impoverimento assoluto per provocare sentimenti di opposizione. Non necessario che la gente sia ridotta alla fan perché incominci a ribellarsi; può farlo al prime pesanti incursioni contro il suo abituale livello di vita o quando le è vietato l’accesso a quello che ritiene il livello di vita cui ha diritto. Più la gente sta bene, più risente di qualsiasi privazione impostale e più tenacemente si attacca al tono di vita a cui abituata. In questo senso, un parziale calo della diffusa “opulenza” può bastare a distruggere il consenso esistente.

Marx ha detto in qualche luogo che “il proletariato è rivoluzionario oppure non niente”. Oggi il proletariato non è niente e può darsi che continuerà ad essere niente. Ma nessuno può averne la certezza. Marx diceva anche che “le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti”, il che non impedisce il sorgere di idee sovversive. Naturalmente, idee sovversive possono fiorire solo in condizioni di scontento. Nell’odierna società del benessere non c’è abbastanza insoddisfazione, anche se si tratta di un falso benessere. Di conseguenza, esiste un pensiero unidimensionale, una. società senza un’effettiva opposizione. Poiché niente di diverso ci si può aspettare in simili condizioni, non abbiamo voluto andare più a fondo nell’acuta analisi critica che Marcuse ha condotto nei confronti dell’ideologia dominante della società industriale avanzata. Siamo completamente d’accordo con le osservazioni da 1ui fatte in proposito, anzi gli siamo grati di averle fatte. Secondo Marx, c’era da aspettarsi, come osserva Marcuse, che la “società unidimensionale che si va affermando alteri le relazioni tra il razionale e l’irrazionale. In contrasto con gli aspetti capricciosi e folli della sua razionalità, il regno dell’irrazionale diventa sede di ciò che è realmente razionale” (10): il che è il risultato finale del feticismo del capitale e della produzione di merci. Va tuttavia riconosciuto — e lo stesso Marcuse ne offre una testimonianza — che razionalità non-feticista esiste ancora, ma che può, a tutti gli effetti pratici, essere ignorata.

L’opposizione esistente non può diventare una forza sociale perché non rappresenta ancora interessi materiali abbastanza forti dà opporsi agli interessi materiali rappresentati dall’ideologia dominante. Quando l’opposizione cessa di avere una forza materiale, diventa un lusso: la visione più profonda di uomini intelligenti che possono ben disprezzare sia la società sia le sue vittime che difendono con tanta ostinazione l’irrazionalità generale. Eppure la minoranza povera deve vivere nell’ambito di questa irrazionalità ed accettarla come una necessità, la quale viene allora trasformata in una apparente virtù per essere resa più accettabile. Anche quando l’opposizione trova forme politiche, essa trova false espressioni come, ad esempio, nella lotta dei negri d’America per i diritti civili, un obiettivo insignificante che, pur essendo tale, resta irraggiungibile. L’“outsider” non può uscire dalle condizioni esistenti, a meno che non voglia rischiare tutto, persino la sua vita, appiccando fuoco e saccheggiando.

Le sporadiche ribellioni di piccole minoranze, spinte dalla disperazione, possono venire facilmente dominate dall’autorità che rappresenta la maggioranza dei soddisfatti, tra i quali si annoverano anche le masse operaie. Fatto di bianchi o di neri, il “sostrato di reietti e di outsiders” può essere decimato a poco a poco dalle stesse condizioni di vita che gli vengono imposte. Ma con l’aumentare del loro numero — che in effetti sta aumentando — anche i loro atti di ribellione diventeranno più frequenti e così pure crescerà tra il gregge dei soddisfatti il numero di quelli che si rendono chiaramente conto di poter finire essi stessi, un giorno o l’altro, nel mucchio dei rifiuti del capitalismo. Se si prende come esempio il passato, si può vedere che l’aumento della miseria sociale conferisce forza a questa miseria, e la forza porta all’azione. Quando Marcuse dice a proposito di coloro che non sono occupabili che “le capacità economiche delle società stabilite sono abbastanza ampie da permettere aggiustamenti e concessioni a favore dei sottoproletari, e le loro forze armate sono abbastanza addestrate ed equipaggiate per far fronte alle situazioni di emergenza”, egli descrive con esattezza le condizioni esistenti nei paesi industrialmente, avanzati. Ma quello che è vero oggi non è detto che sarà vero domani e, in ogni modo, sarà meno vero se la tendenza dello sviluppo capitalistico continuerà ad essere quella che è stata in passato.

