IL CONVEGNO DEL MPL A CHIANCIANO
TERME: IMPRESSIONI SU UN PROMETTENTE SUCCESSO
Record di partecipanti (circa 400) all’assise
tenutasi in terra toscana: l’atmosfera finalmente distesa e il lancio di una
proposta di collaborazione, discutibile nei contenuti, ma concreta, inducono a
un cauto ottimismo
di
Norberto
Fragiacomo
La mattina di sabato 11 Chianciano Terme è un’albergopoli fantasma: manco
un’anima in giro; entriamo in un bar per un caffè, ma dietro il bancone non c’è
nessuno.
Avanti verso l’Hotel Villa Ricci, allora, e qui la prospettiva cambia:
decine e decine di persone che vociano, s’informano, si mettono in fila.
Compagne e compagni in febbrile attesa dell’evento. Gli organizzatori lavorano
duro: appaiono ovunque, rispondono con gentilezza alle domande più varie,
mostrano un’invidiabile efficienza. Sono sorpresi, però, quasi sconcertati
dalla massiccia affluenza. Percepisco la loro soddisfazione, mista a un po’ di
ansia: la sala dell’albergo è insufficiente ad accoglierci tutti, tocca
spostarci altrove – e questo provoca uno slittamento dei tempi. Il primo giorno
dei lavori sarà concentrato nel pomeriggio-sera: si annuncia un’autentica
maratona, che metterà a dura prova le nostre forze (e soprattutto la nostra
attenzione).
“OLTRE L’EURO – La sinistra. La
crisi. L’alternativa”: sfoglio la pregevole brochure, che contiene brevi
biografie (e dicta) dei relatori ed
una proposta di documento finale redatta dai promotori (Movimento Popolare di
Liberazione e Bottega Partigiana). Ne discuteremo, e non soltanto
nell’immediato.
Il dopopranzo è dedicato al seminario economico (“Oltre l’euro: per
andare dove?”), introdotto dal padrone di casa, Moreno Pasquinelli, che ascolto per la prima volta dal vivo. Inizia
con una domanda volutamente provocatoria (“E’ davvero finita la dicotomia
destra-sinistra?”) e si risponde: “la sinistra è l’unico luogo in cui si è
fatto un ragionamento sul destino storico del capitalismo e sulla possibilità
di costruire un’alternativa, oltre che sulla capacità di mobilitare gli oppressi.
Qua si discute di fuoriuscita dal capitalismo. Tutti percepiamo che siamo
dentro un cambiamento storico. La domanda anche di chi non è di sinistra è la
seguente: cosa c’è dopo il capitalismo?” Assicura che per lui il capitalismo
non è l’ultima frontiera, e cita due “date periodizzanti”: il 1971 – in cui
nasce il capitalismo casinò, e si afferma l’egemonia della borghesia
finanziaria, definita “un’aristocrazia con religione neoliberista”, sulla
propria classe – e naturalmente il 1989. Due sarebbero anche i tabù della
sinistra: la sovranità nazionale e il protezionismo. Segue un’analisi ricca di
digressioni storiche (crisi della Ruhr del ’23 ecc.), volta a dimostrare che
movimenti spontanei, anche ispirati dalla destra, possono venir convertiti ad
una battaglia di sinistra popolare. La novità più interessante sarebbe il
Movimento 9 dicembre, cui il MPL ha aderito criticamente: “la prima linea erano
giovani precari, giovani disoccupati” ecc. “E’ un inizio promettente: si può
sperare di saldare l’intellettuale collettivo con questa nuova protesta
giovanile.” Non vuole gli Stati Uniti d’Europa, il MPL, e lancia un appello
(contenuto nel documento) per la costituzione di un Comitato di liberazione
nazionale capace di rappresentare “un’alternativa politica ai criminali che ci
governano”. Per l’uscita dall’euro “sovranista-democratica” (quindi non
socialista), che Pasquinelli caldeggia, è sufficiente una convergenza di forze
che si riconoscono nella Costituzione su pochi punti comuni (1. uscita
unilaterale dall’eurozona; 2. nazionalizzazione del sistema bancario; 3.
emissione della nuova lira; 4. misure restrittive dei movimenti di capitali; 5.
moratoria sul debito pubblico); raggiunto l’obiettivo, spetterà ai cittadini
“scegliere liberamente il loro futuro, quale tipo di società essi riterranno
più giusta.”
