Al fine di fornire supporto didattico ad esigenze di formazione in
materia di teoria marxista di base, ho preparato un breve corso diviso in
cinque dispense, che, mi auguro, possa restituire, nel modo più semplice e
comprensibile possibile, gli elementi di
base dell’elaborazione teorica “classica” del marxismo.
La ripresa dello studio dei fondamenti teorici del pensiero marxista è,
a mio avviso, un elemento fondamentale, anche per chi non si reputa marxista,
per comprendere ed analizzare la fase attuale di crisi strutturale del capitalismo,
e quindi rappresenta una delle basi culturali irrinunciabili per la rinascita
di una sinistra radicale in grado di proporre un pensiero anticapitalista.
Le dispense sono organizzate tematicamente, in modo da fornire, per
ogni tema, gli elementi di base del pensiero marxista classico, e poi di
elencare a fine dispensa, per chi decidesse di approfondire maggiormente il
tema, una bibliografia ulteriore. Le dispense sono cinque:
1 – Materialismo storico e dialettico
2 – Il pensiero economico marxista
3 – La teoria marxista della rivoluzione
4 – Marxismo ed imperialismo
5 – Il partito marxista
I temi trattati, come si vede, sono pensati essenzialmente per un corso
di base.
Dispensa nr. 1 – Materialismo storico e dialettico
Positivismo e critica al materialismo volgare
Il pensiero marxiano ha prima di
tutto radici filosofiche, che è bene conoscere nei loro tratti fondamentali,
poiché tali radici spiegano il pensiero politico, sociale ed economico di Marx.
Il pensiero filosofico di Marx
affonda le sue radici, da un lato, nel positivismo. Il positivismo è un
movimento culturale generale che tocca tutti i campi del sapere,
convenzionalmente inizia in Francia, diffondendosi poi in tutta Europa nel
1830, anno in cui August Comte, positivista francese, pubblicò “Corso di filosofia
positiva”. Prospetta l’esaltazione della scienza, ragione, tecnica in antitesi
al pensiero religioso e metafisico, poiché solo l’osservazione scientifica ed
empirica può spiegare il mondo. Corollario del positivismo, che fu, è bene
ricordarlo, filosofia fondante della nascente borghesia industriale
ottocentesca, è quello di una visione gradualistica e lineare dell’evoluzione
storica. Secondo Comte, infatti, la storia umana passa attraverso fasi ben
precise: quella teologica, dagli albori fino alla caduta dell’impero romano, in
cui predominano gli elementi irrazionali e spirituali, quella metafisica, che
coincide con il Medio Evo, in cui predomina la religione come elemento
ordinatore della vita sociale, quella positiva o scientifica, che si impone a partire
dalla Rivoluzione industriale. Secondo Comte quest’ultimo dell'umanità si è
affermato con il metodo sperimentale o scientifico di pertinenza esclusiva
delle scienze naturali e della matematica. Egli fonda anche la sociologia, come
l'osservazione e l'analisi dei fenomeni sociali e la scoperta delle cause che
li determinano.
Del positivismo, il pensiero di
Marx adotta il principio fondamentale secondo cui l’analisi storica e sociale
deve partire dall’osservazione oggettiva delle condizioni materiali in cui
vivono e producono i vari gruppi sociali. La dinamica storica, in Marx, non è
determinata da obiettivi idealistici, o teorici, o da fini religiosi, e nemmeno
da elementi astratti elevati a principi generali, ma dalle concrete condizioni
economiche in cui le varie classi che compongono la società si vengono a
trovare, condizioni determinate dalla loro posizione nel ciclo produttivo
generale, che definisce la struttura di quella società (modo di produzione).
Egli infatti criticherà i socialisti idealisti (Fourier, Saint Simon) in quanto
questo tipo di socialismo, elaborato nei primi anni dell’Ottocento, si basava
ancora su una visione idealistica, e quindi utopistica, delle potenzialità
della ragione umana, intesa come ente astratto, di condurre ad una società
razionale e quindi “perfetta”. Ecco cosa dirà Friedrich Engels nell’”Antidühring”,
a proposito dei socialisti utopisti: “All'immaturità della produzione
capitalistica, all'immaturità della posizione delle classi, corrispondevano
teorie immature (ovvero le teorie
socialiste utopistiche, NdA). La soluzione delle questioni sociali, che
restava ancora celata nelle condizioni economiche poco sviluppate, doveva
uscire dal cervello umano. La società non offriva che inconvenienti: eliminarli
era compito della ragione pensante. Si trattava di inventare un nuovo e più
perfetto sistema di ordinamento sociale e di elargirlo alla società
dall'esterno, con la propaganda e, dove fosse possibile, con l'esempio di
esperimenti modello. Questi nuovi sistemi sociali erano, sin dal principio,
condannati ad essere utopie: quanto più erano elaborati nei loro particolari,
tanto più dovevano andare a finire nella pura fantasia (…) Gli utopisti,
abbiamo visto, furono utopisti perché non potevano essere altro in un'epoca in
cui la produzione capitalistica era ancora così poco sviluppata. Essi furono
obbligati a costruire gli elementi di una nuova società traendoli dal proprio
cervello, perché nella vecchia società questi elementi generalmente non erano
ancora chiaramente visibili; per i tratti fondamentali del loro nuovo edificio
essi furono ridotti a fare appello alla ragione, precisamente perché non
potevano ancora fare appello alla storia del loro tempo”. La critica marxiana
al socialismo utopistico è quindi quella di aver in qualche modo
“spiritualizzato”, se così si può dire, la ragione umana, facendone un
principio astratto ordinatore dell’evoluzione storica, anziché ripiegarsi ad
osservare empiricamente le condizioni materiali definite dalle caratteristiche
del modo di produzione vigente in una data fase storica.
Marx si distaccherà, però, dal
positivismo, ed in generale dal materialismo “volgare”, ed il distacco avverrà
soprattutto nelle “11 Tesi su Feuerbach”, in cui contesta al materialismo
volgare l’assenza di una visione in qualche modo dinamica, cioè l’incapacità,
preso atto delle basi materiali ed oggettive dei fenomeni naturali e sociali,
di prendere in considerazione la possibilità che l’azione umana stessa
modifichi la natura e gli assetti sociali. Scrive infatti Marx “Il difetto
principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è
che l'oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma dell'
obietto (Objekt, ciò che è proiettato fuori dal soggetto) o dell' intuizione;
ma non come attività umana sensibile, come prassi, non soggettivamente. È
accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato, in modo astratto e in
contrasto col materialismo, dall'idealismo, che naturalmente ignora l'attività
reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente
distinti dagli oggetti del pensiero; ma non concepisce l'attività umana stessa
come attività oggettiva. Perciò nell'Essenza del cristianesimo egli considera
come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la prassi è
concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente
giudaica. Pertanto egli non comprende l'importanza dell'attività
"rivoluzionaria", dell'attività pratico-critica”. L’incapacità di
considerare la prassi, cioè l’attività pratica che modifica la natura e la
società, fa del materialismo volgare, e del positivismo borghese, un pensiero
sostanzialmente conservatore dal punto di vista politico. Infatti, prosegue
Marx, “la dottrina materialistica, secondo la quale gli uomini sono prodotti
delle circostanze e dell'educazione, dimentica che sono proprio gli uomini che
modificano le circostanze e che l'educatore stesso deve essere educato. Essa è
perciò costretta a separare la società in due parti, una delle quali sta al di
sopra dell'altra. La coincidenza nel variare delle circostanze dell'attività
umana, o autotrasformazione, può essere concepita o compresa razionalmente solo
come prassi rivoluzionaria”. In ultima analisi, dunque, il materialismo ed il positivismo si
risolvono in fondamenti teorici della società borghese: “il punto di vista del
vecchio materialismo è la società borghese; il punto di vista del nuovo
materialismo è la società umana, o l'umanità sociale”.
L’errore fondamentale del
positivismo, o del materialismo alla Feuerbach, è infatti quello di considerare
l’essenza umana come immanente al singolo individuo, e non come l’insieme dei
rapporti sociali che legano questo individuo al modo di produzione, e quindi lo
definiscono.
Rovesciamento materialistico della dialettica hegeliana
Questo punto di vista consente a
Marx di rielaborare in senso materialistico anche la dottrina della dialettica
di Hegel. Georg Wilhelm Friedrich Hegel è il principale ispiratore della
filosofia occidentale dell’Ottocento. Secondo tale filosofo, il procedimento
dello Spirito, ed anche il procedimento per arrivare allo Spirito, e
riconciliarlo con il mondo sensibile, è la dialettica non più intesa come
quella aristotelica costituita dai due momenti della tesi e dell'antitesi ma da
un movimento a tre stadi, secondo il quale ogni posizione (tesi) deve essere
superata, negata (antitesi) nelle sue determinazioni particolari, per
riaffermarsi, negando l'ultimo stadio raggiunto, con la negazione della
negazione (quindi con una nuova affermazione), in una determinazione superiore
(sintesi). Marx, nel suo procedimento logico, riprenderà la dialettica
hegeliana, ma ripulendola di ogni pretesa spirituale, e riconducendola quindi
alla realtà materiale dei fenomeni sociali ed economici. Già nel settembre
1844, Marx scrive con il suo amico Engels La Sacra Famiglia, in cui demolisce
la ricerca hegeliana di una assolutizzazione astratta dei fenomeni reali del
mondo. In un famoso passo, egli scrive “se io, dalle mele, pere, fragole,
mandorle - frutti reali - mi formo la rappresentazione generale frutto e
immagino che il frutto - la mia rappresentazione astratta, ricavata dai frutti
reali - sia un'essenza esistente fuori di me, sia anzi l'essenza vera della
pera, della mela, ecc., io dichiaro - con espressione speculativa - che il
frutto è la sostanza della pera, della mela, della mandorla ecc. Io dico allora
che per la pera non è essenziale essere pera, che per la mela non è essenziale
essere mela. L'essenziale, in queste cose, non sarebbe più la loro esistenza
reale, sensibilmente intuibile, ma l'essenza che ho astratto da esse e ad esse
ho attribuito, l'essenza della mia rappresentazione il frutto. Io dichiaro
allora che mela, pera, mandorla ecc., sono semplici modi di esistenza, modi del
frutto. Il mio intelletto finito, sorretto dai sensi, distingue certamente una
mela da una pera e una pera da una mandorla, ma la mia ragione speculativa
dichiara inessenziale e indifferente questa diversità sensibile. Essa vede
nella mela la stessa cosa che nella pera, nella pera la stessa cosa che nella
mandorla, cioè il frutto. I frutti particolari e reali non valgono più che come
frutti apparenti, la cui vera essenza è la sostanza, il frutto [...] Il
minerologo la cui scienza si limitasse a dire che tutti i minerali sono in
realtà il minerale sarebbe un minerologo solo nella sua immaginazione”.
Nella parte finale dei
Manoscritti Economico-Filosofici del 1844, egli porta a compimento il
rovesciamento in senso materialistico della dialettica hegeliana. Egli infatti,
aiutandosi con la critica di Feuerbach, ricostruisce la dialettica hegeliana in
questo modo: “Hegel prende le mosse dall'estraniazione (logicamente,
dall'infinito, dall'universale astratto) della sostanza, dalla astrazione
assoluta e fissata; vale a dire, con espressione popolare, dalla religione e
dalla teologia (tesi, nda). In
secondo luogo: egli sopprime l'infinito, e pone l'effettivo, il sensibile, il
reale, il finito, il particolare (la filosofia, la soppressione della religione
e della teologia, antitesi o negazione,
nda). In terzo luogo: egli sopprime di nuovo il positivo, e pone di nuovo
l'astrazione, l'infinito. Ristabilimento della religione e della teologia (sintesi o negazione della negazione,
nda). In questo modo, il pensiero hegeliano rimane confinato dentro la sfera
spirituale, e non riesce a fornire una chiave di interpretazione del concreto
svolgersi della storia umana. Infatti, “Hegel, concependo la negazione della
negazione - in base alla relazione positiva ivi implicita - come l'unico e vero
positivo, e in base alla relazione negativa pur ivi implicita, come l'unico
atto vero, come l'atto con cui ogni essere attua se stesso, non ha trovato
altro che l'espressione astratta, logica, speculativa per il movimento della
storia, che non è ancora la storia reale dell'uomo come soggetto presupposto,
ma è soltanto l'atto di generazione dell'uomo, la storia dell'origine dell'uomo”.
La dialettica hegeliana deve
quindi essere ricondotta ad un ambito materialistico, al di fuori da ogni
astrattezza o idealismo, che per Marx inquina, rendendolo inservibile, il
sistema di pensiero di Hegel. Nell’Ideologia Tedesca, Marx afferma che “Poiché
secondo la loro fantasia (dei giovani
hegeliani, nda) le relazioni fra gli uomini, ogni loro fare e agire, i loro
vincoli e i loro impedimenti sono prodotto della loro coscienza, i Giovani
hegeliani coerentemente chiedono agli uomini, come postulato morale, di
sostituire alla loro coscienza attuale la coscienza umana, politica o egoistica
e di sbarazzarsi così dei loro impedimenti. Questa richiesta, di modificare la
coscienza, conduce all'altra richiesta, di interpretare diversamente ciò che
esiste, ossia di riconoscerlo mediante una diversa interpretazione. Nonostante
le loro frasi che, secondo loro, « scuotono il mondo », gli ideologi
giovani-hegeliani sono i più grandi conservatori. I più giovani tra loro hanno
trovato l'espressione giusta per la loro attività, affermando di combattere
soltanto contro delle «frasi». Dimenticano soltanto che a queste frasi essi
stessi non oppongono altro che frasi, e che non combattono il mondo realmente
esistente”.
In contrapposizione a ciò, i
presupposti del materialismo storico di Marx “non sono arbitrari, non sono
dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell'immaginazione.
Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di
vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte
dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per, via
puramente empirica”. La storia, quindi, secondo il materialismo storico
marxista, “ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e
dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l'azione degli uomini
(…) essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a
produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla
loro organizzazione fisica. Producendo loro mezzi di sussistenza, gli uomini
producono indirettamente la loro stessa vita materiale. Il modo in cui gli
uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla
natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre.
Questo modo di produzione (…) è già un modo determinato dell'attività di questi
individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita
determinato.”
Materialismo storico, struttura e sovrastruttura
In altri termini, il materialismo
storico è il metodo di analisi storiografica marxista che consente di
analizzare la storia e le sue dinamiche sulla base delle caratteristiche e
delle evoluzioni dei modi di produzione, ovvero delle forme attraverso cui gli
uomini si organizzano socialmente per produrre la ricchezza materiale. I
singoli individui, ed i gruppi sociali, ovvero le classi sociali, si
definiscono pertanto in base al loro rapporto ed al loro posizionamento nel
ciclo produttivo generale. Ogni cambiamento di fase storica è quindi legato ad
un cambiamento del modo di produzione, e dei conseguenti rapporti sociali di
produzione (ovvero dei rapporti intrattenuti dalle varie classi sociali
rispetto ai mezzi di produzione ed alla loro proprietà o utilizzo), che gli
individui e le classi intrattengono rispetto al modo di produzione dato. La
struttura dell’evoluzione storica è data quindi dalle modifiche dei modi di
produzione e dei conseguenti rapporti sociali di produzione. Le modifiche di
tipo ideologico, culturale, politico, sono soltanto una conseguenza delle
modifiche della struttura del modo di produzione, non determinano di per sé i
grandi cambiamenti storici, ma costituiscono soltanto una sovrastruttura, in
larga misura autogiustificatrice o propagandistica, attraverso la quale le
classi sociali storicamente attestate al vertice del modo di produzione (cioè,
che detengono la proprietà dei mezzi di produzione) forniscono una
giustificazione ideologica, culturale o psicologica alla loro posizione di
potere e privilegio. “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee
dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo
la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della
produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione
intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di
coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee
dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali
dominanti”.
In altri termini, come dice Marx,
“la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le
forme di coscienza che ad esse corrispondono (cioè la sovrastruttura, nda) non hanno storia, non hanno sviluppo,
ma sono gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro
relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro
pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la
vita, ma la vita che determina la coscienza”.
