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mercoledì 15 gennaio 2014

Come fare sinistra in un Paese conservatore: alcuni appunti di viaggio, di Riccardo Achilli









di Riccardo Achilli


Le tesi di Chiarini

In un recentissimo libro ("Alle origini di una strana Repubblica", edizioni Marsilio, 2013), lo storico Roberto Chiarini si interroga sui motivi dello iato esistente, nel nostro Paese, fra una cultura politica di sinistra, che si manifesta nel mito dell’antifascismo e nelle caratteristiche di una Costituzione sostanzialmente progressista, ed una società che esprime valori fondamentalmente conservatori e di destra. 

La tesi centrale del libro è che tale contraddizione nasce dallo stesso processo di formazione dell’Italia repubblicana, dentro una sorta di doppia delegittimazione reciproca fra destra e sinistra, la prima etichettata di fascista, la seconda di comunista, che di fatto le ha annullate, impedendo loro di esercitare la funzione di protagoniste del gioco politico, lasciando spazio ad una deriva centrista, rappresentata dalla Dc e dai suoi alleati, che in qualche modo rappresentava l’unica sintesi possibile di tale contraddizione, dando rappresentanza ad una maggioranza silenziosa di italiani per niente disposta a dare spazio alle conseguenze che una cultura politica progressista avrebbe avuto, provocando uno scollamento fra una cultura politica di sinistra ed imperniata sul mito dell’antifascismo e sui richiami ideali della Resistenza, della libertà, della giustizia e del diritto al lavoro, ed un Paese reale che cova sentimenti reazionari. Da ultimo, con l’avvento della Seconda Repubblica, l’emergere di una destra lungamente tenuta fuori dal contesto politico ed istituzionale “ufficiale”, spesso tinteggiatasi di eversione negli anni di piombo, non ha consentito di elaborare un progetto politico autonomo, democratico, europeo e moderno, incentivando, nella sinistra, la prosecuzione del gioco alla delegittimazione, che ha, a sua volta, impoverito le basi culturali e politiche della sinistra stessa, congelando il Paese in una sterile contrapposizione fra una destra populista, corporativa, ancora innervata da tensioni socialfasciste o comunque, in altri modi, “eversive” (riferendosi l’autore al messaggio separatista leghista) ed una sinistra senza progetto, bloccata nel gioco della delegittimazione, che quindi cercava in tentazioni neocentriste il consenso che non poteva conquistare con il peso delle idee. Il tutto mentre, sempre per tenere a mente le distinzioni operate dall’autore, il Paese “legale”, connotato da una pregiudiziale antifascista non fa collante con il Paese reale, che invece è caratterizzato da una pregiudiziale anticomunista. La paralisi istituzionale e politica che deriva da una incapacità di destra e sinistra di diventare protagoniste di un confronto politico basato su proposte mirate alle esigenze di modernizzazione del Paese , e non sulla demonizzazione reciproca, fornisce la stura per riaprire la storica tendenza degli italiani verso l’antipolitica, il rifiuto della partecipazione e del confronto pubblico, la diffidenza verso il ruolo dello Stato, l’individualismo anarcoide. E si traduce quindi nella marea montante di disprezzo verso le istituzioni dello Stato e le istituzioni intermedie della rappresentanza, fondamentali in una democrazia, ovvero partiti e sindacati.

Una costruzione sbilenca dello Stato e della borghesia nazionale, che ha dato corpo ad un brodo di coltura reazionario ed individualista