Naturalmente può darsi che gli avvenimenti del passato non siano ripetibili. L’epoca delle rivoluzioni può essere finita e la società unidimensionale, statica e totalitaria, inevitabile. Ma se non possiamo giudicare in base alle esperienze del passato, allora non possiamo giudicare affatto. In tal caso, qualunque cosa è possibile: anche una rivoluzione da parte della classe operaia. Questo presuppone però che il proletariato continui ad esistere, mentre invece pare che sia già in dissolvimento per quel che riguarda non solo la sua coscienza di classe sempre più fievole, ma persino la sua funzione sociale. Spesso si fa una distinzione tra la classe operaia “classica” e l’odierna popolazione lavoratrice, di cui solo una piccola parte ha occupazioni produttive. Ma questa distinzione è artificiosa, perché ciò che distingue il proletariato dalla borghesia non sono le occupazioni particolari dei proletari, bensì la loro mancanza di controllo sopra la stessa esistenza in seguito alla mancanza di controllo sopra i mezzi di produzione. Qualunque siano le loro occupazioni, i salariati sono proletari. Anche se un numero sempre maggiore di operai è occupato nelle industrie non-produttive, nelle cosiddette industrie dei servizi, la loro posizione sociale di fronte ai capitalisti rimane invariata. A causa della concentrazione di capitale e dell’eliminazione della classe media dei proprietari, oggi ci sono più “proletari” di quanto ce ne siano mai stati in passato.

La popolazione lavoratrice forse non si crede, o non ama credersi, una massa di “proletari” e, con questa riluttanza a riconoscere la propria posizione sociale, contribuisce forse alla unidimensionalità dell’ideologia dominante. Tuttavia, per non diventare inutili, tutte le ideologie devono in qualche modo riferirsi ad un determinato stato di fatto; se perdono ogni legame con la realtà, significa che sono sul punto di crollare. Mentre l’operaio occupato e ben pagato può non riconoscere la sua condizione di proletario, il disoccupato la riconoscerà senza indugio, e il povero, trattato come un reietto, non ha più alcuna scelta.

Il capitalismo è sostanzialmente una società a due classi, nonostante le varie differenziazioni di condizione che esistono entro ciascuna classe. La classe dominante è quella che prende le decisioni, l’altra è alla mercé di queste decisioni, che determinano le condizioni generali della società, anche se sono prese in conformità alle esigenze particolari del capitale. La classe dominante non può agire diversamente da come agisce; cioè, in maniera stupida o intelligente, farà di tutto per perpetuarsi come classe dominante. Qualunque cosa decidano coloro che hanno il potere di farlo devono metterla in atto nella sfera della produzione, giacché il sistema di distribuzione e i tipi di consumo dipendono dal tipo di produzione. Senza il controllo sul processo produttivo nessuna decisione può venire presa, nessuna classe può dominare. Il controllo della produzione viene esercitato attraverso il controllo dei mezzi di produzione, mediante l’ideologia e la forza. Ma né la proprietà, né l’ideologia, né la forza possono produrre qualcosa. L’intero edificio sociale poggia sul lavoro produttivo. I lavoratori; (produttivi hanno più potere latente di qualsiasi altro gruppo sociale. Negare questo fatto è il compito principale dell’ideologia borghese. Ciò viene pienamente alla luce nelle sue teorie economiche e nel generale deprezzamento del lavoro produttivo. Tuttavia, nonostante l’opinione diffusa che l’importanza dell’operaio dell’industria sia in costante diminuzione, mai come oggi gli si è dedicata tanta attenzione, perché, in realtà, il suo potenziale di controllo sulla società non è mai stato così grande.

