di Riccardo Achilli
Le tesi di Chiarini
In un recentissimo libro ("Alle origini di una strana Repubblica", edizioni Marsilio, 2013), lo
storico Roberto Chiarini si interroga sui motivi dello iato esistente, nel
nostro Paese, fra una cultura politica di sinistra, che si manifesta nel mito
dell’antifascismo e nelle caratteristiche di una Costituzione sostanzialmente
progressista, ed una società che esprime valori fondamentalmente conservatori e
di destra.
La tesi centrale del libro è che
tale contraddizione nasce dallo stesso processo di formazione dell’Italia
repubblicana, dentro una sorta di doppia delegittimazione reciproca fra destra
e sinistra, la prima etichettata di fascista, la seconda di comunista, che di
fatto le ha annullate, impedendo loro di esercitare la funzione di protagoniste
del gioco politico, lasciando spazio ad una deriva centrista, rappresentata
dalla Dc e dai suoi alleati, che in qualche modo rappresentava l’unica sintesi
possibile di tale contraddizione, dando rappresentanza ad una maggioranza
silenziosa di italiani per niente disposta a dare spazio alle conseguenze che
una cultura politica progressista avrebbe avuto, provocando uno scollamento fra
una cultura politica di sinistra ed imperniata sul mito dell’antifascismo e sui
richiami ideali della Resistenza, della libertà, della giustizia e del diritto
al lavoro, ed un Paese reale che cova sentimenti reazionari. Da ultimo, con
l’avvento della Seconda Repubblica, l’emergere di una destra lungamente tenuta
fuori dal contesto politico ed istituzionale “ufficiale”, spesso tinteggiatasi
di eversione negli anni di piombo, non ha consentito di elaborare un progetto
politico autonomo, democratico, europeo e moderno, incentivando, nella
sinistra, la prosecuzione del gioco alla delegittimazione, che ha, a sua volta,
impoverito le basi culturali e politiche della sinistra stessa, congelando il
Paese in una sterile contrapposizione fra una destra populista, corporativa,
ancora innervata da tensioni socialfasciste o comunque, in altri modi,
“eversive” (riferendosi l’autore al messaggio separatista leghista) ed una
sinistra senza progetto, bloccata nel gioco della delegittimazione, che quindi
cercava in tentazioni neocentriste il consenso che non poteva conquistare con
il peso delle idee. Il tutto mentre, sempre per tenere a mente le distinzioni
operate dall’autore, il Paese “legale”, connotato da una pregiudiziale
antifascista non fa collante con il Paese reale, che invece è caratterizzato da
una pregiudiziale anticomunista. La paralisi istituzionale e politica che
deriva da una incapacità di destra e sinistra di diventare protagoniste di un
confronto politico basato su proposte mirate alle esigenze di modernizzazione
del Paese , e non sulla demonizzazione reciproca, fornisce la stura per
riaprire la storica tendenza degli italiani verso l’antipolitica, il rifiuto
della partecipazione e del confronto pubblico, la diffidenza verso il ruolo
dello Stato, l’individualismo anarcoide. E si traduce quindi nella marea
montante di disprezzo verso le istituzioni dello Stato e le istituzioni
intermedie della rappresentanza, fondamentali in una democrazia, ovvero partiti
e sindacati.
Una costruzione sbilenca dello Stato e della borghesia nazionale, che
ha dato corpo ad un brodo di coltura reazionario ed individualista
La tesi di Chiarini è suggestiva,
e contiene elementi di profondo interesse, soprattutto in merito all’incapacità
della Seconda Repubblica, liberatasi dei vincoli della guerra fredda, di
superare il gioco reciproco alla delegittimazione, e quindi incapace di
riformulare una cultura politica, andatasi via via estinguendo. Tuttavia,
l’elemento centrale di tale tesi è solo in parte condivisibile, a mio avviso.