La tesi di Chiarini è suggestiva, e contiene elementi di profondo interesse, soprattutto in merito all’incapacità della Seconda Repubblica, liberatasi dei vincoli della guerra fredda, di superare il gioco reciproco alla delegittimazione, e quindi incapace di riformulare una cultura politica, andatasi via via estinguendo. Tuttavia, l’elemento centrale di tale tesi è solo in parte condivisibile, a mio avviso. Non penso che vi sia stata una delegittimazione reciproca “ab origine”, cioè sin dalla nascita della Repubblica, fra sinistra e destra. La versione italiana del comunismo, cioè il togliattismo, ha operato sin dall’inizio per gestire in forma consociativa con la destra democratica, rappresentata dalla Democrazia Cristiana, la costruzione di una Repubblica democratica liberale e filo-occidentale , dentro la quale il PCI avrebbe avuto la garanzia del suo spazio di potere e di influenza culturale. “L'obiettivo che noi proponiamo al popolo italiano da realizzare finita la guerra, sarà quello di creare in Italia un regime democratico e progressivo”, avrà a dire il Migliore a Napoli, nel 1944. All’indomani della cacciata di comunisti e socialisti dal Governo, che preannunciò il passaggio ad una opposizione strutturale, egli dichiarerà: “grazie alla nostra politica siamo riusciti ad ottenere che la lotta per la democratizzazione del nostro Paese si svolga in quel quadro dell’unità nazionale che fu conquistato nel secolo scorso”, accettando quindi implicitamente la collocazione del suo partito dentro il quadro democratico e liberale che egli stesso ha contribuito a costruire. Parimenti, la delegittimazione del fascismo passa solo tramite vie formali, culturali e sovrastrutturali, nella misura in cui gran parte della classe dirigente del periodo fascista transita, tranquillamente, dentro i quadri politico/amministrativi della neonata Repubblica, la stessa Democrazia Cristiana integra, dentro le sue correnti di destra, esponenti politici del vecchio regime, interi spezzoni di ordinamento giuridico fascista vengono riprodotti nella nuova Italia democratica (si pensi al codice penale) e c’è il divieto assoluto, da parte di De Gasperi, ad istituire una Norimberga italiana, che dia un giudizio storico definitivo sul fascismo, come la Norimberga tedesca lo ha dato sul nazismo. 

Probabilmente la verità è che l’anomalia italiana, in termini di scollamento fra cultura politica e Paese reale, ha radici ancor più lontane, da un lato nello stesso processo di formazione dello Stato unitario, e dall’altro nei processi di consolidamento della borghesia nazionale.


I problemi di formazione dello Stato unitario

Sotto il primo aspetto, ovvero quello della formazione dello Stato unitario,  imposto in larga misura dall’alto da una piccola élite di intellettuali e da una piccola monarchia montanara ed ignorante, avida di potere e intrinsecamente corrotta, che utilizzò gli ideali unitari di quella piccola élite per costruire una forma di unificazione per via imperialistica delle diverse realtà statuali pre-unitarie. Vissuta come lontana dai propri bisogni e anche come profondamente aggressiva (specie nel Mezzogiorno del Paese) tale nuova costruzione statuale unitaria genera immediatamente uno scollamento fra il popolo e la sua classe dirigente, talché, addirittura, le prime espressioni comunali e mutualistiche del socialismo di fine Ottocento sono mirate a ricostruire relazioni solidaristiche di comunità, su scala locale, che l’aggressivo imperialismo sabaudo intende estirpare. 

Il problema dello scollamento fra Paese legale e Paese reale nasce da qui. La retorica antifascista successiva non farà che sovrapporsi a questo scollamento, di fatto ri-legittimando spezzoni interi di classe dirigente fascista, in un connubio di reciproco riconoscimento (al di là, per l’appunto, della propaganda ufficiale e dei rituali antifascisti) con la versione togliattiana del comunismo italiano. Togliattismo che, in cambio di un silenzio-assenso nei confronti della ri-legittimazione di intere parti del vecchio regime fascista, viene premiato con proprie sfere di potere, gestite in modo assolutamente monopolistico: le amministrazioni locali di ampie zone del Centro-Nord, la cultura scolastica e di massa, gli affari imprenditoriali gestiti, senza concorrenza, tramite la rete delle cooperative rosse in ben determinati territori del Paese, una quota garantita nella direzione delle imprese e degli enti pubblici dello Stato. La vera immagine della neonata Repubblica è data dalla penna avvelenata di Giovanni Guareschi: don Camillo, il prete ultraconservatore, e Peppone, il sindaco comunista. Formalmente nemici acerrimi, in realtà, dietro le apparenze, alleati. 