La “socializzazione” tecnico-organizzativa della produzione, cioè l’interdipendenza del processo nazionale di produzione e l’assoluta dipendenza dell’intera popolazione da un ininterrotto flusso di produzione, conferisce alla classe operaia un potere quasi assoluto sulla vita e sulla morte della società. Gli operai potrebbero distruggere la società semplicemente cessando di lavorare. Se questa non può essere la loro intenzione in quanto membri della stessa società, essi potrebbero però scuotere la società fin dalle sue fondamenta se fossero fermamente decisi a mutarne la struttura. È per questa ragione che i sindacati sono stati adattati all’organizzazione capitalistica per controllare i conflitti di lavoro, è per questa ragione che i governi, compresi quelli laburisti, approvano leggi antisciopero, mentre quelli più coscienti della forza latente nell’azione operaia, cioè i regimi totalitari, mettono addirittura fuori legge lo sciopero. Poiché il proletariato industriale, se lo volesse, avrebbe il potere di mutare la società, esso e oggi, come lo era in passato, la classe da cui dipende la trasformazione reale della società.

Osservando il comportamento attuale della classe operaia, e consapevoli del fatto che l’intervento operaio è indispensabile per la realizzazione del socialismo, il socialismo ci appare ancora meno accessibile e niente più di un “sogno marxiano”. Tuttavia, basterà pensare a quel che molto probabilmente accadrebbe senza una rivoluzione socialista, per pensare anche alla possibilità di un tipo diverso di comportamento da parte delle classi lavoratrici. Quel che è destinato ad accadere sta già in qualche misura accadendo, e la proiezione del quantitativa del presente nel futuro che si può prevedere dimostra quanto sia utopistica l’idea di risolvere i problemi sociali con mezzi capitalistici. La frase “socialismo o barbarie” pone le uniche alternative reali.

Il conformismo ideologico dipende dalle condizioni di benessere; da solo non ha possibilità di esistere. Ma, a meno che qualunque ragionamento teorico sia completamente privo di valore, nella misura in cui esso permette di prevedere le cose, esso indica non solo una cessazione del benessere prodotto dal capitalismo, ma la fine del capitalismo stesso. Se la coscienza di classe dipende dalla miseria, non ci può essere dubbio che la miseria che attende la popolazione del mondo andrà oltre ogni esperienza finora fatta in materia, e finirà per travolgere le minoranze privilegiate delle nazioni capitalistiche avanzate, che ancora si credono immuni dalle conseguenze delle loro attività. Poiché non esistono “soluzioni economiche” alle contraddizioni del capitalismo, i suoi aspetti distruttivi vanno assumendo un carattere sempre più violento; all’interno, attraverso una produzione di spreco sempre più intensa; all’esterno, seminando distruzioni in quei territori dove. la popolazione rifiuta di sottomettersi alle esigenze di profitto del capitale straniero, che segnerebbe la loro definitiva rovina. Mentre la miseria generale aumenterà, anche le situazioni particolari di “opulenza” svaniranno, e i benefici della crescente produttività verranno dissipati in una feroce competizione per i profitti in declino della produzione mondiale.

Poiché la classe operaia è la classe che più di ogni altra risentirà di un rovesciamento delle fortune della produzione del capitale, o delle avventure belliche del capitalismo, molto probabilmente sarà la prima a insorgere contro l’ideologia unidimensionale del dominio capitalistico.


Paul Mattick, dal volume “The Critical Spirit”, a cura Kurt H. Wolff e Barrington Moore Jr. (Beacon Press, Boston).

REFERENZE BIBLIOGRAFICHE.

(1) “International Socialist Journal”, II, n° 8,aprile 1965, pag. 150.