Non penso che vi sia stata una delegittimazione reciproca “ab origine”, cioè
sin dalla nascita della Repubblica, fra sinistra e destra. La versione italiana
del comunismo, cioè il togliattismo, ha operato sin dall’inizio per gestire in
forma consociativa con la destra democratica, rappresentata dalla Democrazia
Cristiana, la costruzione di una Repubblica democratica liberale e
filo-occidentale , dentro la quale il PCI avrebbe avuto la garanzia del suo
spazio di potere e di influenza culturale. “L'obiettivo che noi proponiamo al
popolo italiano da realizzare finita la guerra, sarà quello di creare in Italia
un regime democratico e progressivo”, avrà a dire il Migliore a Napoli, nel
1944. All’indomani della cacciata di comunisti e socialisti dal Governo, che
preannunciò il passaggio ad una opposizione strutturale, egli dichiarerà: “grazie
alla nostra politica siamo riusciti ad ottenere che la lotta per la
democratizzazione del nostro Paese si svolga in quel quadro dell’unità
nazionale che fu conquistato nel secolo scorso”, accettando quindi
implicitamente la collocazione del suo partito dentro il quadro democratico e
liberale che egli stesso ha contribuito a costruire. Parimenti, la
delegittimazione del fascismo passa solo tramite vie formali, culturali e
sovrastrutturali, nella misura in cui gran parte della classe dirigente del
periodo fascista transita, tranquillamente, dentro i quadri
politico/amministrativi della neonata Repubblica, la stessa Democrazia Cristiana
integra, dentro le sue correnti di destra, esponenti politici del vecchio
regime, interi spezzoni di ordinamento giuridico fascista vengono riprodotti
nella nuova Italia democratica (si pensi al codice penale) e c’è il divieto
assoluto, da parte di De Gasperi, ad istituire una Norimberga italiana, che dia
un giudizio storico definitivo sul fascismo, come la Norimberga tedesca lo ha
dato sul nazismo.
Probabilmente la verità è che
l’anomalia italiana, in termini di scollamento fra cultura politica e Paese
reale, ha radici ancor più lontane, da un lato nello stesso processo di
formazione dello Stato unitario, e dall’altro nei processi di consolidamento
della borghesia nazionale.
I problemi di formazione dello Stato unitario
Sotto il primo aspetto, ovvero
quello della formazione dello Stato unitario, imposto in larga misura dall’alto da una
piccola élite di intellettuali e da una piccola monarchia montanara ed
ignorante, avida di potere e intrinsecamente corrotta, che utilizzò gli ideali
unitari di quella piccola élite per costruire una forma di unificazione per via
imperialistica delle diverse realtà statuali pre-unitarie. Vissuta come lontana
dai propri bisogni e anche come profondamente aggressiva (specie nel
Mezzogiorno del Paese) tale nuova costruzione statuale unitaria genera
immediatamente uno scollamento fra il popolo e la sua classe dirigente, talché,
addirittura, le prime espressioni comunali e mutualistiche del socialismo di
fine Ottocento sono mirate a ricostruire relazioni solidaristiche di comunità,
su scala locale, che l’aggressivo imperialismo sabaudo intende estirpare.
Il problema dello scollamento fra
Paese legale e Paese reale nasce da qui. La retorica antifascista successiva
non farà che sovrapporsi a questo scollamento, di fatto ri-legittimando
spezzoni interi di classe dirigente fascista, in un connubio di reciproco
riconoscimento (al di là, per l’appunto, della propaganda ufficiale e dei
rituali antifascisti) con la versione togliattiana del comunismo italiano.
Togliattismo che, in cambio di un silenzio-assenso nei confronti della
ri-legittimazione di intere parti del vecchio regime fascista, viene premiato
con proprie sfere di potere, gestite in modo assolutamente monopolistico: le
amministrazioni locali di ampie zone del Centro-Nord, la cultura scolastica e
di massa, gli affari imprenditoriali gestiti, senza concorrenza, tramite la
rete delle cooperative rosse in ben determinati territori del Paese, una quota
garantita nella direzione delle imprese e degli enti pubblici dello Stato. La
vera immagine della neonata Repubblica è data dalla penna avvelenata di
Giovanni Guareschi: don Camillo, il prete ultraconservatore, e Peppone, il
sindaco comunista. Formalmente nemici acerrimi, in realtà, dietro le apparenze,
alleati.