Quando questo sistema crolla sotto i colpi di Tangentopoli, essenzialmente perché ai suoi fautori a stelle e strisce, ed a una borghesia nazionale compradora, dopo la caduta del pericolo comunista non conviene più avere un Paese a gestione consociativa, irrigidito da una burocratizzazione amplissima della sfera economica e sociale, la legittimazione reciproca continua, ancora una volta sull’aspetto strutturale degli accordi di potere, non su quello sovrastrutturale dei proclami e degli slogan. Esattamente come i vecchi slogan elettorali della Dc invitano il popolo a non votare comunista, presentando disegni dei gulag sovietici, ma poi facendo comunella con l’opposizione comunista, la nuova destra berlusconiana e la nuova sinistra querciaiola si lanciano anatemi terribili (“comunisti mangiabambini”, da una parte, “ladri, eversori e venditori di tappeti” dall’altra). Ed esattamente come nella vecchia prima Repubblica, ci si spartiscono quote di potere, stando attenti a competere fino al punto di non strappare definitivamente la corda: e così nasce il Patto della crostata in casa Letta, in cui un D’Alema consapevole dell’importanza della presenza politica di Berlusconi per garantire consenso al proprio partito rifiuta di approvare una banale normativa sul conflitto d’interessi che avrebbe distrutto il Caimano. Nasce una politica economica sostanzialmente simile fra governi di centro-destra e di centro-sinistra, con i secondi che, paradossalmente, appaiono persino più zelanti dei primi nel privatizzare pezzi interi di apparato economico sotto il controllo pubblico, nel cancellare ogni traccia di programmazione economica di medio-lungo periodo, e nell’adottare temi legalitari e securitari tipicamente patrimonio di una cultura politica di destra. Sulla sponda opposta, Berlusconi adotta, deformandoli, temi libertari che appartengono alla sinistra, accreditandosi come il garante delle libertà individuali contro uno Stato minaccioso ed opprimente, così come il leghismo annacqua, in un brodo di intolleranza, xenofobia e identitarismo folkloristico da operetta, un profondo rifiuto della globalizzazione e dei suoi effetti alienanti che, in realtà, sarebbe tipico dei migliori filoni culturali proudhoniani ed anarchici. 

Quindi il problema dello scollamento fra cultura politica dominante e Paese reale nasce da un fenomeno che, a mio avviso, è esattamente l’opposto di quello che sostiene Chiarini: nasce da una sporca, sotterranea e non esplicitata legittimazione reciproca sul piano degli accordi di potere opachi e non mediati con l’opinione pubblica, e non dalla reciproca delegittimazione, che si mantiene sul piano di una tutto sommato innocua dialettica propagandistica ed elettoralistica. E da una spuria contaminazione di culture politiche diverse, che distrugge sia quella liberale, che avrebbe potuto essere rappresentativa di una destra moderna e democratica, come anche quella socialista democratica, che si estingue, letteralmente, venendo sbrigativamente etichettata, dai figli putativi di Togliatti, come un sinonimo di corruzione, malaffare e autoritarismo burocratico. 

In questi termini, come stupirsi se un popolo si distacca dal proprio vertice politico e si disaffeziona alle proprie istituzioni? Se tale popolo in larga misura ha visto il processo di creazione dello Stato unitario come una imposizione dall’alto, non di rado ostile ai propri interessi (manifestando tale ostilità, ad esempio, nel brigantaggio post unitario che coinvolse ampie zone del nostro Mezzogiorno), e poi assiste ad una opaca legittimazione reciproca, in nome di uno scambio di potere che passa sistematicamente sopra le teste dei cittadini, di culture politiche e partiti che dovrebbero essere in competizione fra loro? Come stupirsi se il mito fondante dell’antifascismo degrada via via in una mera manifestazione esteriore, priva di pathos, tanto che le giovani generazioni dimenticano presto persino il significato della festa del 25 aprile e della Resistenza antifascista?