In sintesi, una proposta emergenziale-minimale [1]; ma
quali siano, al di fuori di una parte della
sinistra anticapitalista, “le forze (minimamente organizzate) che si
riconoscono nella Costituzione” non viene esplicitato. Si tratta, par di
capire, di formazioni sociali, parzialmente o per nulla politicizzate.
E’ poi il turno di numerosi ed autorevoli economisti, che meriterebbero –
in una relazione come si deve – assai più spazio del poco che riuscirò a concedere
loro. Il professor Ernesto Screpanti, studioso attento di un Marx
da “liberare da ogni metafisica hegeliana, etica kantiana e determinismo
economico”, comincia la sua riflessione dalla crisi come “culmine di un
processo di trasformazione da un capitalismo a un altro, da un imperialismo a
un altro.” L’analisi storico-economica è accurata ed avvincente; la conclusione
è che questa crisi, “più pesante di quella del ’29, apre forse una finestra
rivoluzionaria, per via dell’impoverimento globale. Il moto partirà probabilmente
dall’Asia (non è una profezia, tiene a sottolineare: solo una previsione,
basata su fatti economici), ma molto dipenderà dai soggetti sociali e politici.
Però c’è il rischio che si ripeta il ’29, con l’incapacità della sinistra di
cogliere l’occasione storica.” Infine un aut aut che è anche omaggio a Rosa
Luxemburg, assassinata novantacinque anni fa con la complicità di socialisti
rinnegati: “Socialismo o barbarie”, intendendo per barbarie l’imperialismo
globale delle multinazionali.
Sergio Cesaratto, economista lui pure, ci dispensa un intervento problematico, a suo modo
sofferto. Dal confronto tra due economisti dell’800, il “suo” Marx e Friedrich
List – pensatore democratico, teorico del protezionismo economico e “padre”
dello Zollverein tedesco -, sembra uscire vincitore il secondo: contrariamente
a quanto opina l’autore de Il Capitale, “per i lavoratori, anche per loro, è
importante l’esistenza di uno Stato nazionale, perché lo Stato è il campo di
gioco in cui i lavoratori operano avanzamenti.” Lo studioso confessa, con ammirevole
onestà intellettuale, di non essere pienamente soddisfatto delle proprie
conclusioni e invoca salutare cautela sull’uscita dall’euro: bisognerebbe
premere sull’Europa, e solo in caso di irremovibilità dell’istituzione trattare
una rottura consensuale. Cesaratto si dice preoccupato dal cappio della
speculazione; il suo è un invito all’unità a sinistra (“persino con Vendola”,
azzarda; poi si corregge) e al sostegno alla Lista Tsipras.
Dopo un difficoltoso collegamento in streaming con Marco Passarella, che si sofferma sull’attualità della
pianificazione economica, è la volta dell’investitore americano Warren Mosler, guru della MMT (Modern
money theory) e autentica star del convegno. Grazie ad un interprete bravissimo
non ci perdiamo una parola di quella che è una vera e propria lezione di
economia “eterodossa”, inframmezzata da pause - ad effetto - riempite dai boati
del pubblico. L’esposizione è anche uno show all’americana, infarcito di
battute (“Draghi ci ha salvato dalla crisi finanziaria, ma non ci sono stati
sopravvissuti” è un esempio) e domande retoriche; sul grande schermo si
rincorrono slides cui è affidato il
compito di fissare i concetti chiave. Dimentichiamo ciò che sta scritto sui
manuali: “la moneta viene dal governo e viene usata per pagare le tasse.”