Mentre la struttura è
rappresentata dal modo di produzione e dai conseguenti rapporti sociali, la
sovrastruttura, che oltre alla produzione intellettuale, religiosa, ideologica
contiene anche il disegno dell’assetto istituzionale del Governo e dello Stato,
viene modificata nel tempo dalla struttura stessa, in un rapporto dialettico
fra queste due componenti. Ma la storia viene fatta essenzialmente dalle
dinamiche di struttura. Un grande comunista italiano, Antonio Gramsci, perverrà
però ad una concezione diversa, sostenendo che l’influenza della sovrastruttura
culturale ed intellettuale ha avuto una capacità di addomesticazione del
proletariato molto più importante di quanto non pensasse Marx. Secondo Gramsci,
che per certi versi ribalta il rapporto fra struttura e sovrastruttura, la
rivoluzione sarà possibile soltanto se la classe operaia acquisirà l’egemonia culturale,
agendo quindi sulla sovrastruttura, modificandola autonomamente, ed in ciò, per
Gramsci, vi è un ruolo rivoluzionario degli intellettuali che assumono
coscientemente tale funzione.
Le fasi storiche della proprietà secondo il materialismo storico
Con la sua chiave di lettura
materialistica, Marx individua le seguenti fasi nella storia dell’umanità:
-
“la prima forma di proprietà è la proprietà
tribale. Essa corrisponde a quel grado non ancora sviluppato della produzione
in cui un popolo vive di caccia e di pesca, dell'allevamento del bestiame o al
massimo dell'agricoltura. In quest'ultimo caso è presupposta una grande massa
dì terreni incolti. In questa fase la divisione del lavoro è ancora pochissimo
sviluppata e non è che un prolungamento della divisione naturale del lavoro
nella famiglia. L'organizzazione sociale quindi si limita ad essere
un'estensione della famiglia”;
-
“la seconda forma è la proprietà della comunità
antica e dello Stato, che ha origine dall'unione di più tribù in una città, mediante
patto o conquista, e in cui continua ad esistere la schiavitù. Accanto alla
proprietà della comunità già si sviluppa la proprietà privata mobiliare e in
seguito anche la immobiliare, che però è una forma anormale, subordinata alla
proprietà della comunità (…)La divisione del lavoro è già più sviluppata.
Troviamo già l'antagonismo fra città e campagna, più tardi l'antagonismo fra
Stati che rappresentano l'interesse della città e Stati che rappresentano
quello della campagna, e all'interno delle stesse città l'antagonismo tra
industria e commercio marittimo. Il rapporto di classe fra cittadini e schiavi
è completamente sviluppato”;
-
“la terza forma è la proprietà feudale o degli
ordini (…)Nell'età feudale dunque la proprietà principale consisteva da una parte
nella proprietà fondiaria col lavoro servile che vi era legato, dall'altra nel
lavoro personale con un piccolo capitale che si assoggettava il lavoro dei
garzoni. L'organizzazione dell'una e dell'altro era condizionata dalle
ristrette condizioni della produzione: la limitata e rozza coltura della terra
e l'industria di tipo artigianale. Durante il fiorire del feudalesimo la
divisione del lavoro era assai limitata. Ogni paese portava in sé l'antagonismo
di città e campagna; l'organizzazione in ordini era fortemente marcata, ma al
di fuori della separazione fra principi, nobiltà, clero e contadini nelle
campagne, e fra maestri, garzoni, apprendisti e ben presto anche plebei a
giornata nelle città, non esisteva alcuna divisione di rilievo”;
-
Marx identifica anche il modo i produzione
“asiatico”, caratterizzato da un piccolo gruppo sociale, spesso caratterizzato
da lineamenti religiosi o teocratici, che estrae con la violenza il surplus dal
lavoro delle comunità sottoposte al suo controllo, in un contesto in cui però
la proprietà dei mezzi di produzione è ancora collettiva e comunitaria;
-
Naturalmente, poi l’ultima fase è quella
capitalistica, emersa progressivamente con la rivoluzione industriale,
caratterizzata da una estrema divisione del lavoro, da una classe dominante, la
borghesia, che detiene la proprietà dei mezzi di produzione, e da un vasto
proletariato la cui unica proprietà è la forza-lavoro, che mette a disposizione
della borghesia in cambio di un salario, al fine di consentire al ciclo
produttivo di riprodurre il capitale inizialmente anticipato dalla borghesia,
in forma allargata (cioè producendo un plusvalore determinato dalla differenza
fra lavoro necessario per riprodurre il proletariato e lavoro complessivo
prestato). In tale modo di produzione si generano alcune classi intermedie,
come ad esempio la piccola borghesia, “classe intermedia” in cui «si smussano»
gli interessi delle due grandi classi contrapposte e che perciò si reputa, in
generale, superiore alla loro lotta, ed il sottoproletariato, quella parte del
proletariato che ha perso la sua connotazione di classe, composta in primo
luogo da coloro che a causa dell'eccedenza di mano d'opera sono disoccupati
cronici o occupati irregolarmente, e si caratterizza come una massa di persone
che vivevano costantemente al di sotto delle condizioni medie della classe
operaia, escluse dal processo produttivo e perciò stesso ai margini dei
consueti rapporti sociali a ciò relativi. Esistono poi mezze classi, come
quella dei piccoli proprietari agricoli, che non arrivano a costituire una
classe sociale vera e propria per l’assenza di una unione o organizzazione
politica fra loro, in grado di rappresentarne i pur comuni interessi.
La dinamica di cambiamento dei
modi di produzione genera una dinamica di sviluppo delle forze produttive, che,
raggiunto un certo stadio, rende non più praticabile la perpetuazione del modo
di produzione precedente. In tal modo, ad esempio, la distruzione del modo di
produzione feudale deriva dallo sviluppo della borghesia grazie all’accumulazione
originaria di capitale indotta dalle grandi scoperte geografiche
cinquecentesche e dal relativo sviluppo dei traffici commerciali e
dell’attività bancaria. In questo senso, dunque, per la stessa definizione del
materialismo storico, l’avvento del
comunismo non è un auspicio o una opinione, ma è la naturale e spontanea
evoluzione del modo di produzione generata dallo sviluppo delle forze
produttive capitalistiche fino al punto in cui il modo di produzione
capitalistico non potrà più essere idoneo ad evitare la distruzione complessiva
della società sotto l’impulso dell’antagonismo di classe reso sempre più acuto
dalle contraddizioni interne del capitalismo (che lo conducono ad aumentare
indefinitamente il saggio di sfruttamento dei proletari).
Il materialismo dialettico
Il materialismo storico diviene
poi anche materialismo dialettico. Spogliando il metodo dialettico di Hegel dai
suoi connotati idealistici, Marx elabora una metodologia dialettica che gli
serve per dimostrare logicamente l’avvento prossimo venturo del comunismo. Il
materialismo dialettico è infatti, per Marx, l’unico modo di liberarsi da una
mera contemplazione passiva del conflitto di classe. Se gli interessi economici
conflittuali delle classi costituiscono la tesi e l’antitesi dell’attuale modo
di produzione, solo la negazione della negazione può portare ad una sintesi
superiore, ovvero ad un nuovo modo di produzione. Infatti, con la sintesi gli
opposti (le classi sociali in lotta) vengono negati nella loro negatività, cioè
nella loro separazione e conflittualità, e superati in un momento superiore nel
quale prevale la loro unità (per questo la sintesi è detta negazione della
negazione). In questi termini, la società comunista, in cui non esistono più
classi sociali conflittuali fra loro, è la sintesi dialettica del conflitto in
negativo fra tesi ed antitesi, che ne fa prevalere, in positivo, l’unità e la
non differenziazione.
Per Engels, il materialismo
dialettico è la molla di ogni evoluzione storica, che può essere visto come:
-
La risoluzione (cioè la sintesi) del conflitto
fra quantità e qualità: ogni cambiamento qualitativo è infatti dato
dall’accumulazione di variazioni quantitative, che portano al superamento di un
certo stato di cose, per costruirne uno nuovo;
-
La legge dell’unità degli opposti, che porta
sistematicamente al superamento di un confronto dialettico, determinato da
crescenti contraddizioni storiche, in una sintesi che è però temporanea, poiché
a sua volta genera nuove contraddizioni, che aprono la strada a nuove
contrapposizioni di poli opposti, e quindi ad una nuova sintesi. Tale processo
potrà essere arrestato, e la storia finirà, soltanto quando il comunismo,
eliminando le classi sociali, avrà eliminato ogni potenziale insorgenza di
opposti.
Va notato come tale impostazione
abbia dato luogo ad un lungo dibattito teorico fra Lenin, sostenitore del
materialismo dialettico come sopra delineato, tanto da farne la base della
filosofia insegnata nell’Urss, ed alcuni componenti del partito comunista
sovietico, guidati da Alexandr Bogdanov, e denominatisi “empiriocriticisti”,
che, sulla base delle teorie filosofiche di Avenarius e Mach, sostengono l'idea secondo la quale il cervello non
sarebbe il luogo nel quale, tramite le funzioni fisiologiche, si produce il pensiero
e si riflettono le sensazioni del mondo esterno, esistendo un unità ideale fra
individuo che osserva e mondo esterno che viene osservato. Tale impostazione
appare, a Lenin, come una contraddizione rispetto al materialismo
dialettico, poiché elimina uno dei due
soggetti del rapporto dialettico stesso fra entità fisica e psichica, ed a
giudizio di Lenin tende a realizzare una unità idealistica, e non
materialistica, fra soggetto ed oggetto della conoscenza. In “Materialismo ed
Empiriocriticismo” (1919), Lenin criticherà le teorie di Bogdanov, sulla base
della cosiddetta “teoria del riflesso”, che si sintetizza in questo modo: primo:
l'oggetto della conoscenza, il mondo reale, esiste oggettivamente; secondo: il
pensiero e la conoscenza teorica sono il riflesso del mondo reale; terzo: il
pensiero umano è in grado di riflettere correttamente il mondo reale e la
verità è la conoscenza che riflette correttamente la realtà. Le tesi di Lenin finiranno quindi per
prevalere, nel dibattito marxista, su quelle di Bogdanov.
Bibliografia/sitografia: per saperne di più
Friedrich Engels, L’Antiduhring, su http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1878/antiduhring/index.htm
Georg Hegel, Scienza della Logica, a c. di A. Moni, Bari, Laterza, 1924
Karl Marx, Tesi su Feuerbach, su http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1845/3/tesi-f.htm
Karl Marx, L’Ideologia Tedesca, su http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia/index.htm
Karl Marx, Manoscritti Economico-Filosofici, su http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Manoscritti/indexman.html
Antonio Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di
Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1948
Karl Marx, Friedrich Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, su http://www.liberliber.it/mediateca/libri/e/engels/il_manifesto_del_partito_comunista/pdf/il_man_p.pdf
Vladimir Lenin, Materialism and
Empirio-Criticism, su http://www.marxists.org/archive/lenin/works/1908/mec/index.htm
Dispensa nr. 2 –
Il pensiero economico marxista
Gli elementi
fondamentali: la teoria dell'alienazione, il salario, il capitale, il profitto
Il pensiero economico marxista
ruota ovviamente attorno ad una analisi della struttura di funzionamento del capitalismo
e delle sue contraddizioni interne. Il primo passo della riflessione economica
di Marx è contenuto nei Manoscritti Economico-Filosofici del 1844. in tale
testo, Marx espone la teoria dell'alienazione dell'operaio in regime
capitalistico. Il lavoratore dipende dal suo lavoro per esistere fisicamente ed
avere una collocazione sociale, per cui “l'operaio decade a merce, alla più
misera delle merci, che la miseria dell'operaio sta in rapporto inverso con la
potenza e la quantità della sua produzione (....) l'oggetto che il lavoro
produce, il prodotto del lavoro, si contrappone ad esso come un essere
estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce. Il prodotto
del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è
l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua
oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio
dell'economia privata come un annullamento dell'operaio, l'oggettivazione
appare come perdita e asservimento dell'oggetto, l'appropriazione come
estraniazione, come alienazione”.
Ciò che viene rimproverato da
Marx all'economia politica classica è quindi il non aver evidenziato il
carattere alienante del lavoro salariato, che deriva sia dall'alienazione del
prodotto di tale lavoro, che non viene goduto dal produttore stesso, ma dai
suoi datori di lavoro, sia dall'alienazione dell'operaio dal suo stesso lavoro,
poiché “il lavoro è esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e
quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non
soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale,
ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l'operaio solo
fuori del lavoro sì sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro”.
L'economia politica classica non spiega l'alienazione, e considera il lavoro
salarato come un fatto di per sé positivo, perché non fornisce alcuna
spiegazione della proprietà privata come conseguenza dell'alienazione, nella
misura in cui la proprietà privata, consentendo al capitalista di appropriarsi
del frutto del lavoro dell'operaio, è il semplice sviluppo della natura di per
sé alienante del lavoro. In questo senso, quindi, Marx si distacca da quegli
anarchici come Proudhon che considerano il lavoro come un elemento positivo da
contrapporre alla proprietà privata.
I Manoscritti contengono anche la
teoria marxista della moneta. Marx contesta la teoria dell'economia classica,
ed in particolare di John Stuart Mill, secondo cui la moneta sarebbe il metro
di misurazione del valore dei beni prodotti e scambiati. Intanto, la moneta è
un bene a sé stante, e non solo un intermediario nella circolazione delle
merci, e poi il capitalismo opera una sovversione nell'utilizzo della moneta,
secondo cui la moneta viene utilizzata all'inizio del ciclo di accumulazione
come anticipazione di capitale monetairo iniziale per acquisire i macchinari, i
lavoratori, gli impianti, e non come mero intermediario. In altri termini, se M
è la moneta e C è la merce, il ciclo non è C-M-C, cioè un mero scambio di merci
intermediato dalla moneta, ma M-C-M-C, in cui cioè si anticipa la moneta
necessaria a far partire il ciclo produttivo della merce C, che poi, immessa
sul mercato, si trasforma di nuovo in moneta, che può essere usata per
acquistare altra merce. Tutto ciò rende la moneta il metro esclusivo della
nostra umanità e delle nostre virtù. L'obiettivo degli uomini diventa quindi
quello di guadagnare quanto più denaro possibile.
Infine, nei Manoscritti compare
la definizione di salario, capitale e profitto. Poiché nell'economia
capitalista la sussistenza non proviene dallo sfruttamento dei beni naturali,
l'operaio deve vendere la sua forza-lavoro in cambio di un salario, che è,
quindi, un aspetto strettamente legato all'alienazione del lavoro: si tratta
della parte di prodotto generata dall’operaio che gli ritorna in termini di
mezzi per la sua sussistenza, tramite l’intermediazione monetaria. Come dice
Marx nel capitolo 2 del Capitale, “il salario è una parte del prodotto costantemente
riprodotto dall’operaio stesso, che gli ritorna costantemente in forma di
salario. Certo, il capitalista gli paga in denaro il valore in merci. Ma questo
denaro è soltanto la forma trasmutata del prodotto del lavoro o, piuttosto, di
una parte del prodotto del lavoro. Mentre l’operaio converte in prodotto una
parte dei mezzi di produzione, una parte della sua precedente produzione si
riconverte in denaro (…) La classe capitalista dà costantemente alla classe
operaia, in forma di denaro, assegni su una parte dei prodotti che questa ha
prodotto.”
Il salario è quindi determinato
dal conflitto fra capitalista e operaio, che si risolve sempre a favore del
primo, poiché il capitalista ha le risorse per sopravvivere senza l'operaio più
a lungo che questi senza l'altro. Ciò implica che il salario sarà portato al
livello della sussistenza, poiché il prezzo finale di vendita sarà superiore al
costo salariale pagato all'operaio, in modo da ricavarne un profitto per il
capitalista, e ciò collocherà gli operai stessi in una condizione di
sistematico pauperismo, impedendo loro di accumulare un piccolo capitale.