E peraltro: come stupirsi del fatto che il Paese reale è profondamente conservatore, nei suoi istinti più profondi? Non è tanto la presenza fisica della Chiesa a renderlo così conservatore. Altri Paesi dove l’influenza cattolica è fortissima hanno saputo difendere culture politiche di sinistra fino ad oggi, portandole ad essere radicate nel consenso popolare, e competitive sul piano politico. La specificità italiana risiede piuttosto in altro: un sostanziale fastidio nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni, che come si è visto risale alla stessa formazione dello Stato unitario, e che nemmeno il fascismo riesce a correggere (distruggendo le istituzioni parlamentari e sostituendo l’attaccamento alle istituzioni statali con la fedeltà ad un leader carismatico, che, quasi fosse un’entità mistica, intride di sé l’intero ordinamento statuale). Il disprezzo per lo Stato implica un sostanziale rifiuto del concetto di comunità, di polis, rifluendo come individualismo negativo, come desiderio di libertà deprivata della controfaccia della responsabilità.

I problemi di formazione della borghesia nazionale

Naturalmente, in tale substrato conservatore influisce anche la storia delle peculiari traiettorie della borghesia nazionale. Una rivoluzione industriale pasticciata, frettolosa e parziale, ha infatti consegnato una borghesia nazionale culturalmente povera. in Paesi a grado di maturazione intermedia del proprio capitalismo nazionale, come l'Italia, emerge una borghesia semi-moderna (in base alla nota legge trotzkista dello sviluppo diseguale e combinato, per cui ad un dato stadio di sviluppo, un sistema capitalistico può integrare elementi moderni ed elementi antiquati, in un miscuglio originale), agitata dagli stessi animal spirits che agitano le borghesie "mature" dei Paesi più avanzati, ma al tempo stesso terrorizzata dal mercato e dal rischio d'impresa, e quindi incapace anche di abbracciare pianamente i dettami del liberismo, adottando una piattaforma ideologica liberista imbastardita, dove entrano concetti liberisti moderni e residui semifeudali di concetti protezionisti ed assistenzialisti. Una borghesia che quindi si aggrappa in modo inestricabile alla politica, che, a seconda delle fasi, deve garantirle mano libera ed al tempo stesso incentivi e protezioni (in ciò si spiega la fase berlusconiana della nostra borghesia: il berlusconismo è proprio un miscuglio di idee liberiste in materia sociale e di regolazione del mercato, e di protezionismo - al momento giusto arriva sempre lo sconto fiscale o il condono tombale).

Una borghesia quindi culturalmente inadatta a gestire un capitalismo avanzato, che vive di relazioni più che di una visione strategica del mondo (perché nei capitalismi maturi la borghesia non gestisce quasi più direttamente i mezzi di produzione, essendo tale gestione delegata ai manager, nient'affatto alleati delle classi lavoratrici, come invece sosteneva l'idea marxiana di lavoratore collettivo cooperativo associato, e si occupa invece di organizzare il sistema socio-economico e culturale complessivo del suo Paese, per renderlo il più competitivo possibile). E che quindi, vivendo di relazioni con la politica, è ossessionata dal controllo. Posso attivare relazioni soltanto se sono io a farlo, non posso delegare la gestione delle mie relazioni a qualcun altro. Con il risultato che la borghesia italiana non esce dalla fase padronale, oramai del tutto inadeguata a gestire un capitalismo moderno ed avanzato, e non delega a tecnici e manager, pretendendo di continuare a gestire l'impresa senza averne le competenze specialistiche. 

E quindi una borghesia intimamente reazionaria, incapace di interpretare la politica in termini di sperimentazione di forme di innovazione sociale, cioè oltre le proprie esigenze di business e di protezione, ossessionata dal controllo e quindi incapace di aprirsi ed arricchirsi con l’apporto di forze fresche provenienti dagli strati inferiori della società, come nel caso dei sistemi capitalistici basati sulle public companies o sulla cogestione, in cui la vicenda di Adriano Olivetti risuona come una virtuosa ed unica eccezione in un mare di squallore. 