Perciò “il governo deve prima spendere e poi tassare.” Vengono offerte di
seguito definizioni di deficit e debito pubblico, con la precisazione che “non
esiste ripagare tutto il debito, è moneta messa lì in attesa che si paghino le
tasse, visto che corrisponde ai risparmi privati. Il problema è la
disoccupazione, l’unica ragione della quale è il deficit troppo basso.”
Chi
scrive non ha un’adeguata preparazione economica, e rimanda pertanto alle
annotazioni degli esperti e agli atti del convegno (di prossima pubblicazione);
merita però riassumere le conclusioni: Mosler manderebbe un ultimatum alla UE,
intimandole di allentare la stretta sul deficit (dal 3 all’8% almeno), onde
consentire un aumento della spesa pubblica che faccia calare la disoccupazione
e, insieme, l’abbassamento delle tasse; di fronte al quasi certo rifiuto,
bisognerebbe tornare alla lira, senza
svalutare (rapporto lira-euro: 1-1), e dar vita ad un sistema misto
lira/euro. In questa cornice, un aumento delle esportazioni non è affatto il
toccasana: “la vera ricchezza dell’Italia è l’insieme di beni e servizi reali
più ciò che si importa, mentre l’export diminuisce la ricchezza reale.” Occorre,
ovviamente, liberarsi dell’attuale leadership nazionale, seguace – al pari di
quella europea – dell’ortodossia economica.
Quesito: è percorribile, dal punto di vista strettamente economico, la
strada indicata da Warren Mosler? Lascio la risposta a compagni più preparati
del sottoscritto, e mi limito a rilevare che il ragionamento dello studioso
pecca di quell’astrattezza che caratterizza, in genere, le riflessioni e le
teorie economiche. Esso implica, a parer mio, un fair play tra soggetti
politico-finanziari (Stati, istituzioni sovranazionali, attori dei mercati
ecc.) che non ha riscontro in una realtà connotata, invece, da aggressioni,
interferenze e colpi bassi continui. Se le cose vanno come vanno non è perché i
decisori «non sanno quello che fanno», bensì per via di scelte precise e
consapevoli: uno Stato che ricusasse le regole imposte sarebbe immediatamente
sommerso. Le concezioni economiche dominanti sono sovrastruttura
pseudoscientifica dei brutali rapporti di forza vigenti a livello globale: per
modificare le prime è indispensabile scuotere i secondi. Aver ragione da un
punto di vista teorico non serve a nulla, e soprattutto non cambia nulla.
Le ore passano, gli appunti si fanno più radi – e me ne scuso con il
lettore. Nino Galloni, economista
con incarichi governativi alle spalle, ci propone una sobria relazione
“all’italiana”, non certo povera di spunti. Economia e politica stavolta si
mescolano: visto che il (loro)
“progetto complessivo è mettere tutta la liquidità al servizio della grande
finanza internazionale” è urgente “ripristinare la separazione tra banche di
credito e di investimento”. Ma “è possibile un modello non capitalistico?”, si
chiede il relatore. Scartata l’opzione decrescita – sinonimo di arretratezza e
inefficienza, ma soprattutto incompatibile con l’attuale consistenza della
popolazione – rimane la possibilità di virare verso un sistema in cui la
moneta, strumentale rispetto all’economia insieme al credito, non abbia valore
intrinseco (e renda impossibile il risparmio). L’attuale modello finanziario,
per Galloni, sarebbe già “postcapitalista”, dal momento che la produzione ha un
ruolo marginale (a chi scrive risulta, però, che per Marx una progressiva
finanziarizzazione rappresenta l’ineluttabile destino dello sviluppo
capitalistico…); quanto agli scenari futuri, la Cina, pompando la domanda
interna, si candida a leader mondiale, mentre la Germania – che punta
esclusivamente sulle esportazioni e deprime la propria domanda – va ciecamente
incontro alla catastrofe.
