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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 31 maggio 2012

Il sansepolcrismo di ritorno, di Riccardo Achilli - con nota finale di Alfredo Mazzucchelli



La situazione attuale ha diversi punti di convergenza con quella del 1919: una dirigenza politica liberale totalmente avulsa dalle esigenze e dai sentimenti del Paese reale (persino nelle cose più banali, come l'opportunità di evitare una parata militare autocelebrativa dopo un disastroso terremoto, anche in considerazione dei sacrifici economici delle famiglie, o nella tirata moralistica fatta l'altro ieri da Monti sul mondo del calcio, in un Paese che di calcio è drogato, questa classe dirigente liberale mostra la sua lontananza dal Paese reale, oltre che la sua miopia politica, posto che piccoli gesti come la soppressione di una parata, o giochini come il calcio, servono al potere come valvola di sfogo per evitare esplosioni sociali) nonché una crisi economica e sociale profonda e che durerà per molti altri anni, apparendo irrisolvibile con i normali rimedi del liberismo.
E, esattamente come nel 1919, quando con il sansepolcrismo il fascismo inaugurò la sua nascita politica ed il suo programma fondamentale, anche oggi avanzano istanze di pseudo-socializzazione (che si intravedono nel rifiorire di proposte di compartecipazione agli utili delle imprese da parte dei lavoratori, fatte ad esempio da Marchionne, che sono mirate ad estinguere la lotta di classe, e che, in cambio della pace sociale legano una parte significativa del reddito del lavoratore a fattori per lui incontrollabili, come l'andamento esogeno del mercato o le decisioni del management di distribuire o non distribuire eventuali utili; ovviamente nessuno sostiene proposte realmente efficaci per i lavoratori, ad esempio in direzione del modello di cogestione tedesco, in cui, nonostante i limiti di tale modello, i sindacati hanno un indiscutibile potere di controllo effettivo sulla gestione aziendale e hanno una capacità reale di tutela del lavoratore). 
Esattamente come nel programma fascista delle origini, affiorano tendenze terzoposizioniste, alimentate da un fasullo interclassismo: come ignorare quel filone sociologico che tende a negare l'esistenza stessa delle classi sociali, affogandole in una indistinta classe media, e che in ambito politico si ritrova fra quelli che vogliono spacciarci l'idea che sinistra e destra non esistano più, superate da categorie interclassiste come il riformismo ed il conservatorismo; gli stessi che poi arrivano a dire che il programma politico della Le Pen, imbrattato di xenofobia e nazionalismo gretto, è un esempio da seguire per difendere i popoli europei dall'aggressione del capitale finanziario, omettendo però di dire che l'azione politica della Le Pen, esattamente come quella di Mussolini e dei suoi stolti ammiratori, è tutta quanta interna agli interessi della borghesia, poiché, confondendo ad arte le carte e ingarbugliando l'analisi politica e sociale, sottrae quote di consenso proletario e popolare a quelle istanze realmente di sinsitra che sono interessate alla sua difesa.
Così come, proprio in coerenza con quanto verificatosi nel 1919, avanzano istanze nazionalistiche (mascherate dietro proclami meramente formali di antimperialismo, esattamente come fece Mussolini nel 1919; ricordo che nel discorso di Sansepolcro, Mussolini proclamò L'adunata del 23 marzo dichiara di opporsi all'imperialismo degli altri popoli a danno dell'Italia e all'eventuale imperialismo italiano a danno di altri popoli; accetta il postulato supremo della Società delle Nazioni e presuppone l'integrazione di ognuna di esse; naturalmente pochissimi anni dopo, Mussolini avrebbe aggredito, in forma perfettamente imperialista, l'Abissinia, sancendo il fallimento definitivo di quella stessa Società delle Nazioni che a parole, nel 1919, diceva di difendere).
E persino il superamento della forma-partito tradizionale, in nome di associazioni prive di piattaforma ideologica ed identitaria, costruite soltanto in base ad un rapporto falsamente egualitario fra base e vertice (ed in realtà genuinamente autoritarie, perché, in asssenza di una piattaforma politico-ideologica e di una organizzazione si reggono soltanto sull'autorità ed il carisma personale del leader, che assume la veste del Vate) è uno dei punti del programma di Sansepolcro.
Questo programma, falsamente rivoluzionario, perché in realtà perfettamente inscritto dentro le logiche dominanti del capitalismo, e mirato esclusivamente ad estinguere la lotta di classe e le dinamiche di interesse divergenti tipiche di una società sana, è in realtà un programma autoritario, costruito per conto ed in nome delle classi dominanti. Non abolisce la proprietà privata e la distribuzione ineguale dei redditi, non riportando i redditi percepiti da ciascun produttore verso una coerenza rispetto al lavoro socialmente astratto da lui impiegato nella produzione, indebolisce (spacciandolo per elemento pericoloso per la competitività del sistema) il confronto, anche antagonistico, fra classi sociali, che però rappresenta il sale della democrazia economica e politica, in nome di un preteso "interesse nazionale superiore" (che poi è la giustificazione di ogni fascismo, che azzera l'individuo e la classe in una superiore Collettività Nazionale). Costruisce una politica anti-identitaria, dove il confronto non avviene più fra distinte visioni del mondo, ma fra leader individuali più o meno carismatici (il che è l'anticamera del peronismo, che in fondo, al suo inizio alla fine degli anni quaranta, altro non è che una forma di esperimento di fascismo sociale). E dove il "riformismo" può diventare tipicamente di destra, mentre ciò che resta della sinistra, che vuole difendere lo status quo dei diritti dei lavoratori, viene relegato, sprezzantemente, nel conservatorismo (come chi dice che il Welfare europeo è oramai morto, e che quindi difenderlo è da reazionari). I rigurgiti di nazionalismo, camuffati dietro ad un antimperialismo di facciata (che però difende autentici despoti come Assad o Gheddafi) si traducono nella difesa del principio dello Stato-nazionale o della comunità nazionale, che, oltre che essere un principio fascista, è la base ideologica di ogni guerra e di ogni imperialismo.
Intendiamoci: chi scrive è assolutamente certo del fatto che nella guerra alla Libia, e in quella che si sta preparando per la Siria, non vi sia alcuna "difesa della democrazia e dei popoli", ma vi siano soltanto gretti moventi imperialistici, collegati sia a motivi economici (la Siria, con il memorandum of understanding sottoscritto con l'Iran a luglio del 2011, di fatto entra a pieno titolo nella guerra globale per la fornitura di gas naturale, consentendo all'Iran di diventare player mondiale nella fornitura di gas naturale all'Europa, tramite un futuro gasdotto che partirà dal giacimento iraniano "South Pars": http://www.noaweb.it/index.php/2010/06/07/non-ce-solo-il-nucleare-liran-nella-partita-dei-gasdotti/) sia a motivi geopolitici (la Siria è il ponte fra l'Iran ed il partito Hezbollah, e dà fastidio, ora che l'intero scenario politico medioerientale, dopo la primavera araba, sta virando verso un islamismo moderato alleato con l'Occidente, sul modello-Erdogan, e che Hamas sta adottando una politica molto più morbida e negoziale). Tuttavia, il giusto e necessario contrasto all'imperialismo occidentale non può giustificare, come linea "del minimo danno", un supporto a dittatori dalla mano pesante nella repressione del dissenso politico e sociale. 
Quello che occorre fare, se ci si richiama alla sinistra, è denunciare l'operazione imperialistica fatta sulla Libia ed in atto sulla Siria, lottare per evitare un intervento armato della NATO, che ben presto sfocerebbe in una guerra contro l'Iran (perché la Siria diverrebbe la piattaforma ideale per lanciare un attacco a quest'ultimo Paese, con conseguenze disastrose ed imprevedibili, cfr.http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2012/01/i-rischi-non-calcolati-dello-scacchiere.html) MA NON DIFENDERE ASSAD, QUANTO PIUTTOSTO SOSTENERE LA PARTE SANA DELL'OPPOSIZIONE SIRIANA DEMOCRATICA, quella cioè non eterodiretta dagli interessi occidentali, al tempo stesso denunciando le operazioni terroristiche condotte dal Cns, vera marionetta di Washington, per impedire un processo di riconciliazione nazionale in Siria. In questo modo si coniugano diritti democratici dei popoli ed antimperialismo. Non difendendo despoti. E questa è già una prima differenza fra sinistra e nuova destra sansepolcrista, altro che uguaglianza fra destra e sinistra.
Questo sansepolcrismo di ritorno può affermarsi perché, come nel 1919, la sinistra è disunita e conflittuale (allora fra le varie tendenze del socialismo, e poi nella spaccatura fra PSI e PCI nel 1921, oggi fra una miriade di sigle caratterizzate da notevoli difficoltà di dialogo reciproco) e non sempre in contatto con il Paese reale (allora la sinistra faticò a dare rappresentanza politica alla massa di ex combattenti smobilitati e privati di reinserimento nella società civile, oggi fatica ad abbandonare una tendenza all'interclassismo ed una fascinazione culturale per il modernismo ad ogni costo, che la ostacola nel dare piena rappresentanza agli interessi degli oppressi e dei perdenti del sistema). 