Tale brodo di coltura, non appena liberatosi, negli anni Novanta, di assetti politici ed ideologici in larga misura imposti dalla guerra fredda, e mai vissuti come propri dalla maggioranza silenziosa del Paese, ha immediatamente ucciso le radici culturali del socialismo, che per prosperare hanno invece bisogno di un’alta idea di Stato e di comunità, chiamati a operare per redistribuire e correggere le storture generate dal mercato, così come ha prosciugato quelle del liberalismo che, nella sua versione più alta, ha un profondo senso dello Stato e della sua funzione di garante delle libertà individuali. Mentre, in parallelo, il togliattismo, ovvero il modo italiano con cui si è declinato il comunismo, ha già perso la sua battaglia di cambiamento del Paese con il fallimento del compromesso storico nel 1980, che segnerà la fine dell’illusione delle possibilità di una lunga marcia del comunismo dentro le istituzioni democratiche, fino a cambiare il Paese in senso socialista, che aveva contraddistinto l’azione politica di Togliatti e dei suoi successori. La sconfitta del togliattismo porterà poi, in D’Alema, Veltroni e soci, ad un togliattismo di risulta, che recupererà dalla sentina soltanto gli aspetti deteriori di tale dottrina politica (il tatticismo esasperato condito da una buona dose di cinismo, la propensione al compromesso di vertice, una scarsissima tendenza alla democrazia dal basso).

Come ricostruire socialismo in Italia

Ed oggi? Ancora oggi, ed anzi, in forma più cruda in ragione degli effetti della crisi economica, per fare ripartire un’idea di sinistra nel Paese occorre ripartire dal dato fondamentale di uno scollamento fra Paese reale, intriso di un brodo di coltura, fatto di antistatalismo miope ed individualismo, ostile al socialismo democratico, ed istituzioni dello Stato. Scolamento generato da una ferita mai sanata nel rapporto fra società e Stato, su cui la tendenza ad una legittimazione spuria ed opaca fra partiti formalmente avversari e ad una contaminazione distruttiva di culture politiche, ha gettato ulteriore sale. Paralizzando il funzionamento normale delle istituzioni, che si fonda su un sano ricambio fra parti politiche che hanno visioni del mondo realmente diverse, e quindi innescando un degrado delle istituzioni stesse che, in una spirale viziosa (e qui concordo perfettamente con Chiarini) ha portato a rafforzare ulteriormente l’istinto antipolitico degli italiani, confermando la loro visione negativa dello Stato, sfociando in fenomeni perversi, come l’antipolitica urlata del M5S. 

Un recente sondaggio d’opinione condotto, su un panel di 1.022 cittadini, da Demos, non fa che confermare come la crisi abbia accentuato queste caratteristiche: la fiducia nello Stato perde 3,5 punti percentuali fra 2012 e 2013; quella nel Presidente della Repubblica perde 5,6 punti; la fiducia nel Parlamento si attesta ad un miserrimo 7,1%, quella nei partiti al 5,1%. I sindacati oscillano fra il 15 ed il 21% di gradimento. Complessivamente, fra 2005 e 2013 la fiducia nelle principali istituzioni politiche diminuisce di 17 punti, passando dal 41% al 24%. 

Tale sfiducia si riflette anche nei servizi pubblici: la percentuale di coloro che ritengono che lo Stato debba prioritariamente migliorare i servizi pubblici crolla dal 54% del 2005 al 30% del 2013, mentre sale al 70% la percentuale di coloro che ritengono prioritario abbassare le tasse, anche al costo di privatizzare alcuni servizi pubblici essenziali. Ad esempio, l’indice di propensione ad una maggiore presenza di privati nella sanità e nella scuola pubblica cresce di cinque punti in soli tre anni, anche se è ancora minoritario (26%). In questo senso, la vittoria referendaria sull’acqua pubblica del 2011 (influenzata peraltro dai fatti di Fukushima, poiché ci si presentava anche con il referendum sul nucleare, che ha alzato il quorum) appare più che altro come un evento, senz’altro molto significativo, ma episodico, e riguardante un servizio pubblico, come quello idrico, considerato strettamente afferente alla sfera della sopravvivenza primaria, e quindi, in quanto episodico, non in grado di esercitare un effetto di contrasto alla rapida (anche se, precisiamolo ancora una volta, ancora nettamente minoritaria) tendenza all’incremento del gradimento della presenza di privati in sfere tradizionalmente attribuite alla gestione del soggetto pubblico. 