Tocca a ‘sto punto a un giurista, il Presidente di Sezione del Consiglio di
Stato Luciano Barra Caracciolo (e la
presenza di un alto magistrato all’assise mi stupisce). Il tema trattato (“La
convivenza impossibile tra Costituzione e Trattati europei”) m’intriga
parecchio, visto che ho scritto più volte su questo argomento, ma l’ora è
tarda, la stanchezza minaccia di prendere il sopravvento: urgono una doccia e
un ripasso mentale in vista della tavola rotonda della serata. Do un’ultima
occhiata alla sala, gremita da centinaia di spettatori, e a malincuore prendo,
coi compagni di BRIM, la via dell’albergo.
La cena è frugale, ma il rispetto degli orari resta utopia (socialista):
invece che alle 9, il dibattito – protagonisti Screpanti, Martini, Pasquinelli
e il sottoscritto, ai quali si aggiunge in extremis Giorgio Cremaschi; moderatore
è Valerio Colombo, del Partito Umanista – incomincia alle dieci passate. Il
tema è stimolante (“Quale società per il futuro?”), e ciascuno prova a
svolgerlo al meglio. Screpanti provoca con intelligenza: “Cosa proponiamo?
Welfare, partecipazioni statali, nazionalizzazioni ecc. Tutto qua? Ma allora è
un semplice ritorno alla DC degli anni ’50-’60!”, esclama. Certo, il modello
stalinista non è riproponibile per un triplice ordine di problemi: le carenze
nella raccolta di informazioni (menziona l’iperliberista von Hayek, secondo cui
la pianificazione non funziona perché le informazioni non sono reperibili), la
mancanza di incentivi (e lo stakanovismo?), un sistema oppressivo nei confronti
dei lavoratori stessi. Per il relatore fondamento del capitalismo non è, come
riteneva Lenin, la proprietà privata dei mezzi di produzione, bensì il rapporto
che si instaura tra lavoratore e padrone, consistente in uno scambio ineguale
tra obbedienza e salario. Il capitalismo, in sostanza, si fonda sulla
negazione della libertà. Giorgio
Cremaschi riconosce che “sinistra” è una parola malata, perché la sinistra
(non solo in Italia) non è più sinistra, è destra travestita. Per attrarre gli
investimenti si rende più flessibile il lavoro: “questa è pornografia
economica”, tuona all’indirizzo di Renzi (e del neoconvertito Landini). Il job act non gli va proprio giù, a
partire dal nome: in inglese, “job” indica la prestazione occasionale, mentre
“work” è il lavoro come comunemente lo intendiamo (si parla, non a caso, di working class) e “labour” è l’attività
libera, creativa cui fanno riferimento i primi articoli della Costituzione. Due
sono i terreni di lotta: l’edificazione di una nuova società (secondo
Cremaschi, e pure secondo me, gli elementi caratterizzanti il piano capitalista
sono la distruzione della contrattazione collettiva – con la complicità
sindacale – e lo smantellamento del welfare: “pensioni, sanità, trasporti ecc. sono le terre comuni che il capitale
vuole recintare”) e la ricostruzione di un blocco sociale. Il giovane Claudio Martini, di Bottega Partigiana,
parte dall’esperienza greca per osservare che “la gente non si ribella perché
sta male; si ribella quando ha in mente un sistema da sostituire all’attuale.
Se c’è un’idea positiva di sostituzione c’è la possibilità di un rivolgimento.”
Martini spezza una lancia in favore della decrescita, e poi fa due affermazioni
“eretiche” (rispetto alle tesi degli altri partecipanti al dibattito): “chi ha
il potere oggi è il ceto politico, è lui il nostro nemico di classe” e “la UE è
un nemico di comodo. Essa non sottrae sovranità agli Stati, perché non è una
vera federazione; se lo volessero, gli Stati potrebbero uscirne [2].” In
effetti, un discorso talmente “eretico” da risultare mainstream: capita, quando - con troppa disinvoltura - si nega la
negazione.