Tale situazione negativa non si
eliminerà nemmeno in una condizione in cui l'economia è in crescita, e la
domanda di operai da parte dei capitalisti supera la loro offerta. Anche in
questa situazione che è la più favorevole per gli operai, infatti, “l'aumento
del salario reca con sé un eccesso di lavoro per gli operai. Quanto più
vogliono guadagnare tanto più debbono sacrificare il loro tempo e privandosi
completamente di ogni libertà compiere un lavoro da schiavi al servizio della
avidità altrui. Inoltre: la durata della loro vita viene in questo modo
accorciata. Questo accorciamento della durata della loro vita è una circostanza
favorevole per la classe degli operai nel suo complesso, perché a causa di ciò
si rende necessaria una sempre nuova domanda”. Inoltre, la crescita determina
un accumulo di capitale, che, essendo prodotto dal lavoro, si traduce in una
crescente quota di lavoro alienato dal suo prodotto finale.
Infine, si ha un primo abbozzo
della teoria marxiana del ciclo economico, poiché la fase di crescita aumenta
la divisione del lavoro, l'operaio dipende in modo sempre più netto dal lavoro,
e da un lavoro determinato, molto unilaterale e meccanico. E così si trova in
condizione di sempre maggior dipendenza da tutte le oscillazioni del prezzo del
mercato, dell'impiego dei capitali e del capriccio dei ricchi. Parimenti, con
l'ingrossarsi della classe degli uomini solo da lavoro, si accresce la concorrenza
degli operai, e quindi il loro prezzo (salario) diminuisce”. Inoltre,
l'accresciuta concorrenza fra capitalisti nella fase di crescita determina la
proletarizzazione di un certo numero di capitalisti che falliscono, e
precipitano nel proletariato, aumentandone l'offerta, e quindi riducendo il
salario.
Il capitale è invece definito, in
coerenza con gli economisti classici, come “lavoro accumulato” nella produzione
dei beni capitali (macchinari, impianti, attrezzi di lavoro, ecc.). il capitale
è “il potere di governo sul lavoro e sui suoi prodotti”, santificato dalla
proprietà privata. Il profitto è il guadagno del capitale, che si esprime in
una certa proporzione diretta rispetto al capitale investito. Il capitalista,
infatti, ha interesse ad anticipare un capitale grande solo se vi è una
prospettiva di profitto grande. Marx non determina tale proporzione, poiché
essa si modifica in ragione di una molteplicità di eventi imprevedibili e non
calcolabili, ma ne delimita soltanto il limite inferiore e superiore. Il primo
“deve essere sempre qualcosa di più del necessario per compensare le perdite
eventuali a cui è sottoposto ogni impiego di capitale”, mentre il limite
superiore ӏ quello che assorbe totalmente la rendita fondiaria nel maggior
numero di merci e riduce il salario della merce fornita al prezzo più basso,
cioè alla pura sussistenza dell'operaio durante il lavoro”. Vi è anche il
riconoscimento della tendenza del capitalismo a creare concentrazioni
monopolistiche: “la concorrenza tra capitali aumenta l'accumulazione tra
capitali”. Questo perché, essendo il profitto in proporzione al capitale
investito, i grandi capitali potranno reinvestire nella loro ulteriroe
accumulazione una quota magigore di profitto rispetto ai piccoli, e quindi
l'accumulazione dei grandi capitali è più veloce rispetto a quella dei piccoli
capitali. Inoltre, l'aumento della concorrenza fra capitalisti genera tensioni
al rialzo dei costi salariali, per accaparrarsi la forza-lavoro sempre più
scarsa, e tensioni al ribasso del prezzo finale di vendita, talché il profitto
medio unitario ne risulterà compresso, ma il grande captialista, a differenza
del piccolo, potrà compensare la riduzione del profitto per unità di capitale
con una grande quantità di capitale investito, potrà anche acquistare le
materie prime ad un prezzo più basso, poiché le acquisterà in grandi quantità,
e potrà quindi sopravvivere più a lungo del piccolo capitalista, che sarà
invece indotto ad abbandonare gli affari, o alla rovina. Ciò porta
inevitabilmente ad una progressiva concentrazione oligopolistica del
capitalismo, a fronte di una miseria crescente di strati sempre più ampi della
popolazione, poiché al proletariato ridotto alla mera sussistenza si aggiungono
progressivamente i piccoli capitalisti rovinati.
Vediamo quindi già da questa
prima opera a contenuto economico di Marx i tratti fondamentali del suo
pensiero economico: in nuce, e ovviamente non acora sviluppata in termini
formali, vi è la teoria del valore-lavoro, del plusvalore e del profitto, dell'alienazione
come conseguenza dello sviluppo del capitalismo e della divisione del lavoro,
di una teoria del ciclo capitalistico e della teoria delle contraddizioni
interne al funzionamento del capitalismo stesso, che dovranno portare al suo
superamento.
La teoria del
valore in Marx: il valore-lavoro
Nel 1859, compare un testo
fondamentale, “Per La Critica dell'Economia Politica”, in cui viene
formalizzata in termini più esaustivi la teoria marxiana del valore. Il valore
della merce viene infatti distinto fra valore d'uso, cioè l'utilità ocncreta
che tale merce riveste per il consumo umano (ad esempio, il valore d'uso del
pane è quello di nutrire chi lo consuma) e valore di scambio, che appare in
primo luogo come un rapporto quantitativo, entro il quale valori d'uso diversi
sono intercambiabili tramite il commercio. Il rapporto fra questi due valori è
strettissimo. La merce acquista valore d'uso soltanto in quanto viene
scambiata, ed acquisita da chi le dà un valore rispetto ai propri bisogni
materali. D'altra parte, le merci possono essere scambiate fra loro, in
funzione dei rispettivi valori d'uso che le due parti assegnano loro, soltanto
se il loro valore di scambio è equivalente.
I valori di scambio sono
interpretabili come l'oggettivizzazione di un lavoro sociale necessario per
produrre le relative merci. Il lavoro socialmente necessario per la produzione
di una merce ne determina il valore di scambio, ed è lavoro “uguale,
indifferenziato, ossia lavoro in cui è cancellata l'individualità di chi
lavora. Il lavoro che crea valore di scambio è quindi lavoro astrattamente
generale”. Poiché tale lavoro è omogeneo ed indifferenziato, il diverso valore
di scambio delle divrse merci sarà determinato dal diverso tempo necessario a
questo lavoro astrattamente generale per produrle. Per “lavoro necessario” (o
tempo di lavoro necessario) si intende il tempo di lavoro normalmente richiesto
per produrre un nuovo esemplare di quella stessa merce, in date condizioni
generali tecnologiche, di produttività dei fattori, di organizzazione della
produzione, o in date condizioni naturali (nel caso delle merci agricole o
alimentari). E' quindi un tempo di lavoro che incorpora la condizioni sociali e
tecniche della produzione in un dato momento storico. Viceversa, la misura del
solo valore d'uso è data non da questo lavoro sociale, omogeneo ed astratto, ma
da “lavoro concreto e particolare che si scinde in modi di lavoro infinitamente
vari a seconda della forma e della materia”.
Un problema controverso della
teoria marxiana del valore, non ancora del tutto risolto, è la questione di
come i valori, come sopra definiti, si trasformino in prezzi di mercato. Tale
questione viene risolta semplicemente, nel I libro del Capitale, qualora si
supponga che la cosiddetta composizione organica del capitale sia uniforme per
tutti i settori produttivi. La composizione organica del capitale è il rapporto
fra capitale costante (C) e capitale variabile (V), ovvero C/V. Il capitale
costante è dato dal valore di tutti gli strumenti di produzione (macchinari,
impianti, attrezzature di produzione, ecc.) mentre il capitale variabile è dato
dalla massa salariale pagata agli operai nel processo produttivo.
Il saggio di profitto, r, è dato
dal rapporto tra plusvalore, Pv, e capitale anticipato, costituito dalla somma
di capitale costante, C, e capitale variabile, V. Il plusvalore è dato dalla
differenza fra l'ammontare di lavoro strettamente necessario per produrre i
mezzi di sostentamento elementare della forza-lavoro, (cioè il cibo, i vestiti,
la casa di abitazione, i medicinali essenziali, ecc. tutti quei beni che
consentono all'operaio di sopravvivere) e l'ammontare di lavoro effettivamente
prestato dagli operai nel ciclo produttivo, che deve anche produrre una
quantità di merci superiroe a quella di mera sussistenza per sé stessi, in modo
da costituire la base per remunerare il capitalista. Il plusvalore è dunque
pluslavoro, di cui si appropria il capitalista. L'estrazione di plusvalore può
essere assoluta (ovvero ottenuta aumentando la quantità di operai nella propria
fabbrica, a parità di produttività degli stessi) oppure relativa (aumentando la
produttività degli operai esistenti, senza aumentarne il numero, grazie
all'introduzione di nuovi macchinari produttivi ed a organizzazioni produttive
più efficienti)
In formule, il saggio di profitto
r è dunque
r = Pv/(C + V).
Dividendo numeratore e
denominatore di tale espressione per V, abbiamo che
r = (Pv/V)/(C/V + 1)
dove ovviamente C/V è la
composizione organica del capitale e Pv/V il saggio di sfruttamento della
manodopera, cioè la misura percentuale del surplus di lavoro rispetto a quello
necessario per costituire il capitale variabile V che viene espropriata
all'operaio dal capitalista. E' quindi chiaro che, in una ipotesi semplicistica
in cui la composizione organica del capitale è identica in tutti i settori
produttivi (una ipotesi che coincide con l'assenza di concorrenza
intersettoriale fra capitalisti), il saggio di profitto coincide essenzialmente
con il lavoro socialmente necessario per la valorizzazione del capitale
variabile V e del plusvalore Pv, per cui i prezzi di produzione (che
nell'accezione di Marx sono i prezzi ottenuti aggiungendo il saggio di profitto
medio) tendono a coincidere in modo pressoché esatto con il rapporto fra il
tempo necessario per produrre i mezzi di sostentamento del proletariato e il
pluslavoro per il capitalista, ovvero con il saggio di sfruttamento. Inoltre,
poiché qualsiasi imprenditore, in qualsiasi settore, tende sempre a
massimizzare il saggio di sfruttamento del lavoro, tale rapporto verrà portato
al suo livello massimo (cioè al livello che massimizza il plusvalore, portando
il livello del capitale variabile al punto minimo di mera sussistenza biologica
degli operai) in tutti i settori, e da ciò deriva che, in tale modello
semplificato, il saggio di profitto tenda ad essere uniforme nei vari settori
produttivi. Definendo il concetto di “prezzo di produzione” (PP) di una merce
come quel prezzo costituito dalla somma del profitto complessivo (cioè non il
valore relativo dato dal saggio di profitto, ma il valore assoluto dato
dall'ammontare totale di denaro che l'imprenditore percepisce come profitto)
denominato ɸ e del capitale complessivo (C + V), ovvero
PP = ɸ + (C + V)
mentre il valore della merce può
essere definito come
W = C + V + Pv (dove tutte queste
grandezze sono misurate in tempo di lavoro necessario per produrle)
l'omogeneità dei tassi di
profitto intersettoriali farà sì che il valore complessivamente prodotto
coinciderà esattamente con il livello dei prezzi di produzione. Il cerchio si
chiude: ipotizzando omogeneità della composizione organica del capitale, il
valore sarà dato dal tempo di lavoro che misura gli elementi del saggio di
sfruttamento (Pv e V) e sarà esattamente identico al livello dei prezzi di
produzione, ed i saggi di profitto intersettoriali saranno omogenei.
Il problema dell'indeterminatezza
della teoria del valore di Marx sopraggiunge però nel libro III del Capitale,
quando si abbandona l'ipotesi semplicistica di omogeneità della composizione
organica del capitale fra settori produttivi, introducendo il concetto di
concorrenza intersettoriale e di diversità del livello di tecnicizzazione del
processo produttivo in diversi settori produttivi. Tale indeterminatezza
sopraggiunge essenzialmente perché, come è noto, Marx morì prima di terminare
il Libro III del Capitale, e quindi le considerazioni contenute in tale libro
furono raccolte e sistematizzate (forse anche con un certo grado di
arbitrarietà) dall'amico Engels, partendo dagli appunti lasciati,
necessariamente incompiuti, dal pensatore di Treviri. Se si ipotizzano diverse
composizioni organiche del capitale nei diversi settori, il saggio di profitto
non tenderà più ad essere uniforme. Tuttavia, osserva Marx, la concorrenza tra
i capitali, cioè il movimento secondo cui i capitali migrano da un'industria
all'altra alla ricerca del massimo profitto, modificando conseguentemente le
quantità offerte delle singole merci, assicura che i prezzi di mercato
gravitino attorno ai prezzi di produzione. Più precisamente, migrando i
capitali verso i rami produttivi più redditizi, si determina:
a) l'aumento delle merci offerte
nelle industrie che hanno un saggio di profitto superiore a quello medio;
b) la diminuzione di quelle
offerte nei settori in cui il saggio particolare è inferiore a quello medio.
Tutto questo comporta, per la
legge della domanda e dell'offerta, la diminuzione del prezzo delle prime e
l'aumento di quello delle seconde. Tale movimento prosegue fino a quando i
capitalisti riterranno vantaggioso spostare i loro capitali da un'industria
all'altra, cioè fino a che i saggi di profitto non avranno manifestato una
sufficiente tendenza a convergere verso un saggio di profitto medio teorico. In
questo caso, i prezzi di produzione, in uno specifico settore, non sono
più necessariamente uguali al valore complessivo di quello specifico settore,
perché la tendenza verso un saggio di profitto medio diverso da quello
originario, per effetto della sopraccitata concorrenza intersettoriale, porta
il prezzo di produzione (che incorpora la misura media del saggio di profitto)
a divergere dal valore (che incorpora il saggio di profitto originario).
Tuttavia, a livello aggregato,
cioè a livello dell'intero sistema economico, le singole differenze settoriali
fra valore e prezzo di produzione tendono ad elidersi fra loro, nel senso che
differenze positive (in cui cioè il
prezzo di produzione è superiore al valore, e quindi vi è un guadagno
supplementare per l'imprenditore) e negative (in cui cioè l'imprenditore perde
rispetto al valore della sua merce) si azzerano, per cui a livello dell'intero
sistema economico nel suo complesso, la concorrenza intersettoriale, pur
fissando prezzi che gravitano attorno ai prezzi di produzione invece che ai
valori, non crea né distrugge valore, che per Marx può avere origine solo dalla
produzione, ma si limita a ripartirlo in modo differente tra i capitalisti. Il
valore complessivamente prodotto dall'intero sistema economico sarà sempre
costante, e sarà dato dalla somma del capitale costante, del capitale variabile
e del plusvalore di tutti i settori produttivi, quindi dal tempo di lavoro
complessivamente speso nella produzione di un anno dall'intera economia, ma il
gioco dei prezzi di produzione genererà una ripartizione di questo valore
complessivo disomogenea, nei diversi settori e fra i diversi imprenditori, per
cui vi sarà chi realizzerà, sul mercato, in misura superiore al valore della
sua merce, e chi realizzerà meno. Tali differenze tenderanno ad omogeneizzarsi
per il gioco della concorrenza fra capitali.
Queste conclusioni di Marx hanno
sollevato, anche nell'ambito dell'economia neomarxista, una grande quantità di
polemiche ed anche di critiche. In primis, occorre far notare che il meccanismo
descritto funziona in condizioni di concorrenza perfetta, di perfetta
razionalità degli imprenditori (che agiscono solo per massimizzare il tasso di
profitto) e di perfetta mobilità del capitale da un settore produttivo
all'altro, in base esclusivamente alle differenze di saggio di profitto. n
questa fase quindi Marx astrae da alcune situazioni concrete, quali posizioni
di rendita differenziate, monopoli, rapporti di forza tra i capitali dei
diversi paesi, legislazioni protezionistiche, brevetti ecc. La trattazione di
tali complicazioni, sebbene prevista nel progetto originario del Capitale, è
stata sviluppata dall'autore solo in forma embrionale. C'è comunque da dire che
tutti questi fenomeni sono da considerare, nell'ambito della metodologia
marxiana, come solo di breve periodo poiché, a lungo andare, le leggi profonde
dell'economia capitalistica tendono a livellare i profitti da monopolio, a
generalizzare le tecniche brevettate, ecc.