NOTA DI ALFREDO MAZZUCCHELLI

Se voi mi portate un solo esempio di un governo autoritario o sedicente democratico che abbia portato giustizia, fratellanza, solidarietà e piena partecipazione alla vita politica del suo paese, allora posso seguirvi nelle vostre analisi, altrimenti ripeto che a me non interessa il meno peggio in queste situazioni, poichè tra Stati e governi, il meno peggio finisce sempre per essere la soluzione più disastrosa. CHI POSSIEDE LE COSE HA IL DOMINIO SUGLI UOMINI, sia questo uno Stato sedicente progressista che uno sedicente socialista! E chi ha il dominio sugli uomini, tutt'alpiù è un dittatore "legalizzato": escremento da buttare nel cesso. Stò aspettando che mi indichiate un esempio di democrazia diretta, perchè è di questo che si dovrebbe parlare. DOVE ESISTE ? ( FORSE SOLO NELLA SELVA LACANDONA !!!, DIFATTI SIA FIDEL CHE CHAVEZ COI ZAPATISTI NON HANNO MAI INTESSUTO RELAZIONI !!!!!!!!! )
Sui San sepolcristi avrei da aggiungere qualche curiosità : c'è chi scrisse che il loro programma, al termine di ogni "marcia" verso il manganello e l'aspersorio, perdesse strada facendo un item "rivoluzionario", ma, come tutte le gramigne, la sua tela continuò a tessersi come quella di Penelope, fino al 1937 quando l'allora PCI, col suo comitato centrale allora in esilio a Parigi, propose al fascismo, che ormai aveva addormentato le coscienze (proprio come oggi) un patto di pacificazione nazionale partendo proprio dalla condivisione del "manifesto" dei san sepolcristi! Adesso non mi direte mica che tutti i partiti in lizza oggi, nessuno, e dico proprio nessuno, non ha già da tempo firmato ed accettato il "manifesto" dei sansepolcristi ?

martedì 29 maggio 2012

UN PICCOLO, SINGOLARE EPISODIO di Norberto Fragiacomo

 
 
 
 
UN PICCOLO, SINGOLARE EPISODIO
 di Norberto Fragiacomo
 
 
 
Una notizia singolare, per certi versi strabiliante, ha galleggiato per qualche ora sulla homepage di Repubblica online, lunedì 28 maggio.
Già il titolo attira l’attenzione (“Porta Portese, la folla difende l’ambulante fermato dai vigili”), ma è il contenuto ad essere “rivoluzionario”: stando alla cronista, la gente sarebbe intervenuta in difesa di un ambulante nigeriano, cui due vigili urbani avevano appena sequestrato la mercanzia. I poliziotti – ed altri giunti di rinforzo – sarebbero stati letteralmente accerchiati dalla folla, e si sarebbe acceso un parapiglia a stento sedato da agenti della polizia di Stato, accorsi dal commissariato più vicino. Nella colluttazione, i vigili avrebbero fatto ricorso allo spray urticante; il bilancio è di quattro poliziotti municipali (lievemente) feriti e di due arrestati, l’africano e un giovane trasteverino che – commenta la giornalista – “era diventato il Robespierre (?) della rivolta”.
Ora, che c’è di strano in tutto questo? Come mai il comandante del XVI gruppo, tale Giovagnorio, parla di “un’aggressione che non si era mai vista prima”? Capita persino nella “civilissima” (un tempo) Trieste che i tubi vengano malmenati – da automobilisti iracondi o, più spesso, da giovinastri educati alla violenza delle curve. Anni fa, la città si divise sulla proposta di armare i vigili… ma un’occhiata al video della “rissa” [1] – evidentemente girato con un telefonino, piuttosto confuso e privo di audio – lascia intendere che, nel caso in questione, le cose siano andate in maniera diversa: la videocamera non inquadra dei facinorosi, ma una normalissima folla di cittadini, chiaramente indignati.
La cronista ha raccolto la testimonianza di un passante: “hanno usato dei modi barbari, gli hanno buttato la merce nel cassonetto” – ed in effetti nel filmato si vedono i vigili avvicinarsi, con fare deciso, ai cassonetti dell’immondizia. Dunque, la reazione dei cittadini avrebbe un movente – per così dire – altruistico: andrebbe interpretata come una spontanea ribellione collettiva contro un’ingiustizia, contro un abuso di potere ai danni, per di più, di un emigrato, cioè di un “soggetto debole”, scarsamente tutelato dalla legge.
Usiamo il condizionale perché la carta si lascia scrivere, e la manipolazione giornalistica – magari in buona fede – è sempre in agguato; nondimeno, se l’episodio si fosse svolto nel modo descritto sarebbe piuttosto significativo. Indicherebbe che gli italiani si stanno stancando, e non sono più disposti a tollerare gli arbitri del “potere” impersonato, a Porta Portese, da funzionari troppo sbrigativi.
Rigurgiti di anarchismo? Crediamo che la spiegazione sia un tantino più complessa. I nostri connazionali hanno sempre percepito lo Stato e le sue leggi come un’imposizione - nemici da trarre in inganno, ove possibile. L’individualismo, lo scarso senso civico, il “familismo amorale” studiato dai sociologi e la propensione a violare le regole sono (anche) il risultato della secolare assenza di un sistema di governo efficiente e onesto. Gli italiani odierni sono i gemelli di quelli vanamente sferzati da Guicciardini, Manzoni e Leopardi; non è casuale che nelle loro abitazioni, anche modeste, regnino la pulizia e l’ordine, mentre le strade e i malmessi parchi pubblici sono terra di nessuno.
A differenza di altri popoli, maggiormente combattivi, si tende a sopportare, obbedire – ma lo si fa controvoglia, cercando di approfittare delle zone d’ombra offerte, di volta in volta, da un sistema mastodontico e farraginoso all’eccesso.
Ce ne vuole perché l’italiano si ribelli: quando accade è a causa di situazioni insostenibili (es.: il manzoniano assalto ai forni, le proteste contro la tassa sul macinato ecc.), che fanno sì che la rabbia, lungamente repressa, tracimi, ed abbia la meglio sulla paura dell’autorità. Ma quest’ultima deve essere sentita come debole, più screditata del solito, quasi ridicola nella sua impotenza.
L’Eklat [2] romano ci dice (direbbe) che forse siamo prossimi al punto di ebollizione. Indizi anche più gravi non mancano: la fiducia in tutte le istituzioni – non solo nei partiti politici – è ai minimi storici; gli elettori disertano le urne (“tanto le elezioni non servono a niente”, si sente ripetere), e se ci vanno votano per movimenti dichiaratamente “antisistema”, di rottura; vecchiette impomatate cianciano di tirare improbabili bombe.
In questa cornice, una resistenza a funzionari arroganti (siano essi vigili, esattori od altro) cessa di sorprendere, diretta com’è – in realtà – contro uno Stato sopraffattore che ha tradito l’impegno assunto di farci vivere non bene: dignitosamente. Ondate di licenziamenti sempre più facili, tagli alle pensioni e ai servizi stanno gettando nella disperazione un Paese da anni in ginocchio (il dramma della “quarta settimana” precede la crisi), che confusamente intuisce che i sacrifici attuali ne chiameranno altri, all’infinito, e che chi ci governa è solo il mastino alla catena di inconfessabili interessi sovranazionali.
Malgrado la loro quotidiana ridipintura ad opera di cortigiani solerti, la aureole dei tecnici non luccicano più: come per le pestilenze trecentesche, l’attesa degli effetti (della crisi) basta a creare panico, a stravolgere abitudini di vita, a far perdere ogni speranza nel futuro – proprio e dei figli. In aggiunta, la terra non smette di tremare sotto i nostri piedi, amplificando il senso di insicurezza e scoramento.
Le menzogne di Monti, Fornero e confindustriali sul sostegno ai giovani sbattono ormai contro un muricciolo di rassegnata incredulità, e non è sufficiente mandare in tivù ministri presentabili – come Fabrizio Barca – per riacquistare consenso. La banda dei tecnici non seduce più nessuno, a parte Azzurro Casini e il buon Bersani che, dopo aver smesso di essere comunista, non ha saputo diventare nient’altro.
Risultato: di fronte alla prima soperchieria la gente si sdegna, anzi si incazza; e riscopre, nella contestazione collettiva, quello spirito solidaristico, di gruppo, che pareva smarrito per sempre. Purtroppo per i reggitori, insomma, puntarci in faccia la luce del televisore e del computer non è servito a disinnescare del tutto quell’arma temutissima che chiamano cervello.
Ci vuole allora qualcosa di diverso: una paura nuova, anzi antica. Quella del terrorismo, che colpisce alla cieca, spargendo sangue innocente. La tragica morte della sventurata Melissa può giovare alla classe dirigente, anche se causata, in ipotesi, dalla follia di un lupo solitario. Presidente, ministri, servizi segreti hanno intonato in coro: attenzione, il terrorismo stragista sta per tornare! Gli anarchici metteranno bombe ovunque! Stringiamoci attorno allo Stato, nostro unico baluardo!
Potrebbe funzionare, ma non è detto. Certo l’apparizione, in tivù, degli spettri delle BR ha fatto correre a molti di noi un brivido lungo la schiena. Il sottoscritto, che a fine anni ’70 era un bimbo, ricorda nitidamente un sogno infantile: un’auto segue la corriera che scende in città, e dentro ci sono due uomini cattivi con la giacca a vento rossa. Aneddoto e descrizione possono far sorridere (d’altronde, nei giorni del rapimento Moro avevo sei anni!), ma il fatto che i terroristi si siano insinuati persino nei sogni di un fanciullo dà un po’ la misura dell’atmosfera tesa che si respirava allora.
Oggi però il vero spauracchio è la crisi, ed il conseguente impoverimento generale, con perdita secca di prospettive e diritti; inoltre, questo gridare “al lupo” da parte delle istituzioni è sguaiato e sopratono. Il terrorismo anticapitalista (perché di questo si parla) non ha mai fatto esplodere bombe nelle scuole, e la sua esistenza – allo stato – è meramente ipotetica, sia nella versione comunista che in quella tradizionale anarchica.
L’allarmismo potrebbe allora costituire il prologo di una militarizzazione delle città, volta ad impedire – come a Francoforte – qualsiasi forma di contestazione, anche pacifica. Prevenire è meglio che curare. Non ci pare un’ipotesi campata in aria: nella gestione delle piazze la polizia mostra sempre più spesso la mano pesante (ieri, 28 maggio, nei confronti degli studenti, domani si vedrà).
Nel paradiso liberalcapitalista governato da Washington, “scherza coi fanti (politici, opinionisti ecc.) ma lascia stare i santi (l’alta finanza internazionale e i suoi funzionari)”: dubitare dei dogmi non è permesso, ed ogni forma di dissenso è considerata sovversione.
La solidarietà fra cittadini, poi, potrebbe evolvere, in tempi brevi, in solidarietà tra sfruttati: la mala pianta va quindi estirpata sul nascere.
Il piccolo episodio di Roma è, insomma, un segnale, cui qualcuno – in alto – non è rimasto indifferente.
 