Evito di riportare le mie parole – le trovate disseminate negli articoli
scritti per Bandiera Rossa in Movimento – e passo a Moreno Pasquinelli, che
parte da lontanissimo (la Pace di Westfalia) e, dopo aver ribadito che “si affaccia,
oggi, un totalitarismo postcapitalista”, dichiara la fame sufficiente a
scatenare il caos. Tuttavia non si batte la classe dominante “né con le
molotov, né con gli scioperi, né con le elezioni: ci vuole una sollevazione, la
rivoluzione democratica” propugnata nel documento che ci è stato distribuito.
Il secondo giro di interventi si snoda più rapido; malgrado l’ora tardissima [3], la sala
dell’hotel è ancora sorprendentemente piena. Screpanti esalta in Marx il
filosofo della libertà come autorealizzazione attraverso il lavoro; Cremaschi
dà ragione a Pasquinelli su alcuni punti (“non penso che si debba rivendicare
subito il socialismo” e “bisogna rilanciare il pubblico”), poi parte con la
stoccata: “i forconi non sono utilizzabili per la nostra battaglia.” La
discriminante antifascista è pratica: i fascisti sono nemici, e stop. No alle
patrie, e quello sventolio di tricolori insospettisce.
La replica di Moreno Pasquinelli è accorata ed efficace: “i rivoluzionari
onesti lottavano per patria e socialismo. E’ forse reazionario, fascista, un
operaio che, caricato dalla polizia, si siede in terra e intona l’inno di
Mameli? Ci sono tabù a sinistra. Non abbiamo paura dei fascisti, perché siamo
forti delle nostre idee. Dopo trent’anni di neoliberismo cosa pretendiamo, la
classe bell’e pronta?” Rivendica con orgoglio la partecipazione del MPL al
movimento del 9 dicembre, il ruolo giocato nella rottura con l’impresentabile
Danilo Calvani. “Costruiamo l’opposizione con le forze esistenti”, esorta, e in
linea di principio ha sicuramente ragione.
Il problema fondamentale resta, a mio avviso, riconoscerle, queste forze,
e riuscire a coinvolgerle in un progetto chiaro e lineare. Lotta per la
democrazia? Nella Costituzione ci sono i semi del socialismo (basta leggersi la
prima parte per accorgersene), e proprio quei semi dovremmo innaffiare,
trascurando l’abbondante gramigna. Per la borghesia produttiva in fase di
proletarizzazione un socialismo basato su garanzie, libertà e cooperazione è
senz’altro preferibile allo sfacelo; a loro volta, studenti, operai, pensionati
e precari hanno tutto da guadagnare da un mutamento di paradigma. Forse non lo
sanno ancora, perché abbondantemente cloroformizzati dai media – ma se non
riusciamo ad aprire loro gli occhi, non si batteranno né per il socialismo né
per le libertà borghesi. Per scacciare TINA occorre oggi una rivoluzione socialista, che è sinonimo di rivoluzione democratica
poiché – come ha ben evidenziato Screpanti – “il capitalismo nega la libertà”,
e l’unica alternativa al predominio del capitale (e alla schiavitù
generalizzata) è, per l’appunto, il socialismo/comunismo.
E’ “usciamo dall’euro!” la parola d’ordine per mobilitare-sollevare le
masse, e tosto condurle nella direzione per loro più conveniente? Credo proprio
di no. In primis, perché il messaggio
è ambiguo, e lo prova il suo continuo utilizzo da parte di fascisti, leghisti e
persino di Berlusconi (sentendolo ripetere da mesi dal cavaliere in tv, e non
conoscendo affatto la posizione del MPL sul tema, la gente comune finirebbe per
credere che… la sinistra “estrema” sia passata a destra!); in secondo luogo,
perché l’euro è solo uno dei tanti strumenti di cui si avvale la classe
finanziaria al potere in Europa e nel mondo. Non ripeterò ciò che ho scritto
anche di recente, ma segnalo l’esistenza di argomenti almeno altrettanto forti
contro questa Europa: in un’epoca di
licenziamenti a raffica, una decisa campagna contro le delocalizzazioni statutariamente benedette dall’Unione Europea,
accompagnata da parole inequivocabili in difesa di beni comuni, salari,
pensioni e – perché no? – microimprese strozzate dall’assenza di credito,
potrebbe suscitare la passione popolare.