Il dibattito più serio verte
invece su aspetti teorici più profondi. Un problema teorico deriva da una
affermazione, non pienamente sviluppata, che rinveniamo nel Libro III, secondo
la quale il costo del capitale, costante e variabile, se espresso in prezzi di
produzione, può differire dal valore-lavoro delle merci costituenti tale
capitale. Questa affermazione, del resto, è coerente con il fatto che, nel
modello più complesso or ora esaminato, a livello di singola merce è ben
possibile che il prezzo di produzione diverga dal suo valore. Se ciò è vero per
i prodotti di consumo finale, deve essere vero anche per i macchinari, gli
impianti, i beni intermedi utilizzati per la produzione. Ma se ciò è vero,
allora se il costo effettivo delle singole merci che compongono il capitale
differisce dal loro valore, anche il saggio generale del profitto calcolato secondo
il lavoro contenuto potrebbe differire da quello calcolato secondo i prezzi.
Ciò metterebbe in crisi la teoria del valore-lavoro, quindi l'intero impianto
teorico di Marx.
Fiumane di economisti si sono
esercitati su tale apparente contraddizione. A parere di chi scrive, essa è
stata risolta positivamente per Marx, dall'economista italiano Giorgio
cingolani, che nel volume Le Teorie del valore-lavoro dopo Sraffa dimostra
matematicamente che, in un modello raprpesentativo dell'intero sistema
produttivo attraverso equazioni di produzione (modello di Sraffa) usando il
salario come dato esogeno (e quindi non come variabile calcolata dal modello) i
prezzi possono essere espressi in
termini di lavoro incorporato, mentre risultano verificate le due note uguaglianze
di Marx a livello dell'intero sistema economico (somma dei prezzi uguale a
somma dei valori e profitto totale uguale a plusvalore totale).
Assumendo un sistema economico in
cui il salario viene determinato in modo esogeno, cioè da una negoziazione salariale
che tiene solo parzialmente conto della redditività, quindi, la teoria del
valore-lavoro di Marx risulta pienamente confermata. Si può quindi vedere come
tutti i tentativi in atto per rendere il salario dipendente dalla redditività
dell'impresa, che passano tramite l'ampliamento continuo della contrattazione
decentrata, tendono a smaterializzare il valore prodotto nel sistema
capitalistico, slegandolo dal tempo di lavoro, per legarlo a variabili
fittizie, di tipo finanziario, spesso assolutamente slegate dalla quantità e
qualità del lavoro prestato dagli operai. Si vede in tali tentativi, quindi, la
tendenza alla dematerializzazione dei cicli economici, dei fattori produttivi e
del profitto operata nell'attuale fase finanziaria e cognitiva del capitalismo,
che ne costituisce l'essenziale contraddizione interna (poiché le ricorrenti
disastrose crisi finanziarie derivano proprio dall'esplosioen di bolle quando i
valori determinati sui mercati differiscono in modo eccessivo dal valore-lavoro
reale sottostante).
La teoria
monetaria di Marx
La teoria economica di Marx ha
poi anche un approfondimento di tipo monetario. Una particolare merce, poi,
servirà come trasformata ed espressione del valore di scambio di tutte le
altre, ovvero il denaro. Tale merce “equivalente generale è ora oggetto di un
bisogno generale derivante dallo stesso processo di scambio, e ha per ognuno il
medesimo valore d'uso, di essere rappresentante del valore di scambio, cioè
mezzo di scambio generale”. Il denaro quindi è quella merce che ha eguale
valore d'uso per tutti, ovvero di fungere da mezzo di scambio generale, e che
fornisce una misurazione monetaria del valore di scambio delle merci (cioè del
reciproco tempo di lavoro socialmente astratto incorporato). Tale merce particolare
deve possedere le seguenti proprietà:
“la divisibilità a piacere, l'uniformità delle parti e la identicità in
tutti gli esemplari di questa merce. Come materializzazione del tempo di lavoro
generale, questa merce deve essere materializzazione uniforme e capace di
esprimere differenze puramente quantitative. L'altra qualità necessaria è la
durevolezza del suo valore d'uso poichè la merce deve durare entro il processo
di scambio”. Le relazioni progressive fra le merci nei confronti dell'una con
l'altra si cristallizzano come ammontari differenziati di denaro, e in tal modo
il processo di scambio è allo stesso tempo processo di formazione del denaro.
L'insieme di questo processo è chiamato da Marx la circolazione. In questo
approccio marxiano, quindi, il denaro non è una categoria economica a sé
stante, a differenza dell'economia monetaria classica, ma un semplice
strumento, che si genera dentro il processo di scambio.
Il processo di circolazione è
così definito:
-
in un primo momento, il denaro rappresenta la
misura dei valori delle merci, in termini di prezzo, che è una mera apparenza
con la quale figurano esteriormente i valori di scambio, che nella realtà, come
detto, sono rappresentati dal tempo di lavoro. I prezzi si formano in base al
tempo di lavoro, cioè al valore di scambio, di tutte le merci, ma anche in base
al tempo di lavoro necessario per la produzione della moneta metallica;
-
in un secondo momento, ovvero nel processo di
circolazione vero e proprio, designando con M la merce e D il denaro, qualora
un venditore venda della merce in cambio di denaro, con il quale acquista altra
merce, il processo è il seguente: M-D-M, ed in tal caso “si riduce al ricambio
organico M - M. Merce è stata cambiata con merce, valore d'uso con valore
d'uso, e la trasformazione in denaro della merce, ossia la merce come denaro,
non serve che alla mediazione di questo ricambio. In tal modo il denaro appare
come semplice mezzo di scambio delle merci”. In questo caso, quindi, il denaro
è poco più che un semplice velo del processo di scambio. La sua quantità è
determinata in via diretta dalla somma dei prezzi di tutte le merci ed in via
inversa dalla sua velocità di circolazione nel sistema complessivo. Emerge
quindi una prima spiegazione dei fenomeni di svalutazione monetaria, ed una
spiegazione dell'introduzione delle banconote in luogo delle monete metalliche,
come rimedio al deterioramento del contenuto metallico delle seconde;
-
se la circolazione è invece di tipo D'-M-D'',
allora il denaro serve per acquistare merce che poi viene realizzata per avere
nuovo denaro. A differenza del caso precedente, in cui il denaro è mero
intermediario nello scambio di merci, in questo caso è la merca ad essere
intermediaria nel processo di scambio di denaro con altro denaro. Questa è la forma
dominante dell'economia borghese: in tale forma, infatti, il capitalista,
mediante le banche, anticipa capitale monetario per acquistare machcinari o
impianti, o lavoratori visti come merci, per produrre una merce da vendere sul
mercato in cambio di denaro, cosicché normalmente D''>D'. Il denaro quindi
si rende autonomo dalla circolazione delle merci, diviene una merce con un
valore d'uso autonomo rispetto alla mera funzione di strumento di circolazione.
Ciò consente al denaro di assumere nuove funzioni, in primis di mezzo di
tesaurizzazione, cioè di strumento di risparmio. Inoltre, in questo caso,
emerge l'esigenza di costituire fondi di riserva per pagamenti futuri o
differiti, per cui la legge che determina la quantità di denaro circolante si
modifica sostanzialmente rispetto a quanto sopra evidenziato, e “data la
velocità di circolazione del denaro, la somma complessiva del denaro circolante
in un dato periodo sarà determinata dalla somma complessiva dei prezzi delle
merci da realizzarsi, più la somma complessiva dei pagamenti in scadenza della
medesima epoca, meno i pagamenti che si elidono reciprocamente mediante
compensazione”. Ciò ha la ovvia conseguenza che la massa monetaria in
circolazione può essere diversa, in un dato momento, dalla somma dei prezzi di
tutte le merci, generando potenziali effetti inflazionistici o deflazionistici,
e costituendo la base della speculazione finanziaria, che come è noto è nata
proprio sui mercati “futures” di compravendita di merci postergata nel tempo.
Inoltre, Marx svolge una analisi completa dell'inflazione e della deflazione
come originate rispettivamente da una massa eccedentaria o deficitaria di
moneta rispetto al valore immanente di scambio dei beni. Tale illustrazione fa
anche giustizia delle tesi rassicuranti di David Ricardo, secondo le quali in
caso di inflazione da eccesso di moneta, aumenterebbero le importazioni,
riducendo quindi la massa monetaria interna e riportando automaticamente i prezzi
in equilibrio, e viceversa in caso di deflazione da carenza di moneta
aumenterebbero le esportazioni con nuovo afflusso di moneta aggiuntiva
dall'estero. L'automatismo non si verifica, secondo Marx, sia perché l'afflusso
o il deflusso di metalli preziosi dal Paese non si trasforma tutto quanto in
moneta, sia perché le banche centrali, che emettono banconote, non seguono
regole coerenti con quelle della circolazione aurea nel determinare la massa
monetaria cartacea. Il che rende strutturali e permanenti, non autoregolantesi,
le crisi commerciali capitalistiche.
Più in generale, poiché, stante
la velocità di circolazione, è il livello dei prezzi a determinare la quantità
di denaro in circolazione, Il denaro, quando “i prezzi sono bassi”, ovvero c’è
crisi economica, si ritrae dalla circolazione, viene utilizzato in altro modo
(all’epoca di Marx veniva tesoreggiato come oro, oggi finisce come capitale
fittizio in qualche segmento dei mercati finanziari). Per questo gli alti e
bassi della speculazione sono intrinsecamente connessi all’andamento della
produzione reale. Dice Marx “l’accumulazione di capitale monetario da prestito,
il cui indice è il saggio d’interesse, e l’accumulazione reale (il cui indice è il saggio di profitto reale,
NdA) hanno quindi un andamento opposto lungo il ciclo”. La speculazione, e
quindi la finanziarizzazione dell’economia, in questo approccio, dipendono
strettamente dal calo del saggio di profitto delle attività economiche reali
(cfr. ultimo paragrafo) e sono quindi una risposta a tale calo: se il volume
dell’interscambio di prodotti reali è insufficiente ad assorbire tutto il
denaro in circolo, questo verrà impiegato sul mercato finanziario, per
investimenti finanziari che, nell’approccio di Marx, altro non sono che
anticipazioni di un profitto futuro, oggi fittizio. Ecco spiegata in termini marxisti un crisi
finanziaria come quella attuale.
La teoria marxista della riproduzione capitalistica ed il declino
tendenziale del tasso di profitto
Con la teoria marxista della
riproduzione del capitale andiamo al nucleo stesso della descrizione marxista
del funzionamento del capitalismo. L'analisi dell'economia come flusso
circolare di risorse, da una fase produttiva ad una commerciale per poi tornare
alla produzione, nasce nel diciottesimo secolo con il Tableau Economique di
Quesnay, capo della scuola fisiocratica francese. La formazione scientifica di
Quesnay, che era il medico di corte di Luigi XV, lo aiutò a concepire
l'analogia tra sistema economico e flusso sanguigno. Marx riprese questa
intuizione e la approfondì descrivendo l'analisi della circolazione e rotazione
del capitale nel II volume del Capitale. Per portare a termine tale compito
sviluppò uno strumento analitico eccezionalmente fecondo: gli schemi di
riproduzione.
Marx distingue la riproduzione
semplice, che è uno stato in cui il ciclo economico si ripete sempre uguale a
se stesso, e la riproduzione allargata, che introduce l'aspetto
dell'accumulazione e della crescita economica, cioè di una situazione in cui
viene prodotta ricchezza aggiuntiva alla fine di ogni ciclo.
Per analizzare le caratteristiche
di sviluppo del capitalismo, Marx divide l'economia in due settori. Il settore
1 produce i mezzi di produzione (macchinari, attrezzature produttive,
impianti), il settore 2 produce le merci per il consumo. La produzione dei due
settori (P1 e P2) è quindi data dalla somma del capitale (variabile, V e
costante, C) che l’imprenditore anticipa all’inizio del ciclo produttivo, più
il plusvalore (Pv) che si genera alla fine del ciclo produttivo.
(1) P1
= C1 + V1 + Pv1
(2) P2
= C2 + V2 + Pv2
Ci troviamo in condizioni di
riproduzione semplice, perché il plusvalore prodotto viene interamente utilizzato
per ammortizzare il capitale anticipato: se il capitale anticipato in uno dei
due predetti settori è pari a 12.000 euro, ed il plusvalore annuale è di 2.400
euro, nel giro di cinque anni avremo che 2.400 x 5 = 12.000 euro, e quindi il
capitale originariamente anticipato viene interamente riprodotto nel giro di
cinque anni (o di cinque cicli produttivi semplici).
Ora, perché la riproduzione di
questo sistema avvenga con regolarità vi sono due condizioni di equilibrio. La
prima è che il valore della produzione del settore 1 corrisponda ai mezzi di
produzione impiegati dall'economia, proprio perché il settore 1 ha il compiuto
di produrre tutti i mezzi di produzione dell’intera economia. La seconda è che
il valore della produzione del settore 2 corrisponda alla domanda complessiva
del sistema, cioè che il valore del settore delle merci di consumo deve
corrispondere alla domanda complessiva di tali merci, senza creare eccessi di
offerta o di domanda insoddisfatte. La domanda complessiva può essere misurata
con la quantità di beni di consumo richiesti dagli operai per la loro
sussistenza (e quindi dall’ammontare totale di capitale variabile, che è
esattamente dato dalla massa di mezzi di sussistenza consumati dagli operai) e
con la quantità di beni che i capitalisti possono procacciarsi con il loro
reddito (cioè con il valore estorto al lavoro degli operai, cioè con il
plusvalore). In formule le due condizioni sono:
(3) P1
= C1 + C2
(4) P2
= V1 + V2 + Pv1 + Pv2
Sostituendo la (1) nella (3) e la
(2) nella (4), ovvero scrivendo per esteso il valore della produzione dei due settori,
osserviamo che le due condizioni si riducono a una:
(A) V1
+ Pv1 = C2
Questa è la condizione di
equilibrio che, se raggiunta, è necessaria e sufficiente al regolare
funzionamento del sistema. Essa esprime il fatto che, in equilibrio, il ciclo
di riproduzione capitalistico (semplice) deve garantire che la domanda totale
degli operai e dei capitalisti del settore 1 sia uguale almeno alla quantità di
mezzi di produzione utilizzati nel settore 2 per produrre i beni di consumo
necessari a soddisfarla. Altrimenti il settore produttore dei mezzi di
produzione si ferma, e ciò produce la paralisi anche del settore di produzione
dei beni di consumo, che si avvale dei mezzi di produzione prodotti dall’altro
settore.
Da un punto di vista analitico,
occorre analizzare che cosa succede quando il capitalismo non si trova in
questa condizione. Poniamo ad esempio di osservare che: V1+Pv1>C2. Ciò
significa che vi è domanda solvibile non corrisposta dalla capacità produttiva
del settore dei beni di consumo. In una situazione del genere, le merci
tenderanno a vendersi ad un prezzo superiore al loro costo di produzione.
Questo aumenterà i profitti e dunque ci sarà un incentivo per accrescere gli
investimenti per ampliare la scala della produzione (ricordiamo dal primo paragrafo,
infatti, che i profitti sono in relazione alla dimensione del capitale
investito: se crescono i profitti, crescerà anche il capitale, tramite gli
investimenti, per mantenere la proporzione). I mezzi di produzione tenderanno
perciò a crescere, grazie ai maggiori investimenti in capitale costante,
riequilibrando la domanda potenziale. Nulla garantisce però che ciò accada nel
tempo e nella dimensione adatti a equilibrare il sistema. Al contrario, i
produttori espanderanno tutti insieme la produzione, guidati dalla crescita del
saggio di profitto, e questo avrà come effetto di aumentare la capacità dei
mezzi di produzione oltre la domanda solvibile (C2>V1+Pv1), provocando una
riduzione dei prezzi e dunque una riduzione dei profitti, degli investimenti e
così via.
Le oscillazioni attorno
all'equilibrio potranno essere più o meno violente a seconda della situazione
dell'economia mondiale, del sistema creditizio, della politica economica e così
via. Ma in linea di massima le forze che riequilibrano il sistema non
garantiscono il raggiungimento di una situazione armonica. In questa semplice
illustrazione, la teoria marxista ci fornisce una spiegazione della continua
oscillazione del ciclo economico capitalistico, fra fasi di crescita e fasi di
stagnazione o recessione, senza mai raggiungere un punto di equilibrio stabile
di lungo periodo.