Quando questo sistema crolla
sotto i colpi di Tangentopoli, essenzialmente perché ai suoi fautori a stelle e
strisce, ed a una borghesia nazionale compradora, dopo la caduta del pericolo
comunista non conviene più avere un Paese a gestione consociativa, irrigidito
da una burocratizzazione amplissima della sfera economica e sociale, la
legittimazione reciproca continua, ancora una volta sull’aspetto strutturale
degli accordi di potere, non su quello sovrastrutturale dei proclami e degli
slogan. Esattamente come i vecchi slogan elettorali della Dc invitano il popolo
a non votare comunista, presentando disegni dei gulag sovietici, ma poi facendo
comunella con l’opposizione comunista, la nuova destra berlusconiana e la nuova
sinistra querciaiola si lanciano anatemi terribili (“comunisti mangiabambini”,
da una parte, “ladri, eversori e venditori di tappeti” dall’altra). Ed
esattamente come nella vecchia prima Repubblica, ci si spartiscono quote di
potere, stando attenti a competere fino al punto di non strappare definitivamente
la corda: e così nasce il Patto della crostata in casa Letta, in cui un D’Alema
consapevole dell’importanza della presenza politica di Berlusconi per garantire
consenso al proprio partito rifiuta di approvare una banale normativa sul
conflitto d’interessi che avrebbe distrutto il Caimano. Nasce una politica
economica sostanzialmente simile fra governi di centro-destra e di
centro-sinistra, con i secondi che, paradossalmente, appaiono persino più
zelanti dei primi nel privatizzare pezzi interi di apparato economico sotto il
controllo pubblico, nel cancellare ogni traccia di programmazione economica di
medio-lungo periodo, e nell’adottare temi legalitari e securitari tipicamente patrimonio
di una cultura politica di destra. Sulla sponda opposta, Berlusconi adotta,
deformandoli, temi libertari che appartengono alla sinistra, accreditandosi
come il garante delle libertà individuali contro uno Stato minaccioso ed
opprimente, così come il leghismo annacqua, in un brodo di intolleranza,
xenofobia e identitarismo folkloristico da operetta, un profondo rifiuto della
globalizzazione e dei suoi effetti alienanti che, in realtà, sarebbe tipico dei
migliori filoni culturali proudhoniani ed anarchici.
Quindi il problema dello
scollamento fra cultura politica dominante e Paese reale nasce da un fenomeno
che, a mio avviso, è esattamente l’opposto di quello che sostiene Chiarini:
nasce da una sporca, sotterranea e non esplicitata legittimazione reciproca sul
piano degli accordi di potere opachi e non mediati con l’opinione pubblica, e
non dalla reciproca delegittimazione, che si mantiene sul piano di una tutto
sommato innocua dialettica propagandistica ed elettoralistica. E da una spuria
contaminazione di culture politiche diverse, che distrugge sia quella liberale,
che avrebbe potuto essere rappresentativa di una destra moderna e democratica,
come anche quella socialista democratica, che si estingue, letteralmente,
venendo sbrigativamente etichettata, dai figli putativi di Togliatti, come un
sinonimo di corruzione, malaffare e autoritarismo burocratico.
In questi termini, come stupirsi
se un popolo si distacca dal proprio vertice politico e si disaffeziona alle
proprie istituzioni? Se tale popolo in larga misura ha visto il processo di
creazione dello Stato unitario come una imposizione dall’alto, non di rado
ostile ai propri interessi (manifestando tale ostilità, ad esempio, nel
brigantaggio post unitario che coinvolse ampie zone del nostro Mezzogiorno), e
poi assiste ad una opaca legittimazione reciproca, in nome di uno scambio di
potere che passa sistematicamente sopra le teste dei cittadini, di culture
politiche e partiti che dovrebbero essere in competizione fra loro? Come
stupirsi se il mito fondante dell’antifascismo degrada via via in una mera
manifestazione esteriore, priva di pathos, tanto che le giovani generazioni
dimenticano presto persino il significato della festa del 25 aprile e della
Resistenza antifascista?