 
Trieste 29 maggio 2012 
 

La violenza contro l'anarchia



Avevo uno zio anarchico, o meglio, era lo zio di mio padre, si chiamava Siro ed era stato esule in Francia e combattente in Spagna.
Di lui ogni tanto mi parlava mio padre, descrivendomelo come un tipo schietto, onesto, gentile, buono e soprattutto mai incline al compromesso, un uomo tutto d'un pezzo che, quando mio padre si sposò in chiesa, lo prese da parte e gli disse con molta tenerezza: “Non te ne avere a male, ti voglio un gran bene, ma lì, proprio non ci posso entrare.” E tirò fuori un sorriso disarmante con gli occhi che sfavillavano sotto le sopracciglia cispose.
L'Anarchia è sempre stato per me un nobile ideale, una utopia, di quelle che non vogliono dire che certi valori non stanno da nessuna parte, ma che il loro, non è un luogo preciso, già realizzato una volta per tutte, ma piuttosto da costruire, da realizzare sempre e da rinnovare con libertà, giustizia sociale e condivisione.
Ero piccolo quando scoppiò la bomba a piazza Fontana e accusarono per la prima volta gli anarchici come Valpreda e Pinelli di averla preparata e fatta esplodere; ci rimasi male, perché mi sembrava si stesse sporcando un sogno, una favola che mio padre che anarchico non era, mi raccontava da bambino riferendosi a suo zio, e che io, allora, immaginavo nella mia fantasia come un personaggio mitologico, una sorta di gigante buono in lotta contro tutti i mostri peggiori del mondo, una specie di Ercole alle dodici fatiche.

Poi vennero gli anni di piombo, quelli in cui si marciava nei corridoio del liceo gridando: “Valpreda libero!” E lo liberarono alla fine, con nemmeno tante scuse, ma non lo hanno mai lasciato in pace, neanche oggi che ritirano fuori film beceri e strampalati su quella realtà di allora e, non potendo fare a meno di negare ciò che in tutto questo tempo è venuto a galla dalle peggiori fogne della nostra storia, si inventano doppie piste, doppi mandanti, doppi esecutori, da perfetti doppiogiochisti, da mirabili interpreti della doppiezza assunta a verità rivelata.
Pinelli, no, non lo hanno potuto scagionare, lui lo fece da solo, se ne volò via da questo mondo infame attraverso la finestra di un commissariato, come un angelo maledetto, incapace di sopportare torture e menzogne costruite ad arte. Stendiamo un velo pietoso su come e perché finì per attraversare per sempre la soglia dell'eterno.
E' passato tanto tempo eppure siamo ancora lì, come se i fotogrammi di quel film fossero eternamente fissati su quel volo a mezz'aria, e da sotto, da dentro le finestre si gridasse ancora: “Infame! Non ci sfuggirai! Ti braccheremo anche all'inferno!”
Eh già, perché è sotto gli occhi di tutti la misera quanto meschina e approssimativa pagliacciata della sedicente Federazione Anarchica Informale, con acronimo sovrapposto alla FAI (Federazione Anarchica Italiana), il conseguente scatenamento dei media, delle gerarchie poliziesche che ovviamente devono distrarre non solo la gente dai veri pericoli che la portano ormai a suicidarsi in massa per perdita di lavoro, tasse insopportabili e precarietà endemica, ma persino i poliziotti da un destino di marginalizzazione e di stipendi ridotti e bloccati, ed hanno bisogno per questo di trovare un mostro su cui scatenare ogni rabbia e ogni paura.
Il mostro anarchico che spinga tutti, mediante il terrore nelle spire del vero Leviatano che ci sta strozzando di tasse, precarietà, disoccupazione e miseria, credendo piuttosto che sia un padre amorevole e rassicurante
Così ecco comparire l'idra tentacolare che estende le sue micidiali spire dalla Grecia all'Italia e che è pronta a colpire e ad uccidere senza riguardo per nessuno e senza alcuna pietà.
Strano che non abbiano attribuito la stessa strage di Brindisi a tale mostro in agguato, o non lo è solo perché abbiamo ancora dei magistrati e dei procuratori antimafia che sanno fare bene il loro mestiere, nonostante il budget della DIA sia stato ridotto da 20 milioni a 7, sì, avete capito bene..a meno della metà.
Queste sono cifre che lo stesso sindacato di polizia ha diramato di recente denunciando una situazione al limite dell'assurdo e che però, i media di regime si guardano bene dal diffondere.
A loro basta il solito vecchio e stranoto capro espiatorio, perché si sono talmente abituati alla mancanza di reattività del popolo e al collateralismo del potere anche delle grandi organizzazioni sindacali, che contano sempre e comunque che una panzana, più volte ripetuta, debba inevitabilmente diventare verità.
Perché l'ignoranza dilagante già è il suo sicario migliore e già è sguinzagliato da tempo a colpirci, fin dalla più tenera età. Imparate ad essere sbandati da piccoli, se non potete pagarvi una scuola di signori, sbattuti da un'aula all'altra e, da grandi apprendete rapidamente quel terrore che vi insegue anche sul portone di scuola.

Si sono sempre accusati gli anarchici di essere insurrezionalisti, di essere violenti, ma la vera violenza che sta dilagando, mietendo vittime nel silenzio dell'abbandono e dell'indifferenza, su coloro che la subiscono insieme alla perdita di quella dignità che è stampata nel primo articolo di una Costituzione che è ormai diventato il principale tiro a segno su cui allenarsi alla conquista del potere autoritario, tecnocratico e liberticida, quella violenza che si impone su chi non ha nemmeno più una voce per urlare, perché non ne ha la forza, ebbene non si giustifica, ma piuttosto la si legalizza, come una offerta sacrificale al Leviatano che ci sta inghiottendo tutti, ed è ovunque intorno a noi.
Perché è violenza abbandonare i giovani ad un destino infinito di precarietà, è violenza massacrare qualcuno di botte in carcere senza che alcuno lo possa difendere, è violenza costringere un esodato a non avere né stipendio né pensione, è violenza tagliare pensioni e bloccare stipendi, è violenza mantenere intatti privilegi indegni, è violenza chiudere gli ospedali, limitare i trasporti e farli pagare di più, rendere esose cure essenziali, lasciare i disabili nella disperazione e nell'abbandono, è violenza aggredire la scuola pubblica privandola di risorse indispensabili, è violenza discriminare una coppia eterosessuale da una omossessuale, è violenza spendere soldi per armi, bombardieri e guerre in cui si vanno ad ammazzare anche i bambini, è violenza tagliare risorse preziose ai magistrati e ai poliziotti che combattono la criminalità di ogni genere..è violenza un sistema fondato sulla violenta indifferenza del potere per la sorte della maggioranza della popolazione.
Tutto questo è molto di più di un gesto violento, perché significa incatenare la vita di tanti esseri umani alla schiavitù della violenza.
Bakunin diceva che “Quando si sta portando una rivoluzione per la liberazione dell’umanità, bisogna avere rispetto della vita di ogni uomo e di ogni donna… Il terrorismo viola la libertà degli individui e perciò non può essere utilizzato per costruire una società anarchica”.
E quindi basta solo un briciolo di cultura per smascherare tanta boria strumentale, per fare un pernacchione al baubau che si sta agitando con un'arte alquanto arraffazzonata anche sintatticamente, viste pure le condordanze lessicali sgangherate dei volantini che vengono messi in giro da Olga. Devono essere a corto di laureati nella truppa di infiltrazione.
Allora, chi sarà mai questa sedicente "cellula Olga" che, con tutto il rispetto per la vera Olga Economidou, l’anarchica greca in carcere, in questo caso, da noi ci appare piuttosto come il nome accattivante di una esperta escort?
Una che quasi di sicuro “fa il suo prezzo” per la sua “prestazione”.
E un prezzo “si fa” sempre a chi “paga”.
Sappiamo tutto delle stragi di stato, ma non abbiamo mai saputo niente dei veri colpevoli e di come avrebbero potuto essere puniti e invece sono tuttora in giro, magari a fare da “consulenti” come fecero i nazisti durante la guerra fredda.
Sappiamo che oggi tali remake sono dettati dalla disperazione di un potere che non sa più cosa inventarsi per restare abbarbicato ai suoi privilegi, quando la terra che ha intorno brucia e il deserto avanza fino alle sue stanze.
Non c'è infatti altro motivo che la disperazione come causa di tali idiozie. Cosa può infatti far riproporre una strategia già messa in campo in passato, pedissequamente, con le stesse modalità di sempre, con la stessa terminologia da gruppo di fuoco avanguardista che conduce il popolo alla lotta armata, in contraddizione con ogni valore anarchico partecipativo e libertario, se non la disperazione di sentirsi assediati e di non avere più nulla da inventare per respingere il pericolo crescente di una caduta verticale dei consensi?
Già avvenuta per altro nelle recenti elezioni, e nonostante la reiterata tecnica stragista e terrorista.
Questo paese si addormenta facilmente davanti alla TV, ma in genere si ricorda fin troppo bene dei film già visti e stravisti.
Questa volta cambierà canale, anzi, sta già spegnendo lo schermo che pare resti nero, il suo colore unico e più congeniale.