La riproduzione allargata del
capitale si differenzia da quella semplice per il fatto di generare un surplus
produttivo aggiuntivo rispetto a quello meramente necessario per ricostituire
il capitale anticipato ad inizio ciclo. Ipotizziamo ora che i capitalisti
mettano a riserva una parte del plusvalore, con cui non si limitano a ripagare
il capitale già anticipato, ma con cui acquistano nuovo capitale costante e
nuovo capitale variabile. Il plusvalore si dividerà dunque in diverse quote, in
diversi utilizzi:
S = AC + AV + B, dove: AC
rappresenta l'accumulazione di nuovo capitale costante, AV l'accumulazione di nuovo
capitale variabile e B la quota di plusvalore che il capitalista usa per i suoi
consumi personali, che corrisponde alla quota di plusvalore usata per ripagare
il capitale iniziale che l’imprenditore stesso ha anticipato. A questo punto
riscriviamo la (1) e la (2):
(1a) P1 = C1 + V1 + AC1 + AV1 +
B1
(2a) P2 = C2 + V2 + AC2 + AV2 +
B2
Come si vede, la riproduzione
allargata si basa sempre sulla riproduzione semplice. Infatti:
riproduzione semplice
riproduzione allargata
P1= C1 + V1 + B1 + AC1 + AV1
P2= C2 + V2 + B2 + AC2 + AV2
Allo stesso modo, con semplici
passaggi algebrici, la condizione di equilibrio diventa:
V1 + B1 + AV1 = C2 + AC2
Ed ha lo stesso significato del
caso di riproduzione semplice: la domanda nel settore dei beni di produzione,
sia da parte degli operai che dei capitalisti, ivi compresa la sua parte
incrementale, deve essere uguale perlomeno alla capacità produttiva potenziale
del settore dei beni di consumo, ivi compresa la sua parte incrementale. Nella
pratica, la diseguaglianza fra i membri di queste due equazioni genera le
fluttuazioni cicliche del capitalismo, e la sua impossibilità di raggiungere un
equilibrio di stato stazionario.
Il funzionamento degli schemi di
riproduzione serve quindi per tratteggiare la teoria marxiana delle crisi
economiche capitalistiche. Come dice Marx, “il processo di produzione
capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come
processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque
solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da
una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato”. Ma tale riproduzione
può avvenire, ed anzi normalmente avviene, generando sproporzioni nella
condizione di equilibrio, per cui si generano eccessi di offerta, oppure
carenze di domanda. Infatti, Marx afferma che “La causa ultima di tutte le
crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse
in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le
forze produttive ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di
consumo assoluta della società.” Tali sproporzioni possono derivare da
qualsiasi motivo: da un eccessivo ingorgo di merci nella fase distributiva, che
spinge i commercianti ad una guerra di prezzi, con relativi fallimenti di
imprese ed aumento della disoccupazione e calo dei salari ,e quindi della
domanda, da una bolla finanziaria o speculativa che esplode e rovina migliaia
di risparmiatori/consumatori, da politiche economiche di austerità che
deprimono i consumi, da politiche monetarie e del credito restrittive, o da
combinazioni di tali elementi, ecc.
Il capitalista risponde
generalmente a tali crisi con vari sistemi:
a) Nella
teoria della Rosa Luxemburg, egli cercherà nuovi sbocchi di domanda, aprendo
nuovi mercati, che quando saranno esauriti nei Paesi capitalistici, saranno
cercati in quelli precapitalistici, attraverso la loro conquista coloniale,
oppure, come diremmo in termini più moderni, attraverso l’imperialismo, anche
di tipo puramente economico: lo sfruttamento di manodopera e materie prime a
costo particolarmente basso, ad esempio. Una strada fondamentale è rappresentata
dalla guerra: con una guerra, si fornisce un utilizzo al capitale produttivo
sovrabbondante rispetto alla domanda, e quindi ozioso, ed in qualche modo si
apre un nuovo mercato (quello bellico) per ripristinare un flusso di profitti;
b) Scaricando
la crisi a valle, sulla piccola borghesia produttiva. Nell’immediato, ciò
comporterà una crescita del livello di concentrazione oligopolistica della
produzione, con effetti di sostegno al profitto (la cartellizzazione permetterà
di far cessare le guerre di prezzo – infatti, come nota l’economista
neomarxista Sweezy, la curva di domanda in un mercato oligopolistico è ad
angolo, non permettendo al prezzo di superare, in alto o in basso, il suo
livello di equilibrio – e consentirà di accumulare una rendita da oligopolista,
anche grazie alla distruzione del capitale dei piccoli imprenditori falliti,
che riduce l’eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda). Ciò però,
nel medio periodo, comporterà la proletarizzazione crescente di fasce intere di
piccola borghesia, aggravando il gap di domanda;
c) Introducendo
innovazioni tecnologiche che aumentino la produttività (ovvero, come detto,
l’estrazione di plusvalore relativo) e di sistemi normativi che colleghino il
salario alla produttività o alla redditività dell’azienda, consentendone un
incremento tale da far ripartire la domanda, senza pesare però sul saggio di
profitto (poiché il salario si muove solo in relazione alla possibilità di
crescita del saggio di profitto). Tali modifiche normative possono essere
ottenute anche tramite meccanismi di compartecipazione dei lavoratori agli
utili aziendali. Sganciando però i salari dai prezzi, tali modifiche gettano le
basi per una successiva perdita di potere di acquisto reale dei salari, quando
arriverà la ripresa, e con essa la tendenza ad un aumento dei prezzi;
Con questi rimedi “tipici”, il
capitalismo riuscirà a far ripartire la domanda, ridare utilizzo al capitale
ozioso, distruggendone anche una parte, e quindi ad uscire dalla crisi,
riavviando un periodo di crescita.
Il declino tendenziale del saggio di profitto
Tuttavia, il riavvio di un
periodo di crescita non consentirà al capitalismo di sanare le sue contraddizioni
strutturali interne, preparando le condizioni per una nuova crisi futura, ed al
contempo aggravando, di crisi in crisi, le contraddizioni interne del
capitalismo, portandolo, ogni volta, sempre più vicino alla sua fine.
Tutte le normali strade di
fuoriuscita da una crisi sopra illustrate, infatti, non fanno altro che
aumentare la composizione organica del capitale, ovvero, come si ricorderà, il
rapporto fra valore del capitale costante e del capitale variabile. L’innovazione
tecnologica (che può essere spinta anche da una fase bellica) aumenta il valore
del capitale costante; le ristrutturazioni sociali e di mercato messe in campo
per uscire dalla crisi tendono a deprimere il capitale variabile. L’aumento
della composizione organica del capitale, come effetto peculiare di fuoriuscita
di breve periodo dalle crisi capitalistiche, genera un effetto di lungo
periodo, ovvero la riduzione del saggio di profitto tendenziale. Nei termini
più semplificati possibili, Marx afferma che l'incremento della composizione
organica del capitale, produce una tendenza alla caduta del tasso di profitto,
anche quando ciò accresce il saggio del plusvalore. L'effetto depressivo
derivante dall'incremento del capitale costante, infatti, più che compensa
l'aumento del plusvalore. Formalmente:
- sia q la composizione organica del
capitale, ovvero q = C/V, dove C, come sempre, è il capitale costante, ovvero
il valore-lavoro incorporato nella massa di macchinari e strumenti per la
produzione, e V è il capitale variabile, ovvero il valore-lavoro necessario per
la riproduzione della forza-lavoro (approssimabile con il monte-salari);
- sia s il saggio del plusvalore, ovvero
s = Pv/V, dove Pv è il plusvalore estratto dal capitalista;
- sia r il saggio di profitto, ovvero r =
Pv/(C + V).
Se dividiamo numeratore e
denominatore del saggio di profitto per V, otteniamo:
r = s/(q + 1)
Pertanto, un incremento della
composizione organica del capitale q, derivante da un investimento in nuovi
macchinari di produzione, se superiore al conseguente incremento del saggio di
plusvalore s, associato alla maggiore produttività dovuta al migliore
equipaggiamento tecnico di produzione, comporta evidentemente una riduzione del
valore del saggio di profitto r.
Tuttavia lo stesso Marx circonda
di notevole circospezione tale legge, onde evitare irrealistici meccanicismi.
Nel libro III del Capitale, infatti, viene detto che tale legge rappresenta una
tendenza generale, cioè di lungo periodo, mentre nel breve operano “fattori
contrastanti”, ed in particolare Marx ne cita sei (un più intenso sfruttamento
del lavoro, che fa crescere oltremodo s, la riduzione dei salari al di sotto
del valore di riproduzione della forza-lavoro, la riduzione del valore di
elementi di capitale costante, una crescita dell'esercito industriale di
riserva, il commercio estero, che può ridurre il costo degli input produttivi,
l'aumento della condivisione del capitale, che ne trasferisce il costo su altri
soggetti).
Tale legge è una delle più
controverse dell’economia marxista, poiché di fatto dimostra una tendenza
spontanea, seppur di lunghissimo periodo, all’esaurimento della stessa capacità
del capitalismo di autosostenersi, pur se dimostra la capacità di uscire dalle
crisi periodiche che lo affliggono. Non solo economisti keynesiani, ma anche
economisti neomarxisti come Paul Sweezy, infatti, hanno contestato la validità
di tale legge, soprattutto in relazione alla crescita del surplus realizzata
tramite la progressiva concentrazione oligopolistica del sistema produttivo. Tuttavia,
come sottolineano gli stessi critici, tale surplus viene speso soprattutto in
modo improduttivo (investimenti in immagine, marketing, lobbysmo politico,
ecc.) mentre il capitalismo non risolve affatto il passaggio dalla fase
produttiva a quella del realizzo: la crescente efficienza produttiva che viene
mostrata dalla curva di crescita della produttività non ha un corrispondente
nella crescita della domanda e dei redditi, come dimostrato, ad esempio per
l’Italia, in questo grafico, tratto dall’articolo di Riccardo Achilli “Il
Declino Tendenziale del Saggio di Profitto”, su http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2012/11/il-declino-tendenziale-del-saggio-di.html
Andamento dei salari reali e della produttività reale del lavoro in
Italia
Ciò fa sì che le analisi
empiriche più moderne, e condotte su serie storiche sufficientemente lunghe,
dimostrino che, in effetti, si verifica una tendenza, sia pur molto lenta e
graduale, verso il declino del saggio di profitto. Ancora una volta, in questo grafico
tratto dal medesimo articolo di Riccardo Achilli, si vede che il saggio di
profitto dell’economia italiana tende a decrescere.
Andamento del saggio di profitto lordo italiano fra 1970 e 2009
Bibliografia/sitografia: per saperne di più
Karl Marx, Manoscritti Economico-Filosofici, su http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Manoscritti/indexman.html
Karl Marx, Per La Critica dell’Economia Politica, su http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1859/criticaep/index.htm
Karl Marx, Il Capitale, su http://culturagratis.altervista.org/wp-content/uploads/2012/01/Marx-il-Capitale.pdf
Paul Baran, Paul M. Sweezy. Monopoly Capital. An Essay on the American Economic and Social Order,
Monthly Review Press, 1966. Traduzione italiana: Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale
americana, Einaudi, 1968.
Xepel, Su Alcuni Aspetti di Teoria Della Crisi, in http://www.homolaicus.com/economia/pagineconomia/teoria_crisi.htm
Riccardo Achilli, Il Declino Tendenziale Del Saggio di
Profitto, in http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2012/11/il-declino-tendenziale-del-saggio-di.html
Dispensa nr. 3 – La Teoria Marxista della Rivoluzione
La dottrina politica marxista è
ovviamente rivoluzionaria. L’obiettivo è quello di far terminare, con una presa
di potere violenta, il modo di produzione capitalistico, per instaurare il
socialismo, che dovrà quindi condurre al comunismo. La comprensione idonea
della teoria rivoluzionaria marxiana non può che passare per il tramite di una
analisi della teoria marxiana delle classi sociali nel modo di produzione
capitalistico, poiché è dalla dinamica di classe che emerge la dinamica
rivoluzionaria.
Le classi sociali nel capitalismo
Come già espresso nella dispensa
nr. 1, il criterio materialistico marxista identifica le classi sociali in base
al loro posizionamento rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione. Per
maggior precisione, la definizione marxiana di classe prevede la concorrenza di
più fattori, anche se ovviamente quello economico/produttivo, ovvero il
posizionamento rispetto alla proprietà dei mezzi di produzione, è quello
essenziale. “Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni
economiche tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi, e la
loro cultura da quella di altre classi e li contrappongono ad essi in modo
ostile essi formano una classe” (Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte).
Tuttavia questo non basta ancora. Infatti, come accade tra i contadini piccoli
proprietari, “se esistono soltanto legami locali, e l'identità dei loro
interessi non crea tra di loro una comunità, una unione politica su scala
nazionale e una organizzazione politica, essi non costituiscono una classe.
Sono quindi incapaci di far valere i loro interessi nel loro proprio nome, sia
attraverso un Parlamento, sia attraverso una Convenzione”. Posizione economica,
interesse di classe, organizzazione politica sono dunque i tre elementi costitutivi
della classe.
Di conseguenza, Marx identifica
quattro classi sociali fondamentali nel capitalismo, più una serie di mezze
classi, ovvero di gruppi sociali che, non avendo tutti e tre i requisiti sopra
indicati, non raggiungono il livello di maturazione tipico di una classe
sociale: i “rentiers”, che non investono soldi, e che vivono della rendita dei
propri beni immobiliari, e che ai tempi di Marx rappresentano i resti della
vecchia nobiltà pre-capitalistica, la grande borghesia, che possiede la proprietà
dei mezzi di produzione e che li fa funzionare “noleggiando” la forza-lavoro
necessaria attraverso il pagamento del salario, e remunerandosi con il
plusvalore generato da tale forza-lavoro, la piccola borghesia, “che oscilla
tra il proletariato e la borghesia e si viene sempre ricostituendo come parte
integrante della società borghese” (Il Manifesto) una classe intermedia in cui
si smussano le differenze fra grande borghesia e proletariato, e che in
generale si reputa superiore alle loro lotte, che da un punto di vista
culturale ed economico ambisce costantemente ad entrare nella grande borghesia,
non di rado imitandone anche comportamenti, codici sociali, scelte politiche,
ma poi spesso, nelle crisi economiche, finisce per essere proletarizzato. Il perimetro di questa classe intermedia è
incerto, dipendendo da condizioni storiche e nazionali specifiche, però può
farsi coincidere con i piccoli imprenditori, gli artigiani, i commercianti, i
liberi professionisti e lavoratori autonomi. Infine, il proletariato viene
definito come quella classe privata della proprietà dei mezzi di produzione, la
cui unica proprietà è la forza-lavoro individuale, che viene ceduta alla
borghesia in cambio di un salario. In questo senso, quindi, il proletariato non
coincide soltanto con gli operai, ma più in generale con tutto il mondo del
lavoro dipendente di tipo esecutivo (quindi fino al livello impiegatizio) e
parasubordinato (quindi quella parte dell’occupazione formalmente non
dipendente che però svolge, sia pur con una parvenza di autonomia, un lavoro
dipendente a tutti gli effetti, co.co.pro., co.co.co., ma anche una quota di
partite-Iva che in realtà operano come dipendenti).