(2) “Socialism in the Developed Countries”. Cit., pag. 140.

(3) Ibidem pagg. 141-144.

(4) “L’uomo a una dimensione”, Einaudi Torino, 1967, pag. 168.

(5) “Socialism in the Developed Countries”, pag 140. Le citazioni successive sono tratte dalle pagg. 141-150.

(6) “L’uomo a una dimensione”, cit. pag. 72.

(7) “Soviet Marxism”, rev. ed. New York 1961, pag. 67.

(8) “L’uomo a una dimensione”, cit. pag. 201.

(9) “Socialism in the Developed Countries”, pag. 145.

(10) “L’uomo a una dimensione”, cit. pag. 256.


LO SPETTRO DEL LEGIONARIO di Olympe de Gouges

di Olympe de Gouges


È passato solo qualche lustro da quando i soliti funzionari ebbri di buona coscienza liberale avevano dichiarato la fine delle ideologie, tranne la loro ovviamente. Era accaduto in coincidenza con gli avvenimenti del 1989 e dintorni, cioè nel momento in cui il sistema economico occidentale, convinto che l’astuzia della merce avesse vinto definitivamente, celebrava i suoi fasti anche sul piano politico-ideologico. Ora la borghesia, preso atto che si trattava di un miraggio, è costretta ad una nuova e lacerante consapevolezza, la stessa che sotto la sferza della crisi s’intrufola negli strati più profondi della coscienza di ciascuno, e cioè l’evidenza del tramonto del vecchio mondo.


E allora, in tempi di turbolenza montante, la borghesia è decisa a giocare d’anticipo, prima che alla fiaba dello “spettro rosso” subentri un movimento di rivolta reale che mandi tutto all’aria. Perciò arruola nuovi liquidatori del marxismo, i più impavidi legionari travisati da recuperatori dell’autentico Marx, in effetti i più fedeli revisionisti del suo pensiero. Da un lato essi rivelano con fluenti perifrasi che il rapporto capitale-lavoro e la poetica dell’alienazione sono esattamente quelle cose che qualunque salariato sperimenta da sempre; dall’altro si compiacciono nel sostenere che il Vecchio ineguagliabile critico dell’economia capitalistica in definitiva è uno spettro che non mette più paura, anzi, non fu poi così pessimista nella sua diagnosi del capitalismo. L’importante infine è stabilire con disincanto che questo sistema non ha alternative, e cioè rassicurare la maggioranza operosa che esso si mantiene stabile, quindi rafforzare i programmi di comportamento ritualizzato e riproduttivo.


Perché il recupero di un certo stereotipo di Marx alla causa borghese possa aver successo presso le platee acculturate al giusto prezzo, è necessario mettere in atto un’operazione di una qualche sofisticazione, che è poi quello che fa Diego Fusaro nel suo libro Bentornato Marx :


1) esaltare l’eccezionalità della rivoluzione epistemologica marxiana, presentando Marx come “fondatore di una scienza filosofica assai vicina alla Wissenschaft di Fichte e Hegel”; di contro, disconoscere qualsiasi rapporto fondativo di Marx col marxismo, ascrivendo invece l’ispirazione di tale movimento teorico-politico ai cattivoni Engels e Kautsky; in tal modo si butta via qualsiasi teoria e azione rivoluzionaria con l’acqua sporca dell’ideologia e si salva il buon nome del filosofo fichtiano-hegeliano accettandone il suo uso critico possibile;


2) rimarcare come il pluslavoro risulti “nella sua sostanza schiavistica” comune alle diverse epoche storiche, occultando per quanto possibile come invece esso solo nel modo di produzione capitalistico assuma la forma storica e determinata di appropriazione di lavoro non pagato e cioè di plusvalore; sorvolare disinvoltamente sulla contraddizione fondamentale che da ciò deriva e quindi sancire una damnatio memorie sulla teoria della crisi e della legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, intesa come mera “inferenza” smentita dai “fatti”;


3) infine, a coronamento, denunciare, sia pure senza nessun presupposto “filologico”, non solo la presunta perdita di fiducia da parte di Marx in “un’imminente crollo del capitalismo”, ma adombrare anche il suo pessimismo circa la possibilità stessa di un cambiamento radicale (tanto che per tale motivo avrebbe rinunciato a pubblicare il II e III Libro de Il Capitale), in tal modo facendo di Marx un critico del capitalismo senza prospettiva.