E peraltro: come stupirsi del
fatto che il Paese reale è profondamente conservatore, nei suoi istinti più
profondi? Non è tanto la presenza fisica della Chiesa a renderlo così
conservatore. Altri Paesi dove l’influenza cattolica è fortissima hanno saputo
difendere culture politiche di sinistra fino ad oggi, portandole ad essere
radicate nel consenso popolare, e competitive sul piano politico. La
specificità italiana risiede piuttosto in altro: un sostanziale fastidio nei
confronti dello Stato e delle sue istituzioni, che come si è visto risale alla
stessa formazione dello Stato unitario, e che nemmeno il fascismo riesce a
correggere (distruggendo le istituzioni parlamentari e sostituendo
l’attaccamento alle istituzioni statali con la fedeltà ad un leader
carismatico, che, quasi fosse un’entità mistica, intride di sé l’intero
ordinamento statuale). Il disprezzo per lo Stato implica un sostanziale rifiuto
del concetto di comunità, di polis, rifluendo come individualismo negativo,
come desiderio di libertà deprivata della controfaccia della responsabilità.
I problemi di formazione della borghesia nazionale
Naturalmente, in tale substrato
conservatore influisce anche la storia delle peculiari traiettorie della
borghesia nazionale. Una rivoluzione industriale pasticciata, frettolosa e
parziale, ha infatti consegnato una borghesia nazionale culturalmente povera.
in Paesi a grado di maturazione intermedia del proprio capitalismo nazionale,
come l'Italia, emerge una borghesia semi-moderna (in base alla nota legge
trotzkista dello sviluppo diseguale e combinato, per cui ad un dato stadio di
sviluppo, un sistema capitalistico può integrare elementi moderni ed elementi
antiquati, in un miscuglio originale), agitata dagli stessi animal spirits che
agitano le borghesie "mature" dei Paesi più avanzati, ma al tempo
stesso terrorizzata dal mercato e dal rischio d'impresa, e quindi incapace
anche di abbracciare pianamente i dettami del liberismo, adottando una
piattaforma ideologica liberista imbastardita, dove entrano concetti liberisti
moderni e residui semifeudali di concetti protezionisti ed assistenzialisti. Una
borghesia che quindi si aggrappa in modo inestricabile alla politica, che, a
seconda delle fasi, deve garantirle mano libera ed al tempo stesso incentivi e
protezioni (in ciò si spiega la fase berlusconiana della nostra borghesia: il
berlusconismo è proprio un miscuglio di idee liberiste in materia sociale e di
regolazione del mercato, e di protezionismo - al momento giusto arriva sempre
lo sconto fiscale o il condono tombale).
Una borghesia quindi culturalmente inadatta a
gestire un capitalismo avanzato, che vive di relazioni più che di una visione
strategica del mondo (perché nei capitalismi maturi la borghesia non gestisce
quasi più direttamente i mezzi di produzione, essendo tale gestione delegata ai
manager, nient'affatto alleati delle classi lavoratrici, come invece sosteneva
l'idea marxiana di lavoratore collettivo cooperativo associato, e si occupa
invece di organizzare il sistema socio-economico e culturale complessivo del
suo Paese, per renderlo il più competitivo possibile). E che quindi, vivendo di
relazioni con la politica, è ossessionata dal controllo. Posso attivare
relazioni soltanto se sono io a farlo, non posso delegare la gestione delle mie
relazioni a qualcun altro. Con il risultato che la borghesia italiana non esce
dalla fase padronale, oramai del tutto inadeguata a gestire un capitalismo
moderno ed avanzato, e non delega a tecnici e manager, pretendendo di
continuare a gestire l'impresa senza averne le competenze specialistiche.
E quindi una borghesia
intimamente reazionaria, incapace di interpretare la politica in termini di
sperimentazione di forme di innovazione sociale, cioè oltre le proprie esigenze
di business e di protezione, ossessionata dal controllo e quindi incapace di
aprirsi ed arricchirsi con l’apporto di forze fresche provenienti dagli strati
inferiori della società, come nel caso dei sistemi capitalistici basati sulle
public companies o sulla cogestione, in cui la vicenda di Adriano Olivetti
risuona come una virtuosa ed unica eccezione in un mare di squallore.