Tale classificazione è
evidentemente schematica, Marx stesso ne è consapevole, per cui egli per primo
introduce una serie di aggiunte e sfumature. Vi sono intanto numerose mezze
classi, come per l’appunto quella dei piccoli proprietari agricoli, che non
arrivano ad identificarsi come classe sociale completa, però ne rivestono
alcune caratteristiche; poi al di sotto, e per alcuni versi all’esterno, della
sopra illustrata categorizzazione delle classi sociali dotate di una loro
dinamica all’interno del funzionamento del capitalismo, convive un gruppo
sociale, spesso numericamente molto ampio, denominato “sottoproletariato”, che
ha perso la sua connotazione di classe, composto in primo luogo da coloro che a
causa dell'eccedenza di mano d'opera sono disoccupati cronici o occupati
irregolarmente, e si caratterizza come una massa di persone che vivono costantemente
al di sotto delle condizioni medie della classe operaia, escluse dal processo
produttivo e perciò stesso ai margini dei consueti rapporti sociali a ciò
relativi. La perdita di coscienza di classe derivante dall’esclusione dai
rapporti produttivi conduce Marx a un certo disprezzo circa la possibilità che
tale categoria sociale (non definibile come classe) possa giocare un ruolo
rivoluzionario: “in tutte le grandi città [formano] una massa nettamente
distinta dal proletariato industriale, nella quale si reclutano ladri e
delinquenti di ogni genere, che vivono dei rifiuti della società - gente senza
un mestiere definito, vagabondi, gens sans feu et sans aveu, diversi secondo il
grado di civiltà della nazione cui appartengono, ma che non perdono mai il carattere
di lazzaroni” (Marx, Le lotte di classe
in Francia). Tale gruppo sociale serve, per Marx, a fornire al capitalismo
quell’esercito industriale di riserva in grado di comprimere verso il basso il
salario dell’operaio, facendogli concorrenza. E’ quindi visto come una massa di
manovra passiva, utilizzata dal capitalismo per i suoi interessi di classe.
Naturalmente è oggi impossibile
parlare del sottoproletariato nei termini dispregiativi con cui ne parla Marx,
non foss’altro che per il fatto che l’enorme ampliamento dell’area del lavoro
“sistematicamente precario” richiede una comprensione maggiore della natura di
classe del precariato, e della sua possibile inclusione in una lotta unitaria
per i diritti del lavoro. Certamente rimane però attuale la facilità con cui
tale gruppo sociale eterogeneo, privato della possibilità di costruire
coscienza di classe tramite il rapporto diretto e continuativo con il ciclo
produttivo capitalistico, può cadere vittima di suggestioni e fascinazioni
demagogiche da parte della destra.
Infine, Marx affronta anche, in
parte, la questione spinosa del collocamento sociale di una categoria, come
quella degli amministratori, dei dirigenti e quadri di fabbrica, che non
possono classificarsi fra la borghesia in senso stretto, non avendone le
caratteristiche (essendo salariati, e non remunerati con il plusvalore) ma che
al tempo stesso operano in maniera distinta, e antagonista, rispetto ai
proletari, curando l’interesse padronale. Egli allora, nei Grundrisse, elabora il concetto di “lavoratore collettivo
cooperativo associato alle potenze mentali della produzione capitalistica”,
soggetto alternativo all’ipotizzato ritirarsi della borghesia proprietaria dei
mezzi di produzione in una posizione di classe di semi-percettori di rendita
avulsi dalla produzione di ricchezza, e che dovrebbe quindi derivare dalla
fusione di interessi fra tali tecnici e quadri superiori e lavoratori. Tale
lavoratore collettivo cooperativo associato, però, nella dinamica del
capitalismo, non è emerso, con la conseguenza che amministratori, dirigenti e quadri di
fabbrica (o di impresa, come direbbe Gianfranco La Grassa) hanno finito per
rappresentare una mezza classe alleata, ed in tutto e per tutto identificata
culturalmente e politicamente, con la grande borghesia.
La dinamica rivoluzionaria: la base teorica fondamentale
La dinamica della rivoluzione
marxiana viene descritta nel Manifesto Del Partito Comunista (1848). Poiché il
criterio del materialismo storico vede l’evoluzione della storia come il risultato
di una dialettica fra classi sociali opposte ed antagoniste, lo sviluppo delle
forze sociali determinato dall’evoluzione del capitalismo mette l’umanità di
fronte ad un dilemma insuperabile: o socialismo o barbarie. O il proletariato
sarà in grado, con una rivoluzione violenta, di distruggere il modo di
produzione capitalista, instaurando un nuovo sistema, ovvero il socialismo,
oppure il conflitto di classe porterà alla reciproca distruzione delle classi
in lotta, e quindi alla distruzione dell’umanità. Questo perché il capitalismo,
se non verrà superato, affonderà nelle sue stesse contraddizioni interne,
trascinandosi dietro l’intera umanità. Tale modo di produzione è infatti
incapace di evitare il progressivo impoverimento e la progressiva alienazione
lavorativa di fasce crescenti di popolazione, come conseguenza della sua
intrinseca tendenza ad accrescere lo sfruttamento per massimizzare l’estrazione
di plusvalore, ad abbassare il salario sui livelli di sussistenza ed a
proletarizzare fasce crescenti di piccola borghesia. Ma al contempo, non può evitare
che crisi cicliche, nel breve e medio periodo, comportino sistematiche
distruzioni di capitale (e di relativi capitalisti rovinati) e che nel lungo
periodo il saggio di profitto tenda inevitabilmente a decrescere, creando così
le condizioni per la distruzione della sua classe dominante (cfr. dispensa nr.
2).
Se il proletariato non prenderà
su di sé l’onere storico di abbattere il capitalismo, quindi, l’avvitamento di
questo modo di produzione sulle sue contraddizioni interne provocherà una
distruzione globale. E tutto ciò senza considerare le problematiche ecologiche,
appena accennate da Marx, nel Capitale, quando indica che un certo modo di
produzione si svolge all’interno di predeterminate condizioni di produzione,
fra le quali rientra anche lo stato dell’ambiente. Un successivo ramo
dell’analisi teorica marxista, denominato “ecomarxismo”, il cui esponente più
noto è James O’Connor, si incaricherà poi di sviluppare questa intuizione di
Marx, descrivendo in termini marxisti la distruzione ambientale totale generata
dallo sviluppo del capitalismo, come nuova, e potenzialmente esiziale,
contraddizione interna di tale sistema.
La prima fase della Rivoluzione
socialista passa tramite la cattura dello Stato borghese, e delle sue
istituzioni, da parte del proletariato. In coerenza con la base teorica
marxista, lo Stato borghese e le sue istituzioni è visto come una componente
sovrastrutturale, un comitato che ne amministra (e facilita) gli affari comuni.
Anche nella forma tradizionale della democrazia liberale, lo Stato borghese è
visto come strumento sovrastrutturale di perpetuazione del dominio di classe.
Le illusioni democratiche borghesi sono ben illustrate da Lenin in “Democrazia
e Dittatura” (1919) ed in “Stato e Rivoluzione” (1917). Il punto di attacco di
base è che, se i rapporti economici e produttivi continuano ad essere dominati
da una classe a danno dell’altra, allora anche i rapporti elettorali e politici
saranno necessariamente influenzati e diretti dall’interesse di tale classe,
per cui le tipiche libertà formali della democrazia borghese (diritto di
espressione, di voto, di associazione, ecc.) vengono svuotate del loro
significato sostanziale. Ecco alcuni passaggi, scritti nell’incisivo e limpido
stile di Lenin: “prendiamo, ad esempio, la libertà di riunione e la libertà di
stampa (…) è una menzogna, perché i capitalisti, gli sfruttatori, i grandi
proprietari fondiari e gli speculatori detengono di fatto i nove decimi delle
migliori sale di riunione, i nove decimi delle provviste di carta, delle
tipografie, ecc. L’operaio nelle città, il salariato agricolo e il giornaliero
nelle campagne sono di fatto estraniati dalla democrazia sia mediante il
“sacrosanto diritto di proprietà” (…) sia mediante l’apparato borghese del
potere statale, cioè mediante i funzionari borghesi, i giudici borghesi, ecc. “[1]
Primo compito del proletariato
sarà quindi quello di appropriarsi con la forza dello Stato, eliminando
l’illusione della democrazia borghese, e trasformandolo in Stato operaio, al
fine di espropriare la borghesia ed i rentiers dei mezzi di produzione, e
collettivizzarli. Poiché sarà necessario distruggere le fortissime resistenze
che la borghesia metterà in atto, tale Stato non potrà che essere, in una prima
fase, uno Stato dittatoriale, una dittatura del proletariato. In questa fase,
si instaurerà il socialismo, e sarà una fase transitoria, necessaria per creare
le premesse affinché la proprietà privata sia abolita, i mezzi di produzione
collettivizzati a favore dell’intera società, in modo tale che a quel punto la
distinzione in classi sociali (dipendente dalle differenze nel posizionamento
proprietario rispetto ai mezzi di produzione) sia superata, eliminando quindi
le classi sociali, ed al tempo stesso lo stesso concetto di Stato, che, come si
è visto, serve soltanto per preservare una determinata composizione di classe
della società. Si arriverà quindi allo stadio finale della storia dell’umanità,
una società di liberi produttori, senza classi e senza Stato, ovvero il
comunismo.
Il passaggio al comunismo attraverso
il socialismo, nei suoi aspetti distributivi (anche se si specifica che
l’aspetto distributivo non è la questione essenziale del socialismo, poiché la
ripartizione dei mezzi di consumo è solo conseguenza della ripartizione dei
mezzi di produzione) viene spiegato meglio, da Marx ed Engels, nella “Critica
del Programma di Gotha” (1875). Tale documento, tra l’altro, specifica che, nella
pienezza della realizzazione del comunismo, i lavoratori non saranno retribuiti
in base a ciò che producono, come avviene nel capitalismo, ma in base ai loro
bisogni, donde la famosa frase “ognuno (apporti) secondo le sue capacità, a
ciascuno (sia dato) secondo i suoi bisogni”. Naturalmente, ciò rappresenta la
realizzazione finale del processo. In una fase preliminare di tipo ancora
socialista, il singolo produttore riceverà ciò che ha dato in termini di
apporto lavorativo, al netto di una detrazione di valore dovuta
all’alimentazione di fondi comuni sociali (spese di amministrazione generale,
spese per la soddisfazione di bisogni sociali come scuole ed ospedali, fondo
per gli inabili al lavoro).
Gli elementi programmatici
fondamentali di una società socialista, sotto la dittatura del proletariato,
sono evidenziati sia nel programma di base individuato nel Manifesto, sia nella
“Guerra Civile in Francia”, opera in cui Marx analizza l’esperienza della
Comune di Parigi del 1871. Dalla congiunzione di queste due opere, possiamo
ricavare il seguente elenco minimo:
-
Espropriazione della proprietà fondiaria ed
impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato;
-
Imposizione fortemente progressiva;
-
Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e
ribelli;
-
Accentramento del credito nelle mani dello Stato
tramite una banca nazionale pubblica con monopolio esclusivo;
-
Accentramento del sistema dei trasporti in mano
allo Stato;
-
Piano collettivo per l’industria e
l’agricoltura;
-
Eguale obbligo di lavoro per tutti;
-
Unificazione dell’esercizio di agricoltura ed
industria, e progressiva eliminazione della distinzione fra città e campagna;
-
Istruzione pubblica, gratuita ed universale e
combinazione dell’istruzione con le esigenze produttive;
-
Eliminazione del lavoro minorile;
-
Abolizione dell’esercito permanente e creazione
di una milizia operaia;
-
Soppressione del parlamentarismo e istituzione
di forme di democrazia diretta nei luoghi di lavoro e nell’amministrazione
pubblica;
-
Soppressione del privilegio burocratico e di
tutte le funzioni repressive e parassitarie dello Stato.
Condizioni oggettive e soggettive di una rivoluzione: ruolo del partito
e partecipazione ai meccanismi politici borghesi
Se quella sopra delineata è la
dinamica generale di una rivoluzione, sia nei capitalismi maturi che in quelli
arretrati, è ingenuo e antimarxista pensare che la sola lotta di classe possa,
meccanicisticamente, condurre ad uno sbocco rivoluzionario, né che questo possa
derivare dall’autonoma maturazione delle contraddizioni interne del
capitalismo, adottando un approccio grettamente economicistico. In realtà, come
ci dice Lenin, la sola lotta di classe, di per sé, sbocca nel mero trade
unionismo, cioè nella rivendicazione salariale e lavorativa riformista dei
sindacati in ambito capitalistico.
Lenin stesso, nella sua
fondamentale opera “Che Fare?” (1902), delinea in modo organico la teoria
dell’organizzazione e la strategia di un partito comunista rivoluzionario. Tale
libro fornisce la risposta fondamentale dell’innesco di una situazione
rivoluzionaria, già posta da Marx nel problema del passaggio della classe “in
sé” alla classe “per sé”. La classe proletaria in sé è la classe nelle sue
condizioni oggettive, materiali, che la definiscono agli occhi di un
osservatore esterno, e rispetto al resto della società, mentre diventa “per sé”
nel momento in cui acquisisce coscienza di sé stessa, della comune posizione e
dei comuni interessi dei suoi membri. Ebbene, per Lenin questo passaggio non è
automatico, non può ottenersi con la mera lotta di classe, né con la lotta
economica contro le politiche economiche che danneggiano o impoveriscono il
proletariato, ma può essere portata soltanto dall’esterno della classe e della
sua lotta, da un élite rivoluzionaria molto ben preparata, in grado di avere
una capacità di analisi dell’intera società, e di saper parlare all’intera
società, in modo da costruire alleanze fra proletariato ed altri settori
sociali (piccola borghesia urbana e rurale, intellettuali che decidono di
allearsi alla causa delle masse). Tale élite rappresenta il vertice del partito
comunista, che è quindi il partito delle avanguardie culturali, intellettuali e
politiche, che conferiscono al proletariato coscienza di sé stesso, dei suoi
interessi e della più efficace linea di lotta, che non può essere meramente
tradeunionistica o riformista, ma rivoluzionaria. Il partito di avanguardia
diviene quindi il mediatore fra la classe in sé e la classe per sé.
Ma la presenza del partito di
avanguardia, ancora, non basta per scatenare una rivoluzione. Secondo Lenin,
una situazione rivoluzionaria matura soltanto dopo un lungo periodo di
accumulazione delle forze e di “costante assedio alla fortezza nemica”, una
fase fatta di lotte continue a tutti i livelli: economico, sindacale, ma anche
sovrastrutturale (culturale, politico, parlamentare). In questa fase, per Lenin
è anche utile stipulare temporanee alleanze politiche con parti avverse, purché
strumentali a far avanzare la causa rivoluzionaria, ed anche partecipare
attivamente alla vita parlamentare della democrazia borghese, se utile per
accrescere la visibilità del partito rivoluzionario e la sua credibilità verso
il proletariato, sostenendone anche le rivendicazioni più spicciole e
quotidiane per le vie democratiche ed istituzionali normali. In questo, Lenin
entra in aperto contrasto con la cosiddetta “sinistra comunista”, rappresentata
in Italia da Amadeo Bordiga e dalla sua corrente, che nega ogni possibile
partecipazione dei comunisti al compromesso democratico e politico borghese,
polemizzando con i “sinistri” nella famosa opera “L’Estremismo, Malattia Infantile
del Comunismo” (1920).
Con questa lunga preparazione di
lotta e di creazione di coscienza di classe, la situazione può diventare
rivoluzionaria soltanto se maturano condizioni oggettive e soggettive. Le prime
sono riferite, sempre secondo Lenin, ad una situazione in cui la classe
dominante si è indebolita a tal punto, per effetto delle lotte di classe e
delle sue lotte intestine, da non essere più in grado di governare come prima,
quando cioè il suo apparato repressivo è entrato in decomposizione, il suo
sistema partitico e istituzionale ha perso ogni credibilità agli occhi del
popolo, ed al tempo stesso il proletariato ha raggiunto un tale livello di
impoverimento e sfruttamento oggettivo da essere pronto ad affrontare anche la
morte, pur di cambiare le cose, orientandosi in questo modo verso una azione
rivoluzionaria, non più riformista. Queste sono le condizioni oggettive entro
cui può svilupparsi una situazione rivoluzionaria. Occorre poi che vi siano le
condizioni soggettive, ovvero la presenza di un partito di avanguardie che
sappia conferire coscienza di classe, costruire le alleanze con altri settori
sociali, dirigere la lotta rivoluzionaria scegliendo i tempi giusti per
scatenare la rivoluzione, e le parole d’ordine giuste per mobilitare le masse.