Sul primo punto è facile osservare che il marxismo, di qualsiasi tendenza, s’innesta senz’altro sui capisaldi irrinunciabili della critica e delle scoperte marxiane, e cioè: 1) sulla concezione materialistico-dialettica della storia che, nel superare l’idealismo e il vecchio materialismo, costituisce la legge dello sviluppo della storia umana e con essa la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata; 2) sulla scoperta del plusvalore e con essa del meccanismo dell’accumulazione e della legge sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, gettando con ciò un fascio di luce nell’oscurità in cui brancolavano, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti borghesi che i critici socialisti.


È fuori discussione che fu Marx, per primo, a dare coscienza al proletariato delle condizioni oggettive e specifiche in cui avviene lo sfruttamento della forza-lavoro, rafforzandone quindi anche in termini teorico-scientifici le ragioni dell’antagonismo. Allo stesso modo non v’è dubbio che il marxismo, nelle sue determinazioni contingenti, costituisce il movimento che, sulla base dei risultati della critica marxiana, ha come scopo l’organizzazione politica rivoluzionaria per l’emancipazione e la liberazione del proletariato moderno (che non deve diventare un tirocinio passivo). Pertanto che Marx sia il fondatore del marxismo è un dato entrato nella coscienza comune e un portato della storia che non può essere seriamente revocato in dubbio (*). Se una critica al marxismo del Novecento andava fatta e della quale né Marx e né Engels hanno parte, è quella che riguarda l’identificazione del progetto proletario in un’organizzazione gerarchica dove l’ideologia sopravvive incrollabilmente all’esperienza e al fallimento dei suoi risultati (**).


Per quanto riguarda la teoria marxiana della crisi, Fusaro la liquida con una battuta in riferimento alla legge sulla caduta tendenziale del saggio del profitto, sostenendo che essa sarebbe stata smentita della storia del Novecento (***). Tale affermazione è forse la più comica tra le tante presenti nel libro e conferma come l’autore sembri non avere la minima idea del fatto che ciascuna categoria dell’economia capitalista, essendo un rapporto, un’unità di opposti, contiene in sé la possibilità della crisi. È il movimento delle categorie economiche, considerate nella loro interdipendenza, a tradurre questa possibilità in necessità, dimostrando che il modo in cui s’iscrive lo sviluppo capitalistico, potendo avvenire solo attraverso successivi momenti di crisi, ha un carattere storico, transeunte, come storico e transeunte è il carattere dei concetti che ne definiscono le leggi e le proprietà.


Le crisi cicliche rappresentano momenti solo temporanei di risanamento del sistema. Nel momento in cui ristabiliscono (anche se in modo violento e con perdite di ricchezza) le condizioni della valorizzazione, il processo di accumulazione capitalistica riprende, benché con sempre maggiore difficoltà. Questo fatto di cogenza solare, indica di per sé che il modo di produzione capitalistico ha raggiunto il culmine della fase espansiva ed è entrato nella sua crisi generale-storica, laddove le sue insanabili contraddizioni minacciano non solo le sue stesse capacità di riprodursi, ma anche quella della società umana. D’altra parte, la discrasia tra l’enorme capacità e potenzialità delle forze produttive sociali e la sempre più miserabile prospettiva delle condizioni di vita delle masse minacciate dalla crisi, così come l’esaurirsi delle risorse, evince sempre più l’assurdità di questo sistema.