C.F.

lunedì 28 maggio 2012

Grilli per la testa di un marxista



di Lorenzo Mortara

Per Napolitano, il Presidente della loro Repubblica, non sarà stato un boom, ma per noi l’esplosione del Movimento a 5 Stelle di Grillo, è tanto più significativa quanto più fa da contraltare all’ennesimo fiasco dei partiti della rivoluzione (si salva forse solo il nostro Doino, senza per altro riuscire a portare a casa un solo rappresentante e il becco di un quattrino). Ed è su questo forse che bisognerebbe riflettere, con meno snobismo e più pragmatismo. Sembra invece che ai rivoluzionari interessi solo smascherare i limiti evidenti del grillismo, senza mai chiedersi se questi limiti possano anche essere accettati in una fase storica che ci vede praticamente inesistenti. La mancanza sulla scena del partito della rivoluzione è la mancanza di coscienza delle masse, anche se non per colpa loro ma di chi le ha dirette per più di mezzo secolo. Il Movimento a 5 stelle può quindi apparire come un loro primo risveglio. Valeva dunque la pena attaccarlo frontalmente come ha scelto di fare il Partito Comunista dei Lavoratori? Intendiamoci, il Pcl, negli articoli che ha dedicato al fenomeno Grillo prima delle elezioni – Beppe Grillo e i “sacrifici” la crisi denuda il grillismo; Bersani e Grillo difensori del capitalismo – ha offerto la fotografia più lucida per chi voglia davvero vedere il movimento per quello che è. Ma il fatto che subito dopo il primo turno delle elezioni, lo stesso partito, invece di dedicare almeno un articolo al proprio ennesimo fiasco, abbia preferito dedicarne ancora un altro per smontare alla perfezione La “svalutazione” del Grillo, indica che forse c’è qualche cosa che non quadra: guardare sempre la pagliuzza negli occhi degli altri, senza mai scorgere la trave nei propri, è sintomo di malattia. E la malattia potrebbe essere il settarismo, che viene facile ripudiare quando si ha di fronte compagini più o meno simili, ma non quando si ha di fronte qualcosa di non ben precisato.
Non c’è bisogno, dunque, di mettere ancora a fuoco il grillismo, l’han già fatto egregiamente i compagni del Pcl, c’è forse solo la necessità di alcune doverose precisazioni.



LA CASTA L’ANTIPOLITICA E DE ANDRÉ

Grillo è stato paragonato alla prima Lega, all’uomo qualunque di Giannini, al populismo demagogico, infine è stato etichettato sprezzantemente come il prodotto peggiore dell’antipolitica, da quella stessa politica che del qualunquismo e della demagogia a buon mercato ha fatto la sua unica bandiera. Di conseguenza, sarebbe al massimo l’ultimo dei demagoghi ad aggiungersi alla casta dei qualunquisti. Perché, dunque, quelli che dovrebbero essere i suoi fratelli naturali non lo vogliono e lo temono come la peste quasi più di noi? Perché evidentemente per ora non è omologabile a loro, è cioè molto meno qualunquista e demagogico di quanto siano i parlamentari. E questo dovrebbe essere il primo punto da rimarcare tra le differenze a suo favore.
Per i più teneri con lui, il movimento di Grillo non sarebbe davvero antipolitica ma solo contro questa politica. Per noi le cose sono un po’ più complesse, perché politica ed eventuale antipolitica devono sempre essere ricondotte ad un discorso sociale di interessi classe. Accettare il termine antipolitica per Grillo equivale a sdoganare, per politica, quella degli attuali partiti. Gli è che quella parlamentare non è che non sia politica, è solo che è politica borghese. Essere per l’antipolitica, per le oche dello stagno parlamentare, vuol dire appunto essere contro la politica borghese. In questo senso solo noi marxisti siamo antipolitici, perché la politica proletaria è l’antipolitica borghese per antonomasia. Ma Grillo? Grillo non può essere antipolitica perché nessuna vera e propria antipolitica borghese può essere fatta da una politica piccolo borghese. Ecco tutto, e tuttavia, essere sostanzialmente un movimento piccolo borghese, non mette Grillo sullo stesso piano della Lega. La Lega, infatti, esplose ai tempi di Tangentopoli, ma era rimasta incubata per anni tra gli industriali del Nord. Sebbene sia stata temuta dai partiti della Prima Repubblica, nessun padrone ha mai avuto paura della Lega. In questo sì che la Lega assomiglia al fascismo, che partito come movimento piccolo borghese, arrivato in parlamento fu subito tutto tranne che il potere della piccola borghesia. Anche Grillo al potere non potrà mai essere la piccola borghesia al comando, ma per come è oggi non potrà mai essere nemmeno la borghesia, perché non è un suo sottoprodotto genuino. E questo significa forse che al potere non ci arriverà mai. Sta di fatto che la Lega si mosse fin da subito con violenza, anche se in scala ridotta rispetto al fascismo perché l’epoca tra l’altro non era rivoluzionaria, invece la violenza del movimento a 5 stelle, se c’è, è soltanto una violenza verbale, una violenza per l’appunto comica.
Intervistato su presunte sue simpatie per la Lega in quanto minoranza, De André, disse una volta che lui era per le minoranze, ma non per la Lega in quanto la Lega non era una minoranza o se lo era si muoveva con la stessa arroganza delle maggioranze. E qua per maggioranze De André intendeva le maggioranze di potere. In questa lapidaria disamina del Faber ci sta tutta la differenza che passa tra la Lega e Grillo. La Lega, fin da subito, non ha mai fatto paura ai padroni perché è sempre ruotata attorno a chi il potere (economico) in qualche modo ce l’ha, non attorno a chi lo subisce. E infatti nel giro di poco si alleò con Berlusconi perché la Lega è dei piccoli commercianti, Grillo fa leva più sugli attivisti del volontariato, del mercato equo e solidale eccetera. Il capitalismo piccolo borghese non fa paura ai borghesi, perché è sempre sotto il loro controllo, ma il socialismo piccolo borghese, in tutte le sue varianti, e Grillo come vedremo rientra in una di queste, può sempre sfuggire di mano quando la crisi, facendolo cozzare contro le sue stesse contraddizioni, lo spinge molto più a sinistra di quanto avesse preventivato in partenza.



GRILLO NON HA UN PROGRAMMA?

Così come l’accusano di fare antipolitica solo perché non ha una politica perfettamente borghese, il Movimento 5 Stelle viene bocciato senza appello come movimento politico senza programma, solo perché evidentemente non ha un programma borghese perfettamente rispondente agli interessi del grande capitale. Effettivamente Grillo non ha il programma del grande Capitale ma è un bene che non ce l’abbia. Il fatto invece che non abbia il programma del proletariato, è il suo male e anche il nostro...
Il programma del Movimento 5 Stelle si può scaricare on-line quando si vuole ed è composto da una quindicina di pagine. È già più corposo e profondo delle ridicole 250 paginette unte di Prodi. Gli è che 15 o 250 pagine per noi cambiano poco o niente. Non è da un pezzo di carta che si può stabilire un programma, ma dalla collocazione sociale degli interessi economici di chi lo presenta, sia che lo faccia a parole con vuote ciarle, sia che lo faccia per iscritto con ciarle ancora più vuote ma almeno inchiostrate. Da questo punto di vista, marxista, tutti hanno un programma perché tutti hanno un preciso interesse economico da difendere. Solo i liberali credono che uno si possa presentare senza programma, ma questo significa solo che i liberali di programmi, specie quando presentano il loro come fosse nell’interesse generale, non capiscono niente.
Coloro che hanno letto il programma, non potendolo più accusare di non avercelo, tentano di sminuirlo per la sua mancanza di una parte dedicata alla politica internazionale. Agli occhi ciechi dei gonzi, una politica internazionale fa più serio e maestoso il programma provinciale di chi ce l’ha. Il problema, almeno per chi come noi non è ancora del tutto rincoglionito, non è avere una politica internazionale, ma una buona politica internazionale. E poiché, come abbiamo appena detto, nessuno può non avere un programma, perché nessuno è al di sopra dei rapporti di classe, la politica internazionale di Grillo, anche se non è scritta, viene fuori lo stesso dai suoi discorsi e dalle sue interviste.
Balzato nel giro di un paio di settimane al centro del dibattito politico, Grillo ha dovuto tirare fuori dalle viscere della sua più intima essenza il programma internazionale che ha scordato di inserire nelle 15 paginette ufficiali. Il programma internazionale dei grillini, si riduce in ultima analisi all’uscita dall’euro e al ritorno alla lira in nome delle svalutazioni competitive, in poche parole a una delle innumerevoli varianti del cretinismo liberale. Solo al cretinismo liberale, infatti, sfugge che alla svalutazione competitiva delle esportazioni, corrisponde una simmetrica rivalutazione per nulla competitiva delle importazioni...
Ingenuità a parte di Grillo, simmetricamente a politica ed antipolitica, il problema non è stabilire se Grillo abbia o meno un programma per la politica internazionale, ma chiedersi innanzitutto che politica internazionale abbiano i suoi partiti concorrenti, in primis PD e PDL. PD e PDL, centro destra e centro sinistra della borghesia, una politica internazionale indubbiamente ce l’hanno, peccato che la politica internazionale della borghesia si chiami imperialismo. Perciò, l’uscita dall’euro alla Grillo, in ultima analisi è solo la versione illusoria dell’uscita dall’imperialismo della piccola borghesia. E come programma internazionale, uscire dall’imperialismo, è sempre meglio che restarci, se solo bastasse tornare alla lira per farlo. Purtroppo anche con la lira, la borghesia italiana metteva lo stesso in circolo l’imperialismo. Perché evidentemente, il problema non sta nella forma esteriore di una moneta, ma in quello che rappresenta: il capitale.