Se tali condizioni oggettive e
soggettive non sono presenti contemporaneamente e nella giusta intensità, la
situazione rivoluzionaria deperisce, ed il compito del partito rivoluzionario
ridiventa quello di accumulare nuovamente le forze per una occasione futura.
Programma transitorio e rivoluzione permanente in Trotsky
Lev Trotsky è uno dei principali
dirigenti bolscevichi che fanno la Rivoluzione Russa ed organizzano la nascita
dell’Unione Sovietica, fino a quando il contrasto con Stalin lo costringerà
all’esilio, ed alla morte, nel 1940, per mano di un sicario staliniano. Egli
riprende le prime intuizioni di Marx ed Engels sulla rivoluzione permanente,
ovvero sulle dinamiche rivoluzionarie nei Paesi a basso sviluppo capitalistico
(come per l’appunto la Russia prerivoluzionaria). Secondo tale schema, nei
Paesi arretrati (in termini di sviluppo capitalistico) la rivoluzione
democratico-borghese non può essere svolta dalla borghesia, troppo gracile e
troppo poco autonoma dalle aristocrazie nobiliari e terriere per poter svolgere
il ruolo storico di abbattimento definitivo del precedente sistema feudale e di
affermazione totalitaria del modo di produzione capitalistico. Sulla base della
legge dello sviluppo diseguale e combinata, elaborata dallo stesso Trotzky, lo
sviluppo capitalistico non avviene in modo omogeneo e lineare in tutti i Paesi
e le regioni, ma in modo più o meno rapido fra centro e periferia, ed inoltre,
nei Paesi e nelle regioni più arretrate, sottoposte a controllo coloniale, combinando
elementi di arretratezza precapitalistica a elementi più moderni. Nei Paesi
colonizzati, infatti, il padrone imperialista fornisce immediatamente alcuni
elementi molto avanzati di capitalismo, come la concentrazione e
centralizzazione del capitale in grandi imprese che provengono dalla metropoli,
la creazione di reti di trasporto moderne dai punti dove vengono prodotte le
materie prime agricole e minerarie, ma al tempo stesso si mantengono assetti
sociali feudali e rurali, la borghesia nazionale è poco sviluppata, compradora
e incapace di fornire elementi di innesco di una rivoluzione industriale
autoctona.
In queste situazioni, il
proletariato deve sobbarcarsi l’onere di compiere la rivoluzione
democratico-borghese, seppellendo gli elementi feudali ancora dominanti, in
luogo della borghesia, e poi di compiere la successiva rivoluzione socialista,
esautorando la debole borghesia nazionale. In questo senso, la rivoluzione
sarebbe stata permanente, o ininterrotta.
Inoltre, Trotsky riprende il
concetto di internazionalismo proletario già espresso da Marx ed Engels nel
Manifesto, sviluppandolo ulteriormente. Nel Manifesto, infatti, i due padri del
marxismo specificano come il proletariato non abbia patria: una delle prime
condizioni di emancipazione del proletariato è l’azione unita, al di là delle
frontiere nazionali, abolendo lo sfruttamento di una nazione sull’altra, cioè
l’imperialismo, nella misura in cui la lotta del proletariato è contro lo
sfruttamento di una classe sull’altra, e tale lotta non ha frontiere. D’altra
parte, è la stessa natura sempre più transnazionale e globalizzata del
capitalismo, già perfettamente compresa da Marx ed Engels, ad imporre un’unità
di azione transnazionale anche al proletariato.
In questo quadro, Trotsky ritiene
che un nuovo Stato socialista non sia in grado di resistere, da solo, contro la
pressione del mondo capitalista. Da ciò discende che la rivoluzione socialista
debba essere esportata immediatamente anche negli altri Paesi, utilizzando a
tal fine anche strutture di coordinamento politico transnazionale dei partiti
comunisti nazionali, come le Internazionali.
Nel 1938, elabora il Programma di
Transizione che deve consentire la preparazione alla presa del potere da parte
delle masse. Considerando una fase di preparazione pre-rivoluzionaria, fatta di
agitazioni, di propaganda e di organizzazione, egli si pone il problema di
aiutare le masse a trovare un ponte fra le loro rivendicazioni pratiche,
quotidiane, ed il programma di una più ampia rivoluzione socialista. Tale ponte
va costruito attraverso un sistema di rivendicazioni transitorie che siano
congegnate in modo da rispondere ad alcune esigenze immediate dei lavoratori,
fidelizzandoli ad una causa che in ultima analisi è rivoluzionaria e non
meramente riformista, ed al contempo in modo da avviare un cambiamento
strutturale dei meccanismi capitalistici. Si prevedono le seguenti misure:
-
Scala mobile dei salari, indicizzati ai prezzi,
e delle ore di lavoro, indicizzate al tasso di disoccupazione, in modo da
ripartire il lavoro disponibile fra lavoratori e disoccupati, recuperando
questi ultimi dal sottoproletariato, e ampliando così i confini del
proletariato;
-
Partecipazione dei comunisti ai grandi sindacati
di massa, per orientarli in direzione rivoluzionaria e sconfiggerne le
burocrazie interne riformiste, ed al contempo creazione di comitati di sciopero
e di fabbrica per coprire la quota meno qualificata e meno sindacalizzata della
forza-lavoro, coordinandoli con la creazione di soviet;
-
Favorire gli scioperi con occupazione della
fabbrica;
-
Mettere gli operai in condizioni di conoscere i
segreti contabili, commerciali, tecnologici della propria impresa e del proprio
settore, anche tramite i comitati di fabbrica;
-
Elaborazione di un piano economico, anche in
materia di investimenti in opere pubbliche, che privilegi la riattivazione
delle imprese private chiuse in seguito a crisi;
-
Espropriazione di gruppi industriali in settori
nevralgici (industria bellica, ferrovie, miniere, ecc.) senza indennizzo, e
mettendoli sotto il controllo dei lavoratori stessi;
-
Espropriazione delle banche ed unificazione
delle stesse sotto un unico istituto
nazionale, e statalizzazione del credito;
-
Creazione di una milizia operaia che difenda i
lavoratori negli scioperi ed agitazioni;
-
Alleanza fra operi e contadini, ed elaborazione,
su base nazionale, di rivendicazioni transitorie a favore dei contadini e della
piccola borghesia cittadina, per legarla agli interessi proletari;
nazionalizzazione dell’agricoltura e sua collettivizzazione, preservando la
piccola proprietà privata contadina; preservazione della piccola proprietà
artigiana e commerciale;
-
Contrasto alla guerra borghese ed
all’imperialismo;
-
Sostituzione dell’esercito permanente con una
milizia operaia;
-
Allo stesso modo, sostegno ai Paesi colonizzati
nella loro lotta di emancipazione nazionale;
-
Creazione di un Governo operaio e contadino.
Bibliografia/sitografia: per saperne di più
Karl Marx, Friedrich Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, su http://www.liberliber.it/mediateca/libri/e/engels/il_manifesto_del_partito_comunista/pdf/il_man_p.pdf
Karl Marx, Friedrich Engels, Critica Del Programma di Gotha, su www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/index.htm
Karl Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, su www.marxists.org/italiano/marx-engels/1852/brumaio/index.htm
Karl Marx, La Guerra Civile in Francia, su www.marxists.org/italiano/marx-engels/1871/gcf/index.htm
Vladimir Lenin, Che Fare? Su www.marxists.org/italiano/lenin/1902/3-chefare/cf-index.htm
Vladimir Lenin, Stato e Rivoluzione, su www.marxists.org/italiano/lenin/1917/stat-riv/index.htm
Vladimir Lenin, La Rivoluzione Proletaria Ed Il Rinnegato
Kautsky, su www.marxists.org/italiano/lenin/1918/10-kautsky/kau1.htm
Vladimir Lenin, Democrazia e Dittatura, su www.marxists.org/italiano/lenin/1918/12/23.htm
Vladimir Lenin, L’Estremismo Malattia Infantile Del
Comunismo, su www.marxismo.net/estremismo/introduzione.html
Lev Trotsky, L’Agonia Del Capitalismo E I Compiti della IV Internazionale, su www.marxists.org/italiano/trotsky/1938/6/transiz.htm
Lev Trotsky, Le Prospettive Dell’Evoluzione Mondiale, su www.marxists.org/italiano/trotsky/1924/evoluzione.htm
Lev Trotsky, La Curva Dello Sviluppo Capitalistico, su www.marxists.org/italiano/trotsky/1923/curva-sviluppo.htm
Dispensa nr. 4 – Marxismo ed imperialismo
In termini molto generici,
l’imperialismo può essere definito come un processo in cui un Paese,
generalmente a sviluppo capitalistico più avanzato, impone una egemonia
economica, politica e culturale su un altro Paese, generalmente a sviluppo
capitalistico più arretrato, per sfruttarne le risorse naturali o economiche
(determinate materie prime minerarie o agricole, ma anche bacini di manodopera
ad alto rapporto fra produttività e costo, oppure una posizione geostrategica conveniente).
L’imperialismo non necessariamente adotta la forma più diretta e più brutale
dell’invasione militare e del soggiogamento politico formale, trasformando il
Paese soggiogato, a seconda dell’intensità del controllo politico, in un
protettorato o in una vera e propria colonia, ma può essere condotto con forme
di controllo politico ed economico indiretto, preservando una parvenza formale
di indipendenza del Paese soggiogato, tipicamente facendo leva sulla
propensione a farsi corrompere della sua borghesia nazionale compradora, incapace,
in ragione dell’insufficiente sviluppo capitalistico del Paese dominato, di
assumere la funzione emancipatrice e rivoluzionaria tipica delle borghesie
nazionali europee e nordamericane.
Nei Paesi sottoposti a tale
controllo neoimperialistico, infatti, per usare le parole di Frantz Fanon,
“all’interno di questa borghesia nazionale non troviamo né industriali né
finanzieri. La borghesia nazionale dei Paesi sottosviluppati non è orientata
alla produzione, l’invenzione, la costruzione, il lavoro. E’ interamente
canalizzata verso attività di intermediazione. Stare dentro il circuito, dentro
la “combine”, questa sembra essere la sua vocazione profonda (…) I quadri
universitari e commerciali (oltre che
funzionariali, ndt) che rappresentano la fazione più illuminata del nuovo
Stato si caratterizzano per il loro piccolo numero, la loro concentrazione
nella città capitale, il tipo di attività svolte: piccolo commercio, anche
agricolo, libera professione (…) Nella prospettiva culturale limitata della
borghesia nazionale, un’economia nazionale viene identificata con un’economia
basata sui cosiddetti prodotti locali. Grandi discorsi saranno pronunciati a
favore dell’artigianato (…) Questo culto dei prodotti locali, questa
impossibilità di inventare nuove direzioni si manifesteranno anche nel
vincolarsi, da parte di questa borghesia nazionale, alla produzione agricola
tipica del periodo coloniale (…) si tratta sempre della raccolta di arachidi,
di cacao, di olive. Nessuna modifica viene introdotta nel trattamento di questi
prodotti di base. Nessuna industria viene installata nel Paese. Si continua a
fare i piccoli contadini dell’Europa, gli specialisti dei prodotti grezzi (…)
Poiché questa borghesia nazionale non ha né i mezzi tecnici né quelli
intellettuali necessari (ingegneri, tecnici) essa limiterà le sue pretese alla
ripresa degli uffici di intermediazione e delle case di commercio occupati, in
precedenza, dai colonizzatori. La borghesia nazionale prende così il posto dei
vecchi coloni europei: medici, avvocati, commercianti, rappresentanti, agenti
generali, spedizionieri….La borghesia nazionale si assegna la missione storica
di servire da intermediario…a servire da corridoio di trasmissione di un
capitalismo che appare oggi con la maschera neo-colonialista.”[2]
L’imperialismo non è quindi
soltanto una questione di rapporti economici di dominazione, ma implica anche
aspetti di tipo sovrastrutturale, politico, sociale e culturale[3].
In tal senso, quindi, un eroe della lotta antimperialistica come Thomas Sankara
può affermare che “per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente
che militarmente. La dominazione culturale è la più efficace, la meno costosa.
Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità”.
Il tema dell’imperialismo è
presente sin dalla genesi del pensiero marxista. Marx ed Engels affermano
infatti che un Paese che domina un altro Paese non è un Paese libero. Il primo
abbozzo di analisi economica dell’imperialismo si rintraccia nelle Teorie del
Plusvalore, laddove Marx afferma che non appena si instaura il commercio
mondiale, la legge del valore è sottoposta a modifiche essenziali, perché il
tempo di lavoro necessario alla produzione delle merci scambiate sta in un
rapporto proporzionale con le diverse produttività dei diversi Paesi, talché
“il Paese più ricco (a più alta produttività) sfrutta il più povero (a più
bassa produttività)”. In pratica, più lavoro compra meno lavoro, generando lo
sfruttamento imperialistico. La lotta contro l’imperialismo diviene quindi uno
dei temi centrali di Marx ed Engels, molto meno invece negli scritti di Engels
dopo la morte di Marx. Ad esempio, Marx scriverà esplicitamente in favore della
lotta di liberazione nazionale irlandese contro il dominio inglese, vedendo
correttamente nel successo di tale lotta di liberazione un passaggio essenziale
per introdurre il socialismo in Gran Bretagna, attraverso il conseguente
indebolimento della borghesia inglese, in caso di successo irlandese. Il nesso
fra lotta di liberazione nazionale ed indebolimento degli assetti economici e
sociali capitalistici, ben presente in Marx, diverrà invece più ambiguo in
Engels, ad esempio nella sua presa di posizione a favore dell’introduzione di
sistemi di proprietà piccolo-contadina a favore dei coloni italiani a seguito
della conquista coloniale della Somalia.
Spetterà quindi a due giganti della
teoria marxista, Rosa Luxemburg e Vladimir Lenin, ristabilire il nesso fra
marxismo ed imperialismo.
La teoria dell’imperialismo della Rosa Luxemburg
La teoria imperialistica della Luxemburg
è contenuta nella sua opera principale, L’Accumulazione Del Capitale (1913). La
Luxemburg parte dalla critica degli schemi di riproduzione allargata contenuti
nel Libro II del Capitale (cfr. dispensa nr. 2). Partendo dalla negazione
dell’ipotesi iniziale di “economia chiusa”,
posta da Marx per fini di mera semplificazione dell’esposizione di come
in astratto un sistema capitalistico generi accumulazione, la Luxemburg
attribuisce agli schemi di riproduzione allargata presenti nel Capitale la
colpa di perdere di vista il fatto che il plusvalore non possa generarsi
all’interno dei meccanismi di accumulazione stessi (essenzialmente perché i
salari riproducono il capitale variabile, mentre il reddito del capitalista,
ovvero il plusvalore, non può realizzarsi se le merci che rappresentano tale
plusvalore non sono vendute sul mercato). La contraddizione degli schemi di
riproduzione allargata, per la Luxemburg, risiede nel fatto che “il plusvalore,
indipendentemente dalla forma materiale che assume, non può essere direttamente
trasferito alla produzione per l’accumulazione (ovvero reinserito in un nuovo
ciclo di riproduzione del capitale); deve venire prima realizzato (sul
mercato)”. L’analisi critica della Luxemburg, in questo modo, inserisce il
problema della domanda solvibile dentro gli schemi di riproduzione allargata di
Marx, che originariamente sono finalizzati alla spiegazione del meccanismo
produttivo, e quindi del sottostante rapporto sociale di produzione fra classi,
attraverso il quale il capitale si autoriproduce e si valorizza.
Per la Luxemburg, di conseguenza, il
plusvalore può generarsi solo all’esterno dei meccanismi di riproduzione
capitalisti, attraverso lo scambio con settori sociali ed aree che si trovano
all’esterno del capitalismo stesso. Essa infatti afferma che “la cosa più
importante è che il valore non può essere realizzato dai lavoratori, né dai
capitalisti, ma soltanto da strati sociali che non producono
capitalisticamente”.
Questa idea di base sembra
prendere spunto da ciò che lo stesso Marx afferma, quando dice che “non appena
comincia ad avere la sensazione e la consapevolezza di essere esso stesso un
ostacolo allo sviluppo, subito il capitale cerca scampo verso forme le quali,
mentre danno l’illusione di perfezionare il dominio del capitale imbrigliando
la libera concorrenza, annunciano nello stesso tempo la dissoluzione sua e del
modo di produzione che su di esso si fonda”.