Resta inteso però che allo stesso modo in cui si debbono respingere le teorie del “crollo”, a cui incidentalmente si richiama anche Fusaro, vanno anche disattese le concezioni che deducono la necessità del comunismo dall’ingiustizia e dalla malvagità del capitalismo così come dalla pura volontà rivoluzionaria del proletariato. Come si può desumere da quanto detto nel paragrafo precedente, nella misura in cui la crisi nega la possibilità di uno sviluppo illimitato ed equilibrato dell’accumulazione capitalistica, allo stesso modo nasce la necessità e possibilità della rivoluzione per il superamento del sistema.


Nel movimento all’interno delle contraddizioni capitalistiche non c’è alcun automatismo ma processo dialettico. Pertanto, è assolutamente vero quanto scrive Fusaro, e cioè che Marx non rinunciò mai alla convinzione “che il modo di produzione capitalistico trapassasse dialetticamente in una nuova forma di vita e di produzione”, ma è assolutamente falso che Marx pensasse che “il movimento operaio non deve fare nient’altro che assecondare la storia, accompagnandola per mano attraverso il suo traguardo”. Non si tratta né di assecondare e nemmeno di accompagnare, cioè di disconoscere il fatto che il pensiero unitario della storia, per Marx e il proletariato rivoluzionario, non è affatto distino da una posizione pratica da adottare, tanto è vero che sia la I Internazionale che i soviet non sono una scoperta della teoria ma precisamente l’elemento pratico ove la teoria s’invera.


Tanto la crisi è una tendenza necessaria del modo di produzione capitalistico giunto alla sua piena maturazione, quanto la rivoluzione sociale diviene una tendenza cosciente che gli scava la fossa e, come ormai anche gli scolaretti sanno, «la violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica (Il Capitale, I, 24-6)» (****).


Ed è perciò che Fusaro quasi si duole perché nel Capitale, in cui “è l’istanza scientifica a prevalere”, non vi sia quasi più “spazio alcuno per la speranza e la filosofia della storia” e ciò sembri avvalorare l’idea di una “personalità scissa tra l’utopista e lo scienziato”. Frase questa, posta tra virgolette, tratta – come segnala lo stesso Fusaro – da un certo Carandini, il quale in uno sforzo immane di fantasia immagina che sia lo stesso Marx a pronunciarla. Intanto l’effetto voluto, la traccia, resta nella memoria del lettore. È un esempio dell’insistita operazione furba dell’autore, il quale non manca, riferendosi al Capitale, di scrivere che si tratta di un’opera “scientifica”, mettendo debitamente il termine tra virgolette, scrivendo poi “che esso è colmo di esortazioni morali e di prese di posizione ‘ideologiche’ e si configura essenzialmente come un’arma di battaglia propria di chi si schiera fin da principio con una parte (gli operai) contro l’altra (i capitalisti)”. Un altro esempio, questo, di come sia difficile trovare nel libro di Fusaro un’affermazione univoca, ovvero una tesi che non sia seguita subito dopo, oppure in un altro contesto, da un’altra di segno esattamente opposto. Non è casuale, è una tattica che punta a fare della dialettica un mero espediente espositivo. Del resto, l’autore ha come scopo quello di rendere Marx presentabile in una sala da tè.


È inoltre opportuno osservare che ci vorrebbe un bel coraggio scrivere, come fa Marx nel Capitale, del lavoro diurno e notturno di donne e bambini, delle leggi coercitive per il prolungamento della giornata lavorativa, della crisi dell’industria cotoniera, della condizione della classe operaia nel suo complesso o dell’espropriazione-espulsione della classe rurale dalle proprie terre, senza un minimo di considerazione morale, di quel sentimento d’umanità e di vicinanza per le vittime dello sfruttamento bestiale e del sopruso che Fusaro liquida come “posizione ideologica”. Del resto Fusaro, un pasticcione che umilia Marx, non sa dire nulla di suo a riferimento di una società dove è proibito invecchiare e non essere sempre efficienti, dove si è solo, quando va bene, mediocramente impiegati. Quindi di un sistema che falsifica lo scopo della produttività e dove la separazione della propria attività è anzitutto separazione dal proprio tempo, dove la confisca di questo costituisce la privazione della propria vita in un futile pseudo-ciclo che è solo discesa lineare verso l’inferno della schiavitù salariata, dell’anomia consumistica e dell’ipnosi spettacolare.