La sfiducia nello Stato implica anche pericolose derive non proprio del tutto democratiche: fra 2008 e 2013, scende dal 72,2% al 69,5% la quota di italiani che ritengono la democrazia il migliore sistema di governo possibile, mentre cresce fino a sfiorare il 14% la quota di chi preferisce un regime dittatoriale, e al 16,7% chi reputa dittatura e democrazia equivalenti. Anche in questo caso, rassicura il fatto che la grande maggioranza degli italiani sia ancora legata alla democrazia, ma la storia insegna che non sempre le svolte autoritarie si sono fatte confidando sul consenso della maggioranza, ma anche solo su significative, ed influenti, minoranze.
Cosa significano tali dati? Che non vi sono più strade per un recupero della sinistra, degli ideali del socialismo democratico? Che dobbiamo rassegnarci ad un futuro di privatizzazione crescente dello Stato e del welfare, ad a derive antiparlamentari e presidenzialistiche? Rispetto a quest’ultima domanda, la risposta, probabilmente, è sì. È inutile e dannoso farsi illusioni, in politica come nella vita. Di fatto, Renzi, che fiuto per capire gli umori del Paese ne ha, condurrà la linea politica del suo partito esattamente in direzione di una privatizzazione dei servizi pubblici essenziali (anche se mascherata dietro illusioni di “sussidiarietà orizzontale” che tale non è, stante la forte politicizzazione di gran parte del terzo settore del nostro Paese) e di una modifica agli assetti costituzionali, in direzione di un indebolimento della funzione parlamentare a beneficio dell’esecutivo. 

Quanto alla risposta alla prima domanda, occorre invece essere più ottimisti. La stessa ricerca evidenzia almeno due aspetti essenziali, e positivi:
-  -  Da un lato, la richiesta di maggiore equità redistributiva, nonostante la tendenza (per fortuna ancora minoritaria) ad una maggiore accettazione per la privatizzazione dei servizi pubblici, rimane essenziale per gli italiani, ed oltrepassa la differenza fra destra e sinistra, ed ovviamente una redistribuzione non può essere esercitata esclusivamente per via fiscale, poiché determinati servizi pubblici essenziali (scuola, sanità, servizi abitativi) sono fondamentali per mantenere un equo livello di “capacitazioni”, per dirla con A. Sen, cioè di eguaglianza nelle opportunità di inserimento ed ascesa nella scala sociale;
b-          D’altro lato, emerge chiaramente una rinnovata voglia di partecipazione dal basso: fra 2007 e 2013, la propensione a partecipare ad iniziative legate alla difesa dell’ambiente e del territorio cresce di oltre 10 punti; di circa 5 punti cresce la voglia di partecipare ad iniziative legate ai problemi del proprio quartiere o della propria città; aumenta di oltre 8 punti la propensione a partecipare ad associazioni di volontariato. Cresce, infine, di 7,2 punti, la voglia di partecipare ad associazioni di categoria o professionali. Aumenta, dunque, la voglia di partecipazione “comunitaria”. A fronte del calo della fiducia nei partiti, e della ristagnante bassa fiducia nei sindacati, cioè a fronte di una sfiducia nelle istituzioni di rappresentanza intermedia, i cittadini manifestano una crescente voglia di “darsi da fare”, di attivarsi, generalmente su tematiche che hanno a che vedere con la loro comunità “di vicinanza”, sia questa il proprio territorio/quartiere, sia questa la propria comunità professionale. Viene invece meno la voglia di delegare su tematiche più generali e “lontane” dalla vita quotidiana. 

Il combinato disposto di questi due elementi individua, a mio modo di vedere, lo spazio di azione entro il quale può operare la sinistra in Italia nei prossimi anni, anni che saranno caratterizzati da una pesante involuzione democratica, delle tutele lavorative e dei diritti sociali. In questo nuovo Medio Evo che ci si prospetta, il socialismo dovrà ripartire dall’inizio: intercettare la voglia di eguaglianza e partecipazione comunitaria e di prossimità, porsi come soggetto di ricostruzione dal basso di una società sulla quale, dopo lo schiacciasassi della crisi, passerà lo schiacciasassi della fuoriuscita neoliberista dalla crisi stessa, ricostruire microprogettualità locale e mutualismo di prossimità, e ridare speranza ad un Paese che, da sempre, trova le sue migliori espressioni nella ricchezza delle sue espressioni localistiche. 