Tale brodo di coltura, non appena
liberatosi, negli anni Novanta, di assetti politici ed ideologici in larga
misura imposti dalla guerra fredda, e mai vissuti come propri dalla maggioranza
silenziosa del Paese, ha immediatamente ucciso le radici culturali del socialismo,
che per prosperare hanno invece bisogno di un’alta idea di Stato e di comunità,
chiamati a operare per redistribuire e correggere le storture generate dal
mercato, così come ha prosciugato quelle del liberalismo che, nella sua
versione più alta, ha un profondo senso dello Stato e della sua funzione di
garante delle libertà individuali. Mentre, in parallelo, il togliattismo,
ovvero il modo italiano con cui si è declinato il comunismo, ha già perso la
sua battaglia di cambiamento del Paese con il fallimento del compromesso
storico nel 1980, che segnerà la fine dell’illusione delle possibilità di una
lunga marcia del comunismo dentro le istituzioni democratiche, fino a cambiare
il Paese in senso socialista, che aveva contraddistinto l’azione politica di Togliatti
e dei suoi successori. La sconfitta del togliattismo porterà poi, in D’Alema,
Veltroni e soci, ad un togliattismo di risulta, che recupererà dalla sentina
soltanto gli aspetti deteriori di tale dottrina politica (il tatticismo
esasperato condito da una buona dose di cinismo, la propensione al compromesso
di vertice, una scarsissima tendenza alla democrazia dal basso).
Come ricostruire socialismo in Italia
Ed oggi? Ancora oggi, ed anzi, in
forma più cruda in ragione degli effetti della crisi economica, per fare
ripartire un’idea di sinistra nel Paese occorre ripartire dal dato fondamentale
di uno scollamento fra Paese reale, intriso di un brodo di coltura, fatto di
antistatalismo miope ed individualismo, ostile al socialismo democratico, ed
istituzioni dello Stato. Scolamento generato da una ferita mai sanata nel
rapporto fra società e Stato, su cui la tendenza ad una legittimazione spuria
ed opaca fra partiti formalmente avversari e ad una contaminazione distruttiva
di culture politiche, ha gettato ulteriore sale. Paralizzando il funzionamento
normale delle istituzioni, che si fonda su un sano ricambio fra parti politiche
che hanno visioni del mondo realmente diverse, e quindi innescando un degrado
delle istituzioni stesse che, in una spirale viziosa (e qui concordo
perfettamente con Chiarini) ha portato a rafforzare ulteriormente l’istinto
antipolitico degli italiani, confermando la loro visione negativa dello Stato,
sfociando in fenomeni perversi, come l’antipolitica urlata del M5S.
Un recente sondaggio d’opinione
condotto, su un panel di 1.022 cittadini, da Demos, non fa che confermare come
la crisi abbia accentuato queste caratteristiche: la fiducia nello Stato perde
3,5 punti percentuali fra 2012 e 2013; quella nel Presidente della Repubblica perde
5,6 punti; la fiducia nel Parlamento si attesta ad un miserrimo 7,1%, quella
nei partiti al 5,1%. I sindacati oscillano fra il 15 ed il 21% di gradimento.
Complessivamente, fra 2005 e 2013 la fiducia nelle principali istituzioni
politiche diminuisce di 17 punti, passando dal 41% al 24%.
Tale sfiducia si riflette anche
nei servizi pubblici: la percentuale di coloro che ritengono che lo Stato debba
prioritariamente migliorare i servizi pubblici crolla dal 54% del 2005 al 30%
del 2013, mentre sale al 70% la percentuale di coloro che ritengono prioritario
abbassare le tasse, anche al costo di privatizzare alcuni servizi pubblici
essenziali. Ad esempio, l’indice di propensione ad una maggiore presenza di
privati nella sanità e nella scuola pubblica cresce di cinque punti in soli tre
anni, anche se è ancora minoritario (26%). In questo senso, la vittoria
referendaria sull’acqua pubblica del 2011 (influenzata peraltro dai fatti di
Fukushima, poiché ci si presentava anche con il referendum sul nucleare, che ha
alzato il quorum) appare più che altro come un evento, senz’altro molto
significativo, ma episodico, e riguardante un servizio pubblico, come quello
idrico, considerato strettamente afferente alla sfera della sopravvivenza
primaria, e quindi, in quanto episodico, non in grado di esercitare un effetto
di contrasto alla rapida (anche se, precisiamolo ancora una volta, ancora
nettamente minoritaria) tendenza all’incremento del gradimento della presenza
di privati in sfere tradizionalmente attribuite alla gestione del soggetto
pubblico.