E veniamo brevemente alla questione della “sfiducia” che Marx, secondo le intuizioni di Fusaro, avrebbe dimostrato sia a riferimento del “crollo immediato”, sia a riferimento del suo più generale pessimismo sulla fine del capitalismo, tanto da farlo desistere dal pubblicare – congettura Diego – il seguito del primo Libro de Il Capitale, e cioè, precisa sempre Diego, i lavori i cui “cardini teorici sono la teoria della crisi e quella della circolazione”. Questa ipotesi andrebbe corroborata con dati di fatto, ma già Fusaro dice che non vi sono elementi “filologici” per farlo. A supporto la pubblica accusa cita che negli ultimi anni Marx avrebbe abbandonato i lavori di economia per dedicarsi agli studi antropologici sulle società precapitalistiche (che comunque non è lo studio dei microsporidi). Naturalmente Fusaro non prende in considerazione gli elementi “filologici” e di contesto storico che invece smentiscono questa sua gratuita illazione.


Marx scrisse il grosso della sua critica economica nel decennio 1850 e nei primi anni di quello successivo. Quindi passò, tra alti e bassi di ogni tipo testimoniati dalla sua corrispondenza con Engels, alla stesura definitiva per la stampa del I Libro de Il Capitale. Negli anni che seguirono, fu molto preso dalle questioni che travagliarono la I Internazionale e il movimento rivoluzionario europeo più in generale, per non parlare poi del periodo della Comune parigina. Egli si rendeva conto a quel punto che una fase della rivoluzione in Francia e in Europa s’era conclusa, come già era avvenuto nel 1848-’49. Che sia quindi sopraggiunta anche una certa stanchezza è normale, e andava ad aggiungersi all’aggravarsi del suo stato di salute e delle condizioni dei propri famigliari. Negli ultimi anni venne a mancargli la moglie ed egli trascorse gli ultimi periodi all’estero per cure (le lettere degli ultimi tempi confermano quale fosse, fatto umanamente comprensibile, la sua preoccupazione per il suo stato di salute già in forte declino). Senza togliere che il Moro era noto per essere un perfezionista esasperante, ma ciò nondimeno lasciò disposizioni precise sul suo lascito letterario alla figlia Tussy (Eleanor) e all’amico fraterno Engels (*****).



(*) Alla stessa stregua, cioè senza che alcuno se ne adonti, sono accomunati al darwinismo tutti coloro che si richiamano alla teoria dell’evoluzione delle specie, nonostante Richard Dawkins non condivida le posizioni di Niles Eldredge e Stephen Jay Gould andasse per un’altra strada ancora. Per i marxisti si alzano alti lai poiché essi non si occupano di fossili ma di materia viva. Come osservò più tardi lo stesso Lenin, se gli assiomi della geometria urtassero gli interessi degli uomini, si cercherebbe in ogni modo di confutarli. La bubola di Fusaro tendente a negare la paternità di Marx sul marxismo trova antecedenti storici già nell’epoca in cui viveva il Moro. Vale forse la pena riportare come il tentativo maldestro di addebitare il marxismo (ideologia cattiva) a Engels, abbia una lunga storia, fin dagli albori della collaborazione tra Marx ed Engels. Scrive quest’ultimo in una lettera a E. Bernstein del 20 aprile 1883: «La commedia del cattivo Engels che ha traviato il buon Marx è stata recitata innumerevoli volte dal 1844 in poi, alternandosi con l’altra su Marx-Arimane, che ha allontanato Engels-Oromaze dalla via della virtù». Un altro episodio ha per oggetto Franz Mehring, il quale verso la fine degli anni 1870 si era avvicinato alla socialdemocrazia e poi se ne era allontanato. Mehring aveva sottolineato, in un articolo pubblicato nel 1882 sul Weser-Zeitung, come dopo la promulgazione della legge contro i socialisti, Marx non avesse avuto più nulla a che fare con la socialdemocrazia, e che non c’era più nessun collegamento tra Marx ed Engels e il Sozialdemokrat, che Mehring definiva come l’organo di stampa del banchiere Karl Höchberg. In seguito a questo articolo la redazione del Sozialdemokrat pubblicò una tagliente dichiarazione contro Mehring. Sulla reazione di Marx ed Engels vedi lettera del 3 agosto 1882.