Il CLN è un’eccellente trovata – ma non con chiunque, non a qualsiasi
costo.
Certo, si può sopravvivere a una sconfitta, a un fallimento. Si può tornare a nuova vita dopo essere precipitati nel vuoto di una lacerante depressione, e rinascere dal doloroso decorso di una grave malattia. Si può sopravvivere alla furia di una calamità naturale che ti ha tolto tutto, e al dolore incommensurabile per la perdita di un figlio. Si.. si può sopravvivere a tutto in questa via…, certo!! Ma che grande rottura di coglioni! Quando è troppo è troppo!!!
RispondiEliminaCaro Fragiacomo,
RispondiEliminaCompimenti per l'ottimo resoconto, stringato ma fedele. V solo tre osservazioni:
1) il convegno non era "del MPL". Era organizzato da MPL e da Bottega Partigiana. Moreno Pasquinelli non era "padrone di casa" più di quanto lo fossi io.
2) ho spezzato una lancia a favore della decrescita E del socialismo. Forse andrebbe sottolineato, visto che ho esordito dicendo "io sono per la decrescita e per il socialismo, ma stasera vi parlerò solo di quest'ultimo".
3) le posso chiedere perché la tesi del dominio "di classe" del ceto politico e quella secondo cui la sovranità è un falso problema sarebbero tesi manistream? Ciò mi conforterebbe, ma ho la netta impressione del contrario.
La ringrazio
Claudio Martini
Caro Martini,
RispondiEliminasono io a ringraziare lei per la precisazione. Ho scritto che il convegno era organizzato da MPL e BP, però nel titolo ho riportato solo la prima sigla: faccio ammenda. Beh, Moreno ha fatto da "padrone di casa", tra prolusione e dibattito... comunque non era mia intenzione sminuire il vostro ruolo, niente affatto.
Non sono aprioristicamente contrario alla decrescita, quindi la mia non era una critica... nei miei appunti sì, c'era la parola "socialismo", ma non l'ho riportata perchè dal contesto si capiva che di quello abbiamo parlato, e il riferimento alla decrescita mi pareva uno spunto interessante.
Personalmente non credo che il ceto politico giochi un ruolo egemone, in questo momento, tutt'altro (non certo in Italia, almeno): la "casta", in questo momento, è un capro espiatorio comodo, perché ripugnante. Lo so che il suo ragionamento è più complesso, e assai lontano da certe interessate volgarizzazioni, ma il messaggio che arriva all'ascoltatore rischia di essere quello. Quanto all'Europa, non la vedo come mero "travestimento" di governi complici: al di là dell'inutilità di un Parlamento da teatro dell'assurdo, ci sono i governanti nei Consigli, questo è vero, ma la Commissione vive di vita propria e, a mio avviso, persegue una sua politica a beneficio di ben determinati stakeholders. Chiedo scusa se in questa replica sono stringatissimo, ma magari un giorno ne parleremo con calma. Infine: la sovranità, il suo recupero. Non ci credo, e soprattutto non ci tengo. L'unico cascame positivo di questa UE - un suo effetto collaterale - è il riavvicinamento, operatosi in questi decenni, in questi anni, tra popoli e genti diverse. Non è novità assoluta; leggendo Zweig scopriamo che, prima del '14, questa "comunità" era un fatto, almeno tra i membri delle classi colte (ma pure tra i proletari organizzati). Si viaggiava tra un Paese e un altro (v. Leghissa) senza particolari difficoltà burocratiche. Poi le classi dominanti puntarono sul concetto di Nazione, e l'incanto ottocentesco si ruppe... producendo milioni di morti. E' mia personalissima opinione che il rinchiudersi nelle patrie sia nocivo e pericoloso (lo scrissi già in un'intervista a un autorevole membro del PCP portoghese), che sia opportuno lottare per un'Europa federale e socialista - che non sia aggiustamento dell'attuale "monstrum", perché va ricostruita ex novo.
Con stima,
Norberto