D’altro canto, la domanda di equità distributiva e di mobilità sociale non potrà che emergere con prepotenza e, come si è visto, non potrà non vedere un rinnovato ruolo dei servizi essenziali, attivatori di capacitazioni di base, e quindi un rinnovato ruolo della mano pubblica. Che però, rispetto al welfare novecentesco, dovrà probabilmente tenere conto di un quadro mutato, di risorse inferiori, prodotte da tassi di crescita meno brillanti che nel ventennio glorioso del secondo dopoguerra, e della già rammentata rinnovata voglia di protagonismo di comunità espressa dagli italiani. Un modo socialista per ricostruire una presenza pubblica nei servizi essenziali, dunque, dovrà tener conto di esigenze reali di sussidiarietà orizzontale, in cui il soggetto pubblico dovrà continuare ad erogare direttamente ed in proprio i livelli minimi essenziali, definiti in base al loro impatto sulla parificazione delle capacitazioni individuali e del loro livello di costo e complessità (in una visione dinamica di questi ultimi, che porti ad un loro progressivo innalzamento in funzione dell’innalzamento della domanda sociale lungo la piramide di Maslow), per poi attuare in funzione di programmazione, regolazione e controllo di un maggior protagonismo delle comunità nell’erogazione di servizi che vadano oltre tali livelli essenziali. 

Programmazione, controllo e regolazione che saranno socialisti, e dunque si differenzieranno dalle proposte della destra liberale, nella misura in cui porteranno ad un effettivo empowerment delle comunità locali, cioè in una effettiva gestione comunitaria dei servizi, e non in una privatizzazione nascosta, per favorire un “terzo settore” legato alla politica ed al business finanziario, come invece traspare evidentemente nel progetto di “big society” di David Cameron, che è in realtà una privatizzazione, ed una finanziarizzazione (mediante lo strumento dei social bonds) dei servizi sociali, che, ovviamente, affidati al mercato, non potranno che generare i tipici effetti di inefficienza allocativa e diseguaglianza distributiva che produce il libero gioco delle forze di mercato. Converrà infatti sempre erogare servizi sociali a chi può pagare, e quindi può generare reddito, rispetto a chi non può pagare, ma per ciò stesso sarebbe più bisognoso di tali servizi, aumentando quindi la scala delle diseguaglianze. 

E quale ruolo per i partiti e le rappresentanze sociali intermedie? E’ evidente che l’opinione pubblica, probabilmente sulla spinta di un furore ideologico che poco ha a che vedere con le malefatte reali e presunte dei partiti novecenteschi, ha introiettato una visione negativa degli stessi, e che la forma-partito potrà salvarsi soltanto se diverrà più orizzontale, meno gerarchizzata, più partecipata, e quindi, a differenza delle malsane idee di “movimento in rete” e virtuale proposte dal M5S, saprà radicarsi nuovamente nei territori e nei luoghi di lavoro e di vita, con forme di democrazia diretta ed interna molto maggiori  di quelle attuali, garantite dallo Statuto e da appositi organi indipendenti dal partito, e preposti alla vigilanza del livello di democrazia e di libertà di dibattito interno. 

E’ del tutto evidente, però, che tali partiti non potranno avere la forma liquida e virtuale, ma, anzi, per certi versi dovranno tornare ad essere solidi, ad avere un reticolo di sedi e circoli, a discutere dentro le collettività locali, a tornare ad avere una progettualità, sia micro che macro. Solo in questi termini, i partiti potranno tornare a richiedere forme, anche limitate (p. es. ai soli partiti di opposizione) di finanziamento pubblico, essenziali per una corretta vita democratica, relativamente meno dipendente dalle lobby (che comunque, chiariamolo, sono presenti ed influenti anche in un sistema di totale finanziamento pubblico ai partiti). La tradizione libertaria del socialismo, ancora una volta, pone tale cultura politica in vantaggio rispetto alle altre, nel proporre un cambiamento della forma-partito di questo tipo.

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