GRILLO MARX E PROUDHON

La vera natura sociale del programma di Grillo emerge chiaramente nelle sue proposte economiche. Grillo vuole favorire le società no profit, evitando il trasferimento delle industrie alimentari all’estero; vuol dare ai piccoli azionisti reale rappresentanza nelle società quotate in borsa, cioè farli sentire grandi capitalisti pur restando piccoli e insignificanti; vuol vietare gli incroci azionari tra sistema bancario e sistema industriale, cioè separare l’economia finanziaria dalla così maldetta economia reale; corollario di quest’ultimo punto è vietare le doppie cariche per azionisti di diverse società. In parole povere Grillo vuole un capitalismo nettato dalla corruzione, senza monopoli tutti da abolire, senza stock option e lindo come il culo di un bimbo appena nato. Quello di Grillo è il capitalismo regredito all’infanzia, piccolo e nano come agli albori nell’Ottocento e coi profitti abbassati al livello della media borghesia.
L’unico modo per dare reale rappresentanza ai piccoli azionisti è farli diventare grandi fino a rastrellare tutto il mercato azionario e poter così mangiarsi l’azionista di maggioranza. Altrimenti tra la piccola e grande proprietà azionaria, una sarà sempre veramente proprietaria e l’altra servirà soltanto ad ampliarne la potenza a scapito della sua. Analogamente, si può indubbiamente qua e là rompere un monopolio, ma solo perché dopo si riformi più forte, perché la tendenza al monopolio non è dovuta alla cattiveria del capitalismo ma alla potenza rivoluzionaria del suo sviluppo tecnologico. Anche le chiappe appoggiate su più sedie di diverse aziende, indicano semplicemente lo sviluppo della socializzazione sempre più vasta prodotta dalla cooperazione del modo di produzione capitalistico. Toglierla, lasciando il capitalismo, significherebbe soltanto ritornare alla conocchia per ristabilire la mediocrità in tutto. Grillo, invece, ripristinata la mediocrità economica, scomunicati da ogni carica pubblica i peccatori, diminuito il debito pubblico coi tagli agli sprechi ma senza ovviamente alcuna patrimoniale (quale piccolo borghese la vuole?), si illude che tutto ritorni a posto abolendo il precariato e con un po’ di internet gratuito, di raccolta differenziata, di fotovoltaico e di altre meraviglie del suo mondo piccolo. In realtà così si fa solo andare indietro la ruota della Storia fino a Proudhon e al socialismo piccolo borghese, di cui come abbiamo visto Grillo rappresenta un’ennesima variante. In effetti, proprio come Proudhon, Grillo oscilla continuamente tra destra e sinistra, tra progresso e reazione. È in quest’ottica che vanno perciò giudicate le pieghe più nascoste e lugubri del suo programma, ovvero le tendenze razziste. Non devono stupire più di tanto, sono appunto l’espressione contraddittoria della sua ibrida natura di piccolo borghese. Perché scandalizzarsi? Bocciarlo solo per le sue sparate contro l’immigrazione è come voltare le spalle al movimento operaio solo perché anche le fabbriche sono piene di razzismo. Beppe Grillo non è il primo a oscillare tra progresso e reazione. Forse che Proudhon, ai suoi tempi, non si scagliò contro il diritto di coalizione? Non giustificò la fucilazione di operai in sciopero? E tuttavia fu anche uno dei primi a dire in modo chiaro e tondo che la proprietà privata era un furto. Come Proudhon, Grillo vuole i Rom a casa loro, versione politica e geografica dei dazi economici, ma vuole anche l’abolizione di tutte le leggi sul precariato, e se arrivasse al potere, sempre che non sia fermato da un colpo di Stato, le abolirebbe senz’altro, facendo la cosa più di sinistra degli ultimi 20 anni. Non solo, l’abolizione del precariato, potrebbe spingere, sull’onda dell’entusiasmo delle masse, molto più a sinistra i grillini di quanto preventivato al momento di partenza. Perché i marxisti non devono mai dimenticare che, specie per le formazioni ibride, più del loro programma conta la dinamica degli eventi che contribuiscono ad innescare.



TRA FANTASCIENZA E REALTÀ: CONCLUSIONI

Se si osservassero le cose su scala internazionale, sarebbe più facile collocare il Movimento 5 Stelle nel panorama dell’attuale politica italiana. Purtroppo lo snobismo fa prendere cantonate e buttare nella spazzatura i primi germi di qualcosa che sta nascendo. Abbiamo appena visto come Grillo abbia notevoli punti di contatto con Proudhon, come del resto ce l’ha un po’ tutto il mercato equo e solidale nel quale si reclutano molti dei suoi attivisti. Eppure le radici del grillismo vengono fatte risalire, dalla superficialità imperante, alla demagogia e al populismo. Niente di più fuorviante. In realtà, proprio la somiglianza con alcuni lati del vecchio Proudhon, mette Grillo nel calderone vasto dello spontaneismo anarcoide. Grillo non si richiama espressamente all’anarchia e certamente non ha nulla a che fare con la teoria anarchica, ma i tratti dello spontaneismo ce li ha tutti. E non dovrebbe stupire. Tutto il mondo è attraversato da movimenti spontanei. Dagli Indignados al movimento Occupy, è tutto un brulicare di gente che scende in piazza e si muove al grido di “basta con i partiti e la politica”. Questi movimenti hanno tutti i tratti tipici del primitivismo anarcoide: democrazia paritaria e assolutamente orizzontale, contraddittorio rifiuto della forma partito e cioè dell’organizzazione e perciò rifiuto di leader. Grillo non fa eccezione col suo Movimento 5 Stelle che abolisce i partiti senza accorgersi di farlo attraverso un nuovo partito, che è tale quantunque si rifiuti di chiamarsi Partito!
Ai tratti della classica rivolta anarcoide, gli attuali movimenti hanno anche aggiunto una novità: internet. La rete ha giocato un ruolo non trascurabile nel collegare gli attuali protagonisti delle proteste. E anche il grillismo è un prodotto uscito dalla rete. In ultima analisi, il Movimento 5 Stelle è la forma che ha preso in Italia la protesta spontanea sparsa per il mondo. Negli Usa Occupy, in Spagna gli Indignados e in Italia i grillini. Le tante facce di un’unica medaglia, con l’unica differenza che l’ingrediente Beppe Grillo, solo leader carismatico dietro le quinte di tali movimenti, ha consentito agli spontaneisti italiani di essere già più avanti rispetto ai loro omologhi internazionali e di avere un primo sbocco politico. E questo significa che poiché i grillini sono in una fase più avanzata di maturazione rispetto ad altri spontaneisti, il bolscevismo italiano, dovunque si annidi, è il più arretrato di tutti rispetto alla dinamica degli eventi. Nessuno più dei marxisti italiani rischia di perdere un’altra volta il treno se insiste a non presentarsi mai alle varie stazioni attraversate dalla protesta.
I grillini hanno già superato il loro primo stadio infantile e si apprestano ad entrare in Parlamento. Difficilmente si integreranno nel sistema proprio perché il loro carattere anarcoide non lo permette. Più probabilmente si dissolveranno da soli come tutti i movimenti anarcoidi. Ma questo dipende anche da noi, perché lo spontaneismo è pur sempre bolscevismo in potenza. Ed è compito dei marxisti provare a tirarlo fuori dai primi semi della protesta che sbocciano. Se però i comunisti fanno gli schizzinosi, e invece di avvicinarsi al movimento per provare a influenzare i possibili grillini permeabili al marxismo, ne restano a distanza di tiro per sparare contro tutti i suoi limiti, dimostrano ancora una volta, più o meno come negli ultimi 50 anni, di non avere alcuna sensibilità tattica. Di questa insensibilità storica, ha offerto la miglior espressione il PCL che dopo i due articoli già citati, il 22 Maggio ha rincarato la dose con Movimento Operaio o Grillismo. Dopo aver sottolineato ancora una volta le oscillazioni dei grillini e le prime lusinghe dei padroni (e quali padroni non fanno almeno un tentativo di comprare chi non riescono a sottomettere subito?), il PCL se ne esce con queste parole: «Il Partito Comunista dei Lavoratori, da sempre all’opposizione delle classi dirigenti e dei loro partiti, sarà all’opposizione della giunta Grillina di Parma». Nella sua testa e nei comunicati, certamente il PCL sarà all’opposizione, ma fuori dalla sua realtà virtuale, il PCL non sarà né al governo né all’opposizione per la semplice ragione che a Parma come in ogni altro luogo, anche se a malincuore, il PCL non esiste. Che opposizione può fare il PCL se non un’opposizione fantasma? È proprio il fatto che il PCL sia un partito impalpabile, come attualmente ogni partito della rivoluzione, che dovrebbe far riflettere sull’insensatezza di schierarsi immediatamente contro al primo germe, per quanto confuso, di alternativa.
A Milano, dopo il primo turno, il PCL sostenne correttamente l’appoggio tattico e critico a Pisapia. Per quale motivo non si è fatta la stessa cosa con i grillini? Sarà mica perché non hanno almeno l’etichetta di centro sinistra? Eppure sono molto più a sinistra del centro-sinistra che è a destra! Certo, il destino della piccola borghesia è quella di andare a rimorchio o del grande capitale o del proletariato. Lei non può governare. Ma il proletariato per trascinarsela dietro deve avere la forza di farlo. Se questa forza per ora non ce l’ha, forse per dirla con Lenin deve, in attesa di crescere, deviare dal cammino, temporeggiare e stipulare un compromesso, magari proprio con lei. Ergersi contro il grillismo anziché proporre un fronte comune “anticasta” relegherà ancora più ai margini i partiti rivoluzionari. In sintesi, l’opposizione frontale a un movimento per ora estraneo ai poteri forti, li farà apparire indifferenti alla lotta contro di loro.
Naturalmente l’offerta di collaborazione, tenuto conto delle zucche dei grillini, è probabile che venga restituita al mittente. Gli anarcoidi sono contro il partitismo, ma se scendono in campo lo fanno quasi sempre da soli perché è l’unico modo per sentirsi a posto con le obiezioni di coscienza mosse dalle loro stesse contraddizioni. Contro la forma partito, i grillini, già faranno fatica ad accettare di esserlo, figuriamoci se potranno tollerare coalizioni. Se però i grillini daranno a noi il gran rifiuto, in questo caso noi avremo almeno ottenuto di fare pienamente il nostro dovere, non solo dal punto di vista strategico ma anche e finalmente da quello tattico.
Dal Movimento 5 Stelle non uscirà la rivoluzione, ma qualche riforma come l’abolizione della Legge Treu-Biagi, potrebbe anche darsi. Ed è proprio per questo che, stante la debolezza del partito rivoluzionario, nel lungo tragitto che ancora lo aspetta prima di uscire dal tunnel, forse è ora che gli eroi della lotta di classe senza se e senza ma, capiscano che, pur nella completa autonomia critica, qualche notte di sosta all’Hotel 5 Stelle ci può anche e ci deve stare.