La sfiducia nello Stato implica
anche pericolose derive non proprio del tutto democratiche: fra 2008 e 2013,
scende dal 72,2% al 69,5% la quota di italiani che ritengono la democrazia il
migliore sistema di governo possibile, mentre cresce fino a sfiorare il 14% la
quota di chi preferisce un regime dittatoriale, e al 16,7% chi reputa dittatura
e democrazia equivalenti. Anche in questo caso, rassicura il fatto che la
grande maggioranza degli italiani sia ancora legata alla democrazia, ma la
storia insegna che non sempre le svolte autoritarie si sono fatte confidando
sul consenso della maggioranza, ma anche solo su significative, ed influenti,
minoranze.
Cosa significano tali dati? Che
non vi sono più strade per un recupero della sinistra, degli ideali del
socialismo democratico? Che dobbiamo rassegnarci ad un futuro di
privatizzazione crescente dello Stato e del welfare, ad a derive antiparlamentari
e presidenzialistiche? Rispetto a quest’ultima domanda, la risposta,
probabilmente, è sì. È inutile e dannoso farsi illusioni, in politica come
nella vita. Di fatto, Renzi, che fiuto per capire gli umori del Paese ne ha,
condurrà la linea politica del suo partito esattamente in direzione di una
privatizzazione dei servizi pubblici essenziali (anche se mascherata dietro
illusioni di “sussidiarietà orizzontale” che tale non è, stante la forte
politicizzazione di gran parte del terzo settore del nostro Paese) e di una
modifica agli assetti costituzionali, in direzione di un indebolimento della
funzione parlamentare a beneficio dell’esecutivo.
Quanto alla risposta alla prima
domanda, occorre invece essere più ottimisti. La stessa ricerca evidenzia almeno
due aspetti essenziali, e positivi:
- - Da un lato, la richiesta di maggiore equità
redistributiva, nonostante la tendenza (per fortuna ancora minoritaria) ad una
maggiore accettazione per la privatizzazione dei servizi pubblici, rimane
essenziale per gli italiani, ed oltrepassa la differenza fra destra e sinistra,
ed ovviamente una redistribuzione non può essere esercitata esclusivamente per
via fiscale, poiché determinati servizi pubblici essenziali (scuola, sanità,
servizi abitativi) sono fondamentali per mantenere un equo livello di
“capacitazioni”, per dirla con A. Sen, cioè di eguaglianza nelle opportunità di
inserimento ed ascesa nella scala sociale;
b-
D’altro lato, emerge chiaramente una rinnovata
voglia di partecipazione dal basso: fra 2007 e 2013, la propensione a
partecipare ad iniziative legate alla difesa dell’ambiente e del territorio
cresce di oltre 10 punti; di circa 5 punti cresce la voglia di partecipare ad
iniziative legate ai problemi del proprio quartiere o della propria città;
aumenta di oltre 8 punti la propensione a partecipare ad associazioni di
volontariato. Cresce, infine, di 7,2 punti, la voglia di partecipare ad
associazioni di categoria o professionali. Aumenta, dunque, la voglia di partecipazione
“comunitaria”. A fronte del calo della fiducia nei partiti, e della ristagnante
bassa fiducia nei sindacati, cioè a fronte di una sfiducia nelle istituzioni di
rappresentanza intermedia, i cittadini manifestano una crescente voglia di
“darsi da fare”, di attivarsi, generalmente su tematiche che hanno a che vedere
con la loro comunità “di vicinanza”, sia questa il proprio
territorio/quartiere, sia questa la propria comunità professionale. Viene
invece meno la voglia di delegare su tematiche più generali e “lontane” dalla
vita quotidiana.
Il combinato disposto di questi
due elementi individua, a mio modo di vedere, lo spazio di azione entro il
quale può operare la sinistra in Italia nei prossimi anni, anni che saranno
caratterizzati da una pesante involuzione democratica, delle tutele lavorative
e dei diritti sociali. In questo nuovo Medio Evo che ci si prospetta, il
socialismo dovrà ripartire dall’inizio: intercettare la voglia di eguaglianza e
partecipazione comunitaria e di prossimità, porsi come soggetto di
ricostruzione dal basso di una società sulla quale, dopo lo schiacciasassi
della crisi, passerà lo schiacciasassi della fuoriuscita neoliberista dalla
crisi stessa, ricostruire microprogettualità locale e mutualismo di prossimità,
e ridare speranza ad un Paese che, da sempre, trova le sue migliori espressioni
nella ricchezza delle sue espressioni localistiche.
