UNA STORIA IN TRE ATTI
(dal finale aperto)
(dal finale aperto)
di
Norberto
Fragiacomo
Lo
scambio di idee con compagni – o, più in generale, persone –
stimolanti è sempre fecondo, poiché invoglia alla riflessione su
argomenti che inevitabilmente restano in ombra, superati da
un’esistenza che va a passo di carica, trascinandoci non si sa bene
dove né perché.
Rispuntano
allora, dai polverosi cassetti della memoria, reminiscenze delle ore
scolastiche, spunti offerti da lezioni di storia o filosofia che di
rado apprezzammo appieno: lo sapeva bene Rimbaud che non
si è mai troppo seri a diciassette anni (e
quando sono in fiore i tigli del viale).
Georg Wilhelm Friedrich Hegel: cosa mi viene in mente quando,
impappinandomi, pronuncio nomi e cognome? La targa commemorativa
sulla facciata di un palazzo della fascinosa Bamberga –
l’impressione, nata sui libri, di un sistema filosofico troppo
perfetto, troppo teutonicamente razionale per aspirare ad essere
anche reale.
Hegel
non è davvero un Carneade: è la figura cardine dell’Idealismo
tedesco e a lui dobbiamo una radicale riforma dello strumento
dialettico ereditato dal precursore Johann Gottlieb Fichte (che
recentemente ho provato a leggere, arrendendomi ben presto a
caratteri tipografici lillipuziani e, confesso, a periodi lunghi,
contorti e scoraggianti). La sua influenza sul successivo sviluppo
della filosofia non solo germanica mi appare decisiva, se non altro
perché Marx e Feuerbach hanno “appreso a pensare” proprio da
Hegel, che riordina il caos fino a donargli l’aspetto di una
coerente, neoclassica opera d’arte. Karl Marx mette il suo maestro
a testa in giù, costringendolo ad affondare nel terreno, ma per
cambiare il mondo (per provare a farlo) si serve degli attrezzi
fornitigli dallo stimato accademico. La dialettica, anzitutto: quella
di Fichte può essere descritta come una freccia scagliata in
direzione dell’infinito, visto che ad ogni tesi si contrappone
un’antitesi che la nega, destinata a sua volta a venir negata. L’Io
fichtiano che, lasciandomi raggirare da Bertrand Russell, avevo
scambiato da ragazzo per un Io individuale-creatore (ossia
solipsistico1),
è in realtà l’Umanità intera, capace di trasformare il mondo ma
non di portare a compimento la propria opera. Hegel arresta questo
impetuoso e (forse) inconcludente rincorrersi, fissando un traguardo
chiamato “sintesi”, che è poi la tesi arricchita e vivificata
dall’antitesi – l’Idea astratta che, “scontratasi” con la
Natura, si fonde con essa e assurge a Spirito. Non si tratta più di
inseguire orizzonti fuggitivi: la meta esiste, ed è raggiungibile
sia in cielo che in terra (che poi non sempre risulti allettante è
un altro paio di maniche!). A Marx del cielo non importa nulla: gli
interessa la terra, su cui pena e fatica l’essere umano. Gli
interessa la Storia che, fecondata dall’apporto dialettico, svela i
suoi segreti e cessa di presentarsi come un guazzabuglio di episodi,
battaglie, condottieri, turbe, cause effimere ed effetti
inspiegabili. Il materialismo storico consente di interpretare il
passato e prevedere il futuro sulla base di dati oggettivi,
verificabili, misurabili. Non è un vaticinio o una profezia, ma
qualcosa di incomparabilmente più prezioso: è un metodo. Però è
stato foggiato nella fucina di mastro Georg, e questo non resterà
senza conseguenze.