Lorenzo Mortara
Delegato Fiom-Cgil
Stazione dei Celti
28 Maggio 2012

domenica 27 maggio 2012

ARMI DELLA CRITICA E CRITICA ALLE ARMI di Massimo Varengo

ARMI DELLA CRITICA E CRITICA ALLE ARMI
di Massimo Varengo
“Quando si sta portando una rivoluzione per la liberazione dell’umanità, bisogna avere rispetto della vita di ogni uomo e di ogni donna… Il terrorismo viola la libertà degli individui e perciò non può essere utilizzato per costruire una società anarchica”.
Michail Bakunin



L’immediata gestione mediatica del mostruoso attentato di Brindisi la dice lunga su quali sono le intenzioni dell’oligarchia al potere. Un atto vile, di terrorismo indiscriminato, in stile iracheno, contro delle giovani donne, antisociale e criminale, viene tranquillamente assimilato ad episodi di lotta armata, magari con origini greche, con contorno mafioso, con l’obiettivo palese della realizzazione dell’unità di tutti gli schieramenti in difesa dello Stato, un’unità che abbiamo visto all’opera negli anni della solidarietà nazionale, delle leggi speciali, dell’arretramento sociale e culturale del paese.
Ma segnali di questo modus operandi li avevamo già registrati nei giorni precedenti.
In un ufficio dell’Ansaldo Energia è apparsa una scritta, piccola piccola, dieci centimetri in tutto, a matita pare, con una minaccia di morte al presidente di Finmeccanica, Orsi. Accompagnata da una stella a cinque punte e la sigla B.R. Basta questo evidente sfogo di un impiegato incazzato contro i suoi capi, per alimentare la canea mediatica sul pericolo terrorista.
Se si andasse in qualsiasi cesso a rilevare scritte, per i pennivendoli ce ne sarebbe del materiale da campare per anni.
Vale lo stesso per il volantino fatto recapitare a “Calabria Ora”, una ridicola ed evidente falsificazione, probabilmente opera di un altrettanto incazzato contribuente nei confronti di Equitalia, ma utile per dare fiato alle trombe sul pericolo terrorista.
E che dire del drappo rossonero appeso alla lapide che in piazza Fontana, a Milano, ricorda l’assassinio del compagno Pinelli: secondo l’intrepido giornalista, rappresenterebbe una sfida in quanto sarebbe stato applicato proprio nell’anniversario dell’omicidio del commissario Calabresi. Peccato che quel drappo fosse lì dal Primo maggio, messo da qualche compagno o compagna al termine della manifestazione.
C’è da essere sicuri che ogni scritta, vecchia o nuova che sia, ogni sia pur piccola iniziativa anarchica, nei prossimi giorni godrà della massima attenzione mediatica: è chiaro che c’è chi vuole dimostrare l’esistenza di una forte minaccia anarchica, ovviamente violenta e terroristica, al bengodi che stiamo vivendo. E molti altri gli vanno a ruota.


Nelle crisi sono sempre ricercati dei capri espiatori, su cui indirizzare l’attenzione della cosiddetta pubblica opinione. Come sono riusciti negli anni ’80 a svuotare di segno e di contenuto la ricchezza dei movimenti del decennio precedente, rovesciandogli addosso, a tutti ed indistintamente, la responsabilità del lottarmatismo, facendo di ogni erba un fascio, comminando carcere a pioggia, provocando divisioni e contrapposizioni, così oggi c’è chi intende rispolverare i vecchi arnesi della criminalizzazione preventiva. 
D’altronde la situazione per “lor signori” non è facile, devono far digerire misure sempre più indigeste e la paura di una ribellione sociale cresce in loro, anche più preoccupante perché si allarga in prospettiva a settori sociali tradizionalmente moderati (l’artigiano, il trasportatore, il piccolo imprenditore che prende il fucile, ecc.), aprendo un nuovo terreno di scontro – quello fiscale – che mai era stato appannaggio dei movimenti di contestazione radicale.
La voracità delle banche e delle oligarchie al potere non lascia grande spazio a politiche di crescita e la crisi dei derivati è lungi dall’essere risolta. La politica mascherata da tecnica amministrativa deve dar prova della sua capacità di governo, ricorrendo magari a soluzioni progressivamente autoritarie, come quelle che ci sta facendo digerire da tempo. 
D’altronde se un autentico liberale come Piero Ostellino sul “Corriere della Sera” si permette di bollare il governo Monti/Napolitano di “salazarismo”, richiamando alla memoria il regime tecnocrate e conservatore che dominò il Portogallo per 50 anni, cosa dovremmo dire noi che verifichiamo ogni giorno sulla nostra pelle la riduzione degli spazi di espressione e di agibilità, di effettiva libertà di organizzazione e di azione?
Ovviamente anche l’attentato al dirigente dell’Ansaldo Nucleare è stato colto al volo per rilanciare, dopo le varie informative dei servizi segreti sul pericolo “anarco-insurrezionalista”, l’incombenza della minaccia terroristica di matrice anarchica, collegandolo al malcontento sociale crescente, al movimento NoTav e a chi più ne ha più ne metta. Un’operazione ardita questa perché ci vorrebbe qualcosa di più sostanzioso per potere collegare il terrorismo all’insofferenza sociale e al diffuso sentimento anti partitico, depotenziandone così i possibili sbocchi conflittuali e criminalizzando preventivamente ogni capacità di risposta popolare. Se poi si vuol collegare direttamente la rivendicazione del nucleo Olga ai movimenti sociali, basterebbe l’affermazione fatta dallo stesso “di non ricercare il consenso” per troncare sul nascere la discussione.
Ma temo che questo non basti per smontare il tentativo di sviluppare nell’immaginario collettivo del paese una legittimizzazione di una politica oppressiva in nome della difesa dal terrorismo.

Se l’operazione in corso è questa, è evidente che bisogna aspettarsi di più e di peggio.
In una situazione dove l’aggressione al livello di vita della popolazione si sta intensificando, soprattutto nel settore del lavoro dipendente, del precariato, del piccolo artigianato e commercio, e dove si avrebbe bisogno di tutta la mobilitazione, di tutta l’intelligenza e della capacità collettiva per organizzare risposte incisive, promuovere lotte, sviluppare iniziative di solidarietà sociale, dare ossigeno alle forme autogestionarie di risposta concreta alla crisi, appare inevitabile doversi misurare con chi pensa che un gruppo, un’organizzazione, dura, combattente, clandestina, possa ottenere risultati efficaci, con chi pensa di avere la risposta in tasca. Come il gruppo che ha firmato l’attentato al dirigente di Ansaldo Nucleare rivendicando la sua appartenenza alla federazione anarchica informale. Soprattutto se l’enfasi mediatica con il quale vengono riportate le “loro” imprese è funzionale al coinvolgimento di tutto il movimento anarchico in un processo di criminalizzazione generale, avente per perno la lotta al terrorismo.
A questo proposito la Federazione Anarchica Italiana ha da tempo denunciato l’uso infame e strumentale del proprio acronimo (FAI) per propagandare le azioni e le prese di posizioni del cosiddetto “anarchismo informale”. Uso che non solo tende a confondere deliberatamente le acque, ma che è rivelatore di una mentalità di tipo egemonico, autoritario, tendente a sovrapporsi all’esistente non con un libero confronto di idee e di proposte, tipico della metodologia anarchica, ma con l’appropriarsi – questo si molto formale – di una sigla caratteristica di altri.
Mentalità autoritaria ed egemonica che si manifesta, tra l’altro con la distribuzione a destra e a manca, di insulti e di giudizi, in merito a coraggio, paura, vigliaccheria, cinismo, ecc. ecc. così come si ricava dalla lettura della rivendicazione. Contrariamente a quanto affermiamo nel nostro patto associativo, il patto che abbiamo sottoscritto per definire le nostre relazioni all’interno della FAI, e cioè che “la FAI non pretende ad alcun monopolio dell’anarchismo”, dovremmo subire giudizi sprezzanti, predicozzi manichei, a nome di un neo-anarchismo che pretende il monopolio dell’idea erigendosi a giudice, prete e boia. È francamente un po’ troppo.
Per quanto riguarda l’azione di Genova l’anarchismo organizzato nell’Internazionale ha dato da tempo una risposta all’avanguardismo armato, confutandone ragioni e metodi.
Se concordiamo con la definizione che i dizionari danno della parola violenza (“Coazione fisica o morale esercitata da un soggetto su di un altro così da indurlo a compiere atti che non avrebbe compiuto”, Zingarelli) non possiamo che classificare la violenza all’interno degli strumenti dell’autoritarismo.
Ed è per questo che nessun anarchico ritiene possibile elevare a sistema la violenza o concepirla come la levatrice del processo rivoluzionario. Tuttalpiù l’atto violento può essere inteso come una penosa necessità per contrastare la violenza, grande e generalizzata dello Stato e del sistema capitalistico. Per gli anarchici è evidente che l’atto violento in sé, in quanto atto autoritario, sostanzia un potere, e se eretto a sistema, rigenera lo Stato.
L’anarchismo si è sempre basato sulla consapevolezza nello scegliersi azioni ed obiettivi, e sulla responsabilità personale nel perseguirle, per cui se rifiuta da un lato di sposare tesi violentiste, dall’altro rifugge da impostazioni piattamente non violente; piuttosto esso rimanda sempre alla coscienza degli individui e alla interpretazione del momento storico in cui essi vivono.
L’efficacia dell’azione diretta non viene espressa dal grado di violenza in essa contenuta, quanto piuttosto dalla capacità di indicare una strada praticabile da tutti, di costruire una forza collettiva in grado di ridurre la violenza al minimo livello possibile all’interno del processo di trasformazione rivoluzionaria. Ed in questa ricerca il “piacere” dell’arma rappresenta un ostacolo insormontabile.
Con buona pace dei Nečaev di turno.