D’altro canto, la domanda di
equità distributiva e di mobilità sociale non potrà che emergere con prepotenza
e, come si è visto, non potrà non vedere un rinnovato ruolo dei servizi essenziali,
attivatori di capacitazioni di base, e quindi un rinnovato ruolo della mano
pubblica. Che però, rispetto al welfare novecentesco, dovrà probabilmente
tenere conto di un quadro mutato, di risorse inferiori, prodotte da tassi di
crescita meno brillanti che nel ventennio glorioso del secondo dopoguerra, e
della già rammentata rinnovata voglia di protagonismo di comunità espressa
dagli italiani. Un modo socialista per ricostruire una presenza pubblica nei
servizi essenziali, dunque, dovrà tener conto di esigenze reali di
sussidiarietà orizzontale, in cui il soggetto pubblico dovrà continuare ad
erogare direttamente ed in proprio i livelli minimi essenziali, definiti in
base al loro impatto sulla parificazione delle capacitazioni individuali e del
loro livello di costo e complessità (in una visione dinamica di questi ultimi,
che porti ad un loro progressivo innalzamento in funzione dell’innalzamento
della domanda sociale lungo la piramide di Maslow), per poi attuare in funzione
di programmazione, regolazione e controllo di un maggior protagonismo delle
comunità nell’erogazione di servizi che vadano oltre tali livelli essenziali.
Programmazione, controllo e
regolazione che saranno socialisti, e dunque si differenzieranno dalle proposte
della destra liberale, nella misura in cui porteranno ad un effettivo
empowerment delle comunità locali, cioè in una effettiva gestione comunitaria
dei servizi, e non in una privatizzazione nascosta, per favorire un “terzo
settore” legato alla politica ed al business finanziario, come invece traspare
evidentemente nel progetto di “big society” di David Cameron, che è in realtà
una privatizzazione, ed una finanziarizzazione (mediante lo strumento dei
social bonds) dei servizi sociali, che, ovviamente, affidati al mercato, non
potranno che generare i tipici effetti di inefficienza allocativa e
diseguaglianza distributiva che produce il libero gioco delle forze di mercato.
Converrà infatti sempre erogare servizi sociali a chi può pagare, e quindi può
generare reddito, rispetto a chi non può pagare, ma per ciò stesso sarebbe più
bisognoso di tali servizi, aumentando quindi la scala delle diseguaglianze.
E quale ruolo per i partiti e le
rappresentanze sociali intermedie? E’ evidente che l’opinione pubblica,
probabilmente sulla spinta di un furore ideologico che poco ha a che vedere con
le malefatte reali e presunte dei partiti novecenteschi, ha introiettato una
visione negativa degli stessi, e che la forma-partito potrà salvarsi soltanto
se diverrà più orizzontale, meno gerarchizzata, più partecipata, e quindi, a
differenza delle malsane idee di “movimento in rete” e virtuale proposte dal
M5S, saprà radicarsi nuovamente nei territori e nei luoghi di lavoro e di vita,
con forme di democrazia diretta ed interna molto maggiori di quelle attuali, garantite dallo Statuto e
da appositi organi indipendenti dal partito, e preposti alla vigilanza del
livello di democrazia e di libertà di dibattito interno.
E’ del tutto evidente, però, che
tali partiti non potranno avere la forma liquida e virtuale, ma, anzi, per
certi versi dovranno tornare ad essere solidi, ad avere un reticolo di sedi e
circoli, a discutere dentro le collettività locali, a tornare ad avere una
progettualità, sia micro che macro. Solo in questi termini, i partiti potranno tornare
a richiedere forme, anche limitate (p. es. ai soli partiti di opposizione) di
finanziamento pubblico, essenziali per una corretta vita democratica,
relativamente meno dipendente dalle lobby (che comunque, chiariamolo, sono
presenti ed influenti anche in un sistema di totale finanziamento pubblico ai
partiti). La tradizione libertaria del socialismo, ancora una volta, pone tale
cultura politica in vantaggio rispetto alle altre, nel proporre un cambiamento
della forma-partito di questo tipo.
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