Sulla vexata quaestio del «Tutto quello che so è di non essere marxista», ho già detto qui. Interessante è anche la lettera di Marx a Sogre del 5 nov. 1880 che si può leggere in questo link. Essa dimostra l’attività e l’impegno profuso da Marx fin verso la fine della sua vita nel sostenere e consigliare il movimento operaio; del programma di fondazione del Parti Ouvrier, nella parte redatta da Marx, si dimostra come questi non disconosca la forma individuale della piccola proprietà, accanto alla proprietà collettiva, come caratteristica della società libera. Già nel Manifesto tale concetto era chiaro: «Quel che contraddistingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese».


(**) Le condizioni di arretratezza e di accerchiamento nelle quali si trovò costretta l’organizzazione del proletariato sul modello bolscevico favorì la conquista del monopolio statale di una classe di funzionari e burocrati di partito (intellettuali divenuti “rivoluzionari di professione”) che si troveranno ad essere i veri proprietari del proletariato, la direzione assoluta della società.


(***) «Le frasi apologetiche per negare le crisi intanto sono importanti in quanto esse dimostrano sempre il contrario di ciò che vogliono dimostrare. Esse – per negare la crisi –, affermano l'unità là dove esiste antitesi e contraddizione. Dunque, intanto sono importanti in quanto si può dire: esse dimostrano che se di fatto le contraddizioni da esse eliminate con la fantasia non esistessero, non esisterebbe neanche la crisi. Ma in realtà la crisi esiste, perché queste contraddizioni esistono. Ogni ragione che essi sostengono contro la crisi è una contraddizione eliminata con la fantasia, quindi una contraddizione reale, quindi un motivo della crisi. Questo desiderio fantasioso di negare le contraddizioni non fa che confermare le contraddizioni reali di cui ci si augura proprio l'inesistenza” (Teorie del plusvalore, II, parte IV, “Le crisi”).


(****) Scrive Engels nel II cap. dell’Anti-Dühring: «è chiaro che tutti i fenomeni economici si devono spiegare partendo da cause politiche, cioè dalla violenza. E colui al quale ciò non basta è un reazionario travestito».

(*****) Per chi ne avesse interesse rinvio la questione alla Prefazione di Engels del III Libro de Il Capitale, laddove tra l’altro si legge: «Dai primi giorni della nostra attività pubblica, una buona parte del lavoro di contatto fra i movimenti nazionali dei socialisti e degli operai nei diversi paesi ricadde su Marx e su di me: questo lavoro aumentò col rafforzarsi del movimento nel suo complesso. Mentre però, anche in questo settore, Marx si era assunto, fino alla sua morte, l’onere maggiore, da allora in poi il lavoro sempre crescente ricadde solo su di me.

[…] Fra il 1863 e il 1867 Marx aveva non solo preparato in abbozzo i due ultimi libri del Capitale e in stesura definitiva il primo, ma anche svolto il lavoro gigantesco inerente alla fondazione e allo, sviluppo dell’Associazione internazionale degli operai. In conseguenza però già nel 1864 e ‘65 apparvero sintomi molto seri di quei disturbi cui si deve se Marx non ha potuto provvedere lui stesso alla stesura definitiva del II e del III Libro».