 

sabato 26 maggio 2012

LA TERZA REPUBBLICA IN SALSA MONTEZEMOLIANA E LE SFIDE DELLA SINISTRA di Riccardo Achilli



LA TERZA REPUBBLICA IN SALSA MONTEZEMOLIANA E LE SFIDE DELLA SINISTRA

di Riccardo Achilli



La sempre più probabile discesa in campo di Montezemolo, di fatto annunciata due giorni fa sul Corriere della Sera, spariglierà le carte della politica italiana in modo netto. Si tratterebbe infatti di un vero e proprio salto di qualità di ciò che resta dell'industria italiana, che decide di rompere il tradizionale diaframma con la politica, nel quale gli imprenditori si sono sinora affidati a politici a loro vicini per curare i loro interessi. In questo caso, la sfiducia totale nei confronti della classe politica indurrebbe la borghesia industriale italiana a mettere direttamente i piedi in politica, anziché affidarsi alla sua intermediazione.Ed il discorso di inizio mandato di Squinzi, insolitamente aggressivo rispetto ai passati discorsi di insediamento dei Presidenti di Confindustria, sembra lasciar presagire tale scenario di ingresso a gamba tesa e piedi uniti della borghesia industriale nelal politica nazionale.
Una simile scelta sarebbe una rottura netta negli equilibri sociali ed in quelli politici. Dal punto di vista sociale, romperebbe il blocco borghese di potere, sostanzialmente rimasto intatto nel passaggio fra prima e seconda repubblica, con l'alleanza Berlusconi-Bossi-Fini che si è incaricata di preservare l'alleanza fra piccola borghesia produttiva, semi-classi impiegatizie e grande borghesia, cementatasi nel corso della prima repubblica all'interno delle forze del pentapartito.
L'ingresso di Montezemolo segnerebbe la cesura di tale patto sociale: egli infatti è un uomo della Fiat, quindi della grande industria, che sostiene politiche iper liberiste e di recupero, anche con metodi semi-terroristici, dell'evasione fiscale annidata nella pancia di una piccola borghesia che si trova oramai al di sotto della soglia di sopravvivenza, e che viene spinta letteralmente ad un suicidio di massa dalle politiche del Governo Monti.

Niente di nuovo sotto il sole: Marx infatti ci avverte che, nelle fasi di crisi strutturale, la piccola borghesia si proletarizza. Per tutti gli ignoranti in mala fede che pensano di mettere in cantina Marx, vorrei riportare questo passo del Manifesto, assolutamente attualissimo nel leggere le dinamiche recenti fra grande e piccola borghesia:

"Quelli che furono finora i piccoli ceti intermedi, i piccoli industriali, i negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta all'esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi capitalisti più grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto coi nuovi modi di produzione".

Dunque, lo sviluppo stesso del capitalismo (sviluppo che passa irrimediabilmente attraverso fasi cicliche di crisi, che servono anche per distruggere gli assetti sociali oramai obsoleti per le esigenze dell'accumulazione, e per costruirne di nuovi, più funzionali alle stesse) taglia il cordone ombelicale fra grande e piccola borghesia, gettando quest'ultima nel proletariato.
Tutto ciò avrà inevitabilmente una conseguenza enorme sugli assetti politici. Probabilmente, come la discesa in campo di Berlusconi segnò la funesta nascita della più che mediocre seconda repubblica, quella di Montezemolo sarà il segnale del sorgere della terza. Egli ha dichiarato che non farà alcuna "alleanza gattopardesca". Si presenterà da solo, ingoiando i resti del terzo polo, ovvero del progetto di Casini miseramente fallito, ed attirando i voti di destra in uscita dal Pdl, oramai in via di dismissione. Ed attirando anche i voti "moderati" che sono transitati nel PD tramite la ex Margherita, e che oggi non trovano un collocamento soddisfacente in un partito, come quello di Bersani, eternamente in dubbio su cosa farà da grande, e per di più colpito da uno scandalo (lo scandalo-Lusi) che colpisce in modo particolare proprio la componente "moderata" della ex Margherita.

Certamente, a questo blocco elettorale Montezemolo riproporrà un nuovo "blocco sociale", cioè una nuova alleanza fra piccola e grande borghesia. Ancora seguendo Marx, "la piccola borghesia oscilla fra il proletariato e la borghesia e si viene sempre ricostituendo come parte integrante della società borghese " (Il Manifesto). Però l'alleanza sarà riproposta su basi completamente diverse, molto più penalizzanti per la piccola borghesia, rispetto a quelle garantite dal centro-destra della seconda repubblica. Niente più tolleranza berlusconiana per il piccolo imprenditore o il commerciante che evade le tasse; niente più Stato-mamma che consente a coorti di piccoli imprenditori e liberi professionisti di sopravvivere tramite la manna degli appalti, delle consulenze pubbliche, delle gare pubbliche per acquisti di beni e servizi, degli incentivi pubblici a pioggia sulle PMI, che (p. es. tramite la legge 488/92) ne finanziava a migliaia ad ogni bando, perché il programma montezemoliano si incentra su tre perni: tagliare la spesa pubblica, recuperare gettito fiscale e privatizzare tutto, assolutamente tutto, riducendo la P.A. ad uno scheletro imbiancato. Ai singoli membri della piccola borghesia verrà offerta soltanto l'opzione di conquistarsi uno spazio individuale di crescita, "con la meritocrazia"  (parola che suona strana nella bocca di un uomo, come Montezemolo, che proviene da una antica e ricchissima casata nobiliare, che gli ha spianato la strada verso studi prestigiosi e verso una carriera brillantissima, nonostante il fatto che la sua biografia ci segnala come il giovin Montezemolo sia stato tutt'altro che uno studente-modello, e, per dirla tutta, uno scapestrato che, in una famiglia operaia, sarebbe diventato, forse, un drop-out). In pratica, la piccola borghesia passerà da una condizione di semi-assistenzialismo pubblico ad una in cui la sopravvivenza sarà una questione di dura competizione darwiniana.

E a sinistra?
Potrebbero verificarsi almeno due scenari.
Il PD, privato di gran parte del suo elettorato centrista (ed anche, forse, di parte della sua dirigenza ex margheritina) dall'ingresso in campo dei montezemoliani, regredendo a poco più di quelli che erano i vecchi Ds, potrebbe forse basculare a sinistra, recuperando una linea socialdemocratica, e quindi andare a costituire, con SEL, Idv e forse la FED, un blocco socialdemocratico antagonista a Montezemolo. Ma io penso che tale scenario sia estremamente improbabile. Sono infatti più di 22 anni che la dirigenza ex Pds ed ex Ds cerca disperatamente di accreditarsi nei salotti buoni della borghesia finanziaria ed industriale italiana, tanto da aver creato, con i think tank di D'alema ed Amato, e con Scalfari, De Benedetti e quindi Repubblica, un vero e proprio movimento culturale e politico legato solidamente ad un riformismo debole e liberale, che chiede i voti alla componente per così dire "illuminata" delle mezze classi impiegatizie (specie nel comparto del lavoro pubblico, nelle università e fra gli intellettuali).

Personalmente, non credo proprio che D'Alema, Fassino, Bersani, Veltroni, Letta Enrico, Bindi, Scalfari e compagnia cantante si accomoderanno in una posizione socialdemocratica e progressista. Dovrebbero rinunciare al loro sogno di stare con i piedi dentro i felpati salotti "che contano". Per un simile scenario, occorrerebbe che vi fosse un radicale cambiamento della classe dirigente, e non solo del PD, ma anche dei partiti alleati, ma francamente: ci sono oggi giovani leve in grado di rilevare la classe dirigente e portare il PD a sinistra? Chi sono oggi le giovani leve del PD? Matteo Renzi o la Serracchiani? Ma per carità di Dio, preferisco tenermi D'Alema per i prossimi cinquant'anni; in fondo, perlomeno, mi è stranamente simpatico (e di questo probabilmente dovrei parlare con uno psichiatra) e gli riconosco una cultura politica.

Lo scenario più probabile è a mio avviso il secondo: che il PD entri nell'area di gravitazione dei montezemoliani, e che, per quanto in fase di campagna elettorale Montezemolo non si allei con il PD, finisca poi per farci un Governo di coalizione dopo il voto. Ciò consentirebbe al PD di evitare dolorose fratture, di conservare il suo elettorato centrista, e di cercare di tenere anche il suo elettorato di sinistra, ubriacandolo con la favoletta che Montezemolo va già raccontando, secondo cui non esiste più la sinistra o la destra, ma solo i riformisti, cui lui appartiene, ed i conservatori (cui appartiene la vera sinistra storica, che infatti vuole conservare una vita decorosa per i lavoratori e i pensionati). In questo modo, partecipando ad un Governo di "riformisti", il PD potrebbe replicare la fortunata illusione veltroniana del "riformismo" come presunta evoluzione storica della sinistra. Illusione che, non dimentichiamolo, ha fruttato al PD il più alto risultato elettorale della sua storia (il 33,4% conquistato nel 2008).
Si creerebbe quindi un panorama politico di questo genere: una destra xenofoba, statalista e con venature di fascismo sociale, composta da Storace, dagli ex AN non confluiti con Fini, e dai resti dei berluscones; un centro composto dai montezemoliani, che avrebbero cannibalizzato i voti del terzo polo e di gran parte del Pdl, e dal PD; ed alcune "schegge" individuali, come il M5S oppure una Lega tornata (ammesso che rimarrà in Parlamento) alla sua vocazione di partito di lotta. E la SEL, e l'Idv, e la FED? Molto probabilmente alcuni di loro (forse non tutti, conservo qualche traccia di ottimismo circa l'onestà e la coerenza di alcuni) sgomiterebbero a più non posso per entrare in coalizione con il PD e Montezemolo, rischiando grosso, però, di sentirsi rispondere "no, grazie, non ci servite". A quel punto, SEL, Idv e FED sarebbero costrette a fare...ciò che Ferrero ha proposto di fare, ma Vendola ha rifiutato, e che De Magistris propose qualche anno fa, ma Di Pietro rifiutò, ovvero un processo unitario a sinistra del PD. Ma costituire una unità a sinistra prima che tale secondo scenario si configuri, e costituirla dopo che tale scenario si sia verificato, non sono la stessa cosa. Nel secondo caso, infatti, tale processo non sarebbe visto dagli elettori come una nuova proposta di cambiamento della politica italiana, ma come una mera reazione difensiva al rischio di estinguersi da parte di partiti messi alla porta dall'aleanza di Governo Montezemolo-PD. E naturalmente il "premio" elettorale di una operazione vista come mera esigenza di sopravvivenza sarebbe molto modesto.Tra l'altro, nel frattempo, vi sarebbe anche il rischio che il progressivo consolidamento elettorale e politico di Grillo privi tale operazione unitaria di molti voti potenzialmente di sinistra.

La storia ci insegna una cosa: è nei momenti di transizione che occorre gettare il cuore oltre l'ostacolo a fare le grandi scelte, non dopo che la transizione è passata e si è costituito un nuovo equilibrio. Perché in questo caso non ci sono più spazi di manovra. Adesso, che Montezemolo scenda in campo o meno, siamo comunque in un momento di transizione. E' adesso che occorre avere coraggio, uscire da tattiche elettoralistiche o di coalizione assurde, tipo "foto di Vasto sì, foto di Vasto no", oppure "è progressista o no un'alleanza con questo piuttosto che con quello?" (perché in una fase di transizione, molto instabile, tali tattiche sono costruite sulla sabbia) e proporre qualcosa di nuovo. E se non ci sono interlocutori disposti a farlo insieme, questo è il momento di provare a proporre in autonomia, al Paese, un programma socialista e radicalmente antiliberista. Avere il coraggio di andare da soli, se non si riesce a costruire la compagnia (che è comunque l'opzione da preferire, poiché l'unità a sinistra è sempre la cosa migliore da fare).
Dopo, quando si saranno cristallizzati nuovi equilibri e non ci saranno più gli stessi spazi di manovra di oggi, non ci sarà più tempo. Ci sarà solo il tempo di piangere per il rimorso di non essersi mossi, per il Sol dell'Avvenire che è tramontato. E dobbiamo perlomeno ai nostri figli il tentativo di evitare che ciò avvenga.

mercoledì 23 maggio 2012

IL SALTO IN LUNGO DEL GRILLO PARLANTE, di Norberto Fragiacomo


Alla pari di quello europeo (vedi Grecia, più che Germania o Francia, è non è un caso), il panorama politico italiano sta mutando ad una velocità che stordisce, e il solo Bersani, gioendo per vittorie e “non vittorie”, pare non volersene accorgere.

Il tempo non si computa più in mesi, ma in settimane: due sono quelle che separano il primo turno delle elezioni amministrative da un ballottaggio che, a sorpresa, rimescola selvaggiamente le carte.

Colpiscono il crollo dell’affluenza alle urne (dal 65% a poco più del 50, con “punte” del 39 a Genova) e l’exploit del Movimento Cinque Stelle, che in quindici giorni passa da sfidante a forza di governo.

La conquista, a inizio maggio, del primo sindaco in terra leghista ed il buon risultato di Genova non sono stati che l’antipasto del grasso banchetto emiliano: il trionfo di Pizzarotti in una città dell’importanza di Parma – con oltre il 60% di preferenze e contro un centrosinistra non coinvolto nella precedente, catastrofica gestione – rappresenta, per i “grillini”, il classico giro di boa, e suona, per partiti vecchi e nuovi, come una lugubre campana a morto.

Voto di protesta? Certo non di incoraggiamento a PD e PDL (disfatto), per non parlare della Lega (annichilita); ma se di protesta si tratta, non è detto che duri un giorno, perché ad essa si affianca un anelito di speranza facilmente percepibile… quasi una preghiera laica, sussurrata tra le macerie. Pizzarotti e i suoi colleghi sono oggettivamente “nuovi”, non compromessi con i poteri locali né con un esecutivo che ne serve altri, ben più minacciosi: “sparigliano” parlando di ambiente, democrazia diretta (attraverso la rete), competenza e curricula.

Sfruttano le devastazioni prodotte dalla crisi, che ha messo a nudo le vergogne, il servilismo e l’inettitudine dei politici; giovani e “senza storia”, si rivolgono all’elettore da pari a pari – in più, possono contare su un apripista straordinario: Beppe Grillo. Non siamo tra i suoi adoratori: ci infastidiscono il suo giocare su due tavoli (mai visto uno che si fa pagare per tenere un comizio, e quando viene attaccato per certe esternazioni sopra le righe guaisce: “ma io sono un comico, mica un politico!”), la distanza infinita tra dichiarazioni pubbliche e comportamenti privati, il qualunquismo urlato che spesso sovrasta proposte accettabili. Nel bene e nel male, Grillo è un arcitaliano, furbo, talentuoso e ondivago.

Però c’è riuscito: ha creato un mix vincente, in cui la c.d. gente si riconosce. Non è impresa da poco: il favore delle circostanze agevola il cammino, non costruisce la strada.

Ora per i 5 stelle arriva la prova del nove: specie nei momenti drammatici, la critica distruttiva affascina, ma riedificare una società con pochissime risorse è impresa al limite dell’impossibile.

Reggere un comune è oggi, infatti, più difficile che mai (v. patto di stabilità e tagli a ripetizione), ma specialmente sembra mancare, al movimento di Grillo, una chiara consapevolezza di ciò che gli succede intorno: schernire i politicanti corrotti è legittimo, ma ritenere che siano loro gli unici responsabili dell’odierno sfacelo è sintomo di ubriachezza da propaganda (propria e soprattutto altrui). Berlusconi è invotabile da sempre, e la politica italiana è piena di Lusi e Belsito – ma non sono state le loro cattive azioni, le loro omissioni a dar vita alla tempesta perfetta. I Nettuno della finanza stanno all’omino di Arcore come il Satana dantesco al gattone Behemot.

Matureranno in fretta, i “grillini”, o le aspettative verranno per l’ennesima volta tradite? Staremo a vedere – e non solamente a Parma -, ma è lecito dubitare del fatto che il Movimento 5 Stelle (ed il suo scialbo gemello, i Piraten tedeschi) abbia in tasca la ricetta per sfuggire ad una crisi di cui incolpa il maggiordomo sbagliato, e che somiglia ogni giorno di più a un noir; in ogni caso, i grillini hanno ancora ampi margini di crescita, perché sono visti (non del tutto a torto, sia chiaro) dalla popolazione come l’unica alternativa ad un sistema incancrenito e senza bussola, dove destra, sinistra e centro sono nomi appiccicati su un nulla impotente, disonesto e costoso. Che poi nel mucchio finiscano anche partiti e dirigenti seri fa parte del gioco, ed anzi, l’ambiguità è pienamente voluta: Grillo sa benissimo che i suoi concorrenti potenziali sono proprio i piccoli movimenti (di sinistra, aggiungiamo per amor di chiarezza) che dallo smottamento politico potrebbero trarre profitto.

In effetti, i soggetti “progressisti” – tra le quali non va annoverato, per forza di cose, il PD montiano - stanno perdendo la loro ultima occasione, e il risultato elettorale lo dimostra.

Se SeL, FdS e (magari) un PSI degno della sua storia avessero unito le risorse, mettendo sul piatto i problemi veri e proponendo una bozza di soluzione, forse – dico forse – sarebbero stati in grado di riempire il vuoto postberlusconiano, e di scrivere perlomeno la premessa di un futuro meno fosco.

Così non è stato: si continua a navigare a vista, anche se la manifestazione romana del 12 maggio – organizzata dalla FdS, e che ha visto la partecipazione di esponenti non settari di SeL, quali Alfonso Gianni e la Santarelli – può essere indicata, non senza ottimismo, come un punticino di (ri)partenza.



 

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