Secondo la Luxemburg, dunque,
l’economia capitalista ha la necessità di cercare al di fuori di essa gli sbocchi
della sua produzione, prima all’interno degli stessi Paesi capitalisti,
attraverso lo scambio con la piccola produzione artigiana e contadina che
rimane esterna ai meccanismi di accumulazione, e poi, quando tali mercati si
saturano, in una fase più matura, il capitalismo è costretto a ricorrere alla
conquista coloniale di nuovi Stati, per crearvi sbocchi commerciali, anche
attraverso l’insediamento di coloni provenienti dalla metropoli, che accumulano
un piccolo reddito tale da fornire la domanda solvibile necessaria a far
funzionare i meccanismi di accumulazione della madrepatria, ed attraverso la
possibilità di realizzare investimenti infrastrutturali e produttivi nella
colonia, che generano redditi aggiuntivi.
L’imperialismo diviene dunque la
fase matura del capitalismo, un “metodo specifico di accumulazione”, e comporta
conseguenze quali la creazione di un sistema di prestiti internazionali, la
concentrazione del sistema bancario e finanziario, ma anche di quello
industriale, in grandi trust multinazionali che forniscono i capitali per le
imprese coloniali, e gli investimenti ed il know how tecnico ed industriale per
sfruttare le risorse delle nuove colonie, finendo per influenzare sempre più
pesantemente la politica dei singoli Stati, l’aumento del grado di
conflittualità fra i singoli Stati imperialistici per la conquista ed il
mantenimento delle reciproche sfere di influenza coloniale, dapprima sotto
forma economica (ad es. il protezionismo, ma anche il sabotaggio delle rote
commerciali fra metropoli e colonia) e poi sotto forma sempre più politica e
militare. D’altro canto, lo stesso militarismo crescente, innescato dalla
concorrenza fra Stati imperialisti, diviene un mezzo fondamentale per
realizzare plusvalore, attraverso l’espansione dell’industria bellica.
La fase imperialistica del
capitalismo genera dunque, secondo la Luxemburg, specifiche nuove
contraddizioni interne, poiché la realizzazione del plusvalore richiede
costantemente l’immissione nel circuito capitalista/imperialista di Paesi,
strati sociali e ed economie precapitalistiche, fino al punto in cui non sarà
più possibile trovare nuove aree, economie e fasce sociali precapitalistiche da
sfruttare, ed il meccanismo di accumulazione si paralizzerà.
Gli eventi degli anni in cui la
Luxemburg scrive sembrano darle ragione: l’accelerazione delle conquiste
coloniali delle ultime aree rimaste fuori dal controllo imperialistico, grazie
soprattutto al disfacimento dell’impero ottomano (provocato artatamente proprio
dalle potenze imperialistiche, cfr. la guerra di Crimea sostenuta dalla Gran
Bretagna contro i turchi, oppure il sostegno all’indipendentismo dei popoli
balcanici sotto controllo ottomano, o ancora la spedizione coloniale italiana
in Libia, allora sotto controllo ottomano), ed il precipitare dell’Europa verso
il primo conflitto mondiale, generato proprio dalle crescenti tensioni, in seno
imperialistico, derivanti dall’assenza di nuovi territori coloniali da
conquistare, e dall’occupazione integrale del mondo.
Tuttavia, la teoria
imperialistica della Luxemburg ha ricevuto molte critiche, anche in ambito
marxista. Di fatto, lo sviluppo capitalistico si incaricherà di evidenziare
come non vi sia affatto bisogno di inglobare costantemente settori
precapitalistici per risolvere i problemi di realizzo del plusvalore. La guerra
(il secondo conflitto mondiale), un più efficace inquadramento e
disciplinamento della forza-lavoro, associato ad un’economia autarchica che
sfrutta al massimo ogni spazio di domanda dentro l’economia nazionale (il
fascismo), una espansione welfaristica e socialdemocratica, favorita dal debito
pubblico (nel secondo dopoguerra) sono altrettanti metodi per ripristinare
sbocchi di domanda solvibile per l’accumulazione capitalistica, senza bisogno
di nuove conquiste coloniali. Il neoimperialismo, ovvero il controllo dall’esterno
delle risorse economiche, della cultura e della politica di Paesi solo
formalmente decolonizzati e formalmente indipendenti, fornisce poi una
metodologia molto meno costosa, più flessibile e più efficace, rispetto al
vecchio colonialismo, per reperire nuove fonti di plusvalore. La stessa
autonomia economica che alcuni dei Paesi decolonizzati riescono a conquistare,
trovando spazi per un proprio sviluppo capitalistico autonomo (India, Brasile,
Vietnam, Corea del Sud, per alcuni versi, e molto parzialmente, il Sudafrica,
ecc.) diventano occasioni per creare nuovi mercati interni di consumo ad alta
crescita, per fornire sbocco alle esportazioni dei paesi capitalisti maturi.
La teoria leninista dell’imperialismo
Per certi versi contrapposta alla
teoria della Luxemburg viene collocata la teoria dell’imperialismo formulata da
Lenin, che in effetti, a differenza della teorica tedesca, non crede
assolutamente ad ipotesi di autoesaurimento dell’imperialismo per motivi
inerenti le sue contraddizioni interne, ma “l’orrore senza fine
dell’imperialismo” potrà soltanto essere abbattuto da una rivoluzione. Lenin si
contrappose più volte con la Luxemburg, in un rapporto che, seppur di rispetto
reciproco, fu vivacemente critico e polemico. Con riferimento alle questioni
dell’imperialismo, oltre a contestare l’economicistica visione della Luxemburg
circa la contraddizione interna del capitalismo imperialistico, nel suo testo “A
Proposito Dell’Opuscolo di Junius” del 1916, egli critica le posizioni della
Luxemburg (celata dietro lo pseudonimo Junius) sulla “difesa della Patria”,
assimilandole a quelle dell’ex marxista Kautsky, passato al socialismo. In
primo luogo, confuta l’affermazione generale della Luxemburg secondo cui le
guerre nazionali, nella fase imperialistica del capitalismo, non possono più
esistere, in quanto anche guerre inizialmente nazionali, andando
inevitabilmente a toccare un interesse imperialistico, diverrebbero
imperialistiche automaticamente. Tuttavia, ciò smentisce, a detta di Lenin, i
principi della dialettica marxista, per cui in ogni momento ogni cosa può
trasformarsi nel suo opposto, ed è ben possibile, in circostanze determinate,
che una guerra imperialistica (come il primo conflitto mondiale) possa
trasformarsi in una guerra di liberazione nazionale da parte dei popoli
risultati sconfitti ed occupati da potenze esterne. D’altra parte, egli mette
il dito sulla piaga dell’errore teorico della Luxemburg: negando la possibilità
di guerre nazionali, ella nega la possibilità di guerre di liberazione nelle
colonie, che infatti di lì a pochi anni si sarebbero regolarmente presentate.
Da tale critica alle posizioni
errate della Luxemburg discende la critica alle posizioni di certi ambienti marxisti
sul disarmo e sul disprezzo delle lotte di indipendenza nazionale, che a
giudizio di Lenin finiscono per essere reazionarie, poiché negano il ruolo
potenzialmente progressista che tali lotte possono rivestire. Da ciò deriva
anche che la posizione favorevole in generale ed in qualsiasi condizione alla
difesa della Patria di fronte ad aggressioni militari esterne, come elemento
centrale del pensiero di Junius, e dello stesso Kautsky, è erroneo, dal momento
che l’interesse del proletariato non è la difesa della Patria borghese da
aggressioni esterne, ma la lotta di classe contro il padrone borghese.
Più in generale, la teoria
leninista sull’imperialismo, contenuta soprattutto in “Imperialismo, Fase
Suprema Del Capitalismo”, focalizza l’attenzione sugli aspetti economici
dell’imperialismo, più che su quelli politici. La definizione economica
dell’imperialismo verte sui seguenti aspetti:
-
La concentrazione dei mezzi di produzione in un
ristretto numero di mani, con la progressiva riduzione della concorrenza a
favore della formazione di grandi blocchi monopolistici. Tale elemento deriva
direttamente dalle considerazioni svolte da Marx sul Capitale (cfr. dispensa
nr. 2) in materia di concentrazione oligopolistica generata proprio dalla
concorrenza capitalistica. Ciò ha anche come riflesso la crescente
concentrazione dimensionale delle banche, e la fusione di capitali bancari ed
industriali, resi necessari dalla necessità concorrenziale, da parte dei gruppi
industriali, di assicurarsi la provvista di capitale per gli investimenti
sempre più ingenti richiesti dalla loro progressiva crescita dimensionale ed
oligopolistica. La fornitura di capitali della banca, e più in generale
l’ampliamento della conoscenza da parte della banca sugli affari della società
industriale con cui stringe relazioni, conducono ad un vero e proprio dominio
della banca, diventato ente ad attività universale, sull’industria;
-
Ciò, in un’economia sempre più globalizzata,
dove i processi di accumulazione si svolgono su livello transnazionale e non
più nazionale, porta alla creazione di grandi gruppi multinazionali retti da
oligarchie finanziarie ristrette, che fanno dell’esportazione di capitali la
loro attività principale, trascendendo la tradizionale attività creditizia di
tipo retail delle banche, al fine di dare un utilizzo al crescente surplus
oligopolistico generato dall’allontanamento progressivo da un mercato libero
concorrenziale. Di fatto, il commercio internazionale dei capitali diviene più
importante di quello delle merci, che caratterizzava la prima fase del
capitalismo, e conduce ad una progressiva finanziarizzazione del capitalismo
(con una quota di profitto fittizio ed anticipato sempre più importante
rispetto al profitto reale) di cui Lenin fornisce numerosi esempi (guadagni
sull’attività di intermediazione nell’emissione di obbligazioni private,
commissioni ed interessi sui prestiti internazionali erogati, guadagni dal
rilevamento e dalla ristrutturazione e rimessa in redditività di imprese
industriali in crisi, speculazioni fondiarie,
ecc.). tutto ciò fa prevalere il capitale finanziario su quello industriale, e
crea la posizione predominante del rentier e dell’oligarchia finanziaria, nella
conduzione politica;
-
D’altra parte, la legge dello sviluppo
diseguale, che fa sì che alcuni Paesi abbiano uno sviluppo capitalistico più
rapido di altri, che rimangono invece in condizioni largamente
precapitalistiche, crea le premesse affinché tali grandi gruppi monopolistici
multinazionali cerchino di assumere il controllo delle aree meno sviluppate del
mondo, spartendoselo in aree di influenza continuamente cangianti a causa della
concorrenza fra tali multinazionali, fra gli Stati, ed al mutamento delle
relazioni commerciali globali. Il capitale finanziario, in ciò, stringe al
cappio interi Stati: esportando capitali per essenziali investimenti
infrastrutturali nei Paesi di recente indipendenza più arretrati, di fatto,
tramite gli interessi sul debito estero e la clausola di acquisto di beni del
Paese prestatore, lo sviluppo di questi Paesi emergenti viene strangolato sul
nascere, rendendoli economicamente dipendenti dai Paesi imperialisti. Più in
generale, tali grandi trust tendono a concludere accordi di cartello per
spartirsi il mercato mondiale in aree di influenza esclusiva, godendo così di
profitti monopolistici ai danni dei consumatori e dei cittadini;
-
In questo senso, la tesi “consolatoria”
sostenuta dalla teoria dell’iperimperialismo di Kautsky, secondo la quale i
grandi cartelli, una volta spartitosi il mondo, possono condurre ad una epoca
di stabilizzazione e pacificazione delle relazioni internazionali, è totalmente
falsa. La base dell’imperialismo è data dalla competizione senza quartiere fra
leghe imprenditoriali monopolistiche e gli Stati imperialisti che esse
controllano, finalizzata a rielaborare continuamente la suddivisione delle aree
di influenza, al fine di indebolire gli avversari, non appena le differenze di
sviluppo fra i diversi attori dell’economia mondiale, generate proprio dalla
preesistente divisione del mondo in aree di influenza (e quindi dalla già
citata legge dello sviluppo diseguale), si ampliano al punto tale da generare
una modifica dei rapporti di forza, che richiede quindi un riequilibrio
nell’unico modo possibile per il capitalismo, ovvero con la forza stessa. Tale
lotta è tutt’altro che pacifica e stabilizzatrice; genera, al contrario, guerre
civili, rovesciamenti di governi, guerre convenzionali, ecc.
-
Da tale accaparramento del mondo, si determina
la situazione dei primi del ’900, in cui cioè si è verificata la compiuta
ripartizione geografica delle aree di influenza, e non esistono più territori
liberi dall’influenza imperialistica di qualche Stato, la cui estensione
relativa è determinata dalla forza relativa del capitale nazionale.
Tali caratteristiche determinano
quindi la conformazione generale dell’imperialismo, visto da Lenin, in accordo
con la Luxemburg, come il suo stadio supremo, e come “lo stadio monopolistico
del capitalismo”. Nei Paesi imperialistici, lo sfruttamento e la difesa delle
colonie genera una alleanza fra poteri politici, economici e militari, che
genera la fusione del capitale finanziario ed industriale con l’apparato
politico ed istituzionale dello Stato, che ne diventa dipendente e subordinato.
Tale caratteristica monopolistica
della fase imperialista del capitalismo genera però putrefazione e
parassitismo. La rendita monopolistica scoraggia lo sforzo per il progresso
tecnico e per ogni altro tipo di progresso; ed anzi, i cartelli monopolistici,
per evitare ciò che, in anni successivi un economista non marxista come
Schumpeter avrebbe definito come i cicli di distruzione e creazione del
capitalismo, operano per scoraggiare l’introduzione di innovazioni tecnologiche
sui loro mercati, che potrebbero scalzarli dalle loro posizioni dominanti,
basate su una tecnologia meno efficiente. Inoltre, nel Paese imperialistico,
l’aumento dei rentiers reso possibile dall’estensione del monopolio crea un
ceto di persone oziose, non propense al lavoro ed al rischio imprenditoriale.
Il mondo si divide fra un piccolo numero di Stati usurai e un gran numero di
Stati debitori, il che pone le basi per il moderno neo imperialismo, che
tramite il debito estero strozza lo sviluppo autoctono dei Paesi de Terzo
Mondo, ed impone le pesanti manovre di “stabilizzazione” del FMI, che altro non
sono che forme per garantire il guadagno finanziario ai prestatori
imperialistici, e per indebolire l’economia nazionale, rendendola più facilmente preda delle multinazionali
estere, che vi possono operare più convenientemente anche grazie alla
deflazione di costi e salari indotta dalle ricette neoliberiste del FMI.
Tutto ciò comporta anche un
imborghesimento dello strato superiore del proletariato nei Paesi imperialisti,
ovvero dello strato che riveste funzioni dirigenziali nei sindacati, nelle
cooperative, nelle associazioni operaie di vario genere, oppure che svolge
mansioni di particolare livello di qualificazione, ed ha stipendi più alti. La
crescita della rendita monopolistica associata allo sfruttamento imperialista
consente infatti alla borghesia di corrompere tale componente aristocratica del
proletariato del Paese imperialista, che
in questo modo, con la sua influenza, riesce a ricondurre verso l’obbedienza
alla borghesia anche fasce del proletariato inferiore, assolutamente non
favorito, materialmente, dalla fase imperialistica (e sul quale, anzi, si
scaricano i costi economici e sociali del colonialismo – le guerre coloniali, i
debiti contratti per tali guerre, la concorrenza degli immigrati dequalificati
dai Paesi colonizzati, disponibili a lavorare a basso salario, il costo sociale
delle speculazioni finanziarie condotte dall’oligarchia finanziaria
imperialistica, ecc.). questo capitalismo è però definito da Lenin come
capitalismo in transizione, verso un sistema sempre più organizzato ed
intrecciato, in cui il livello di socializzazione della produzione aumenti,
anche se rimane la caratteristica di appropriazione privata dei suoi frutti,
per cui lo sbocco finale della fase imperialistica del capitalismo andrebbero
verso il monopolio di Stato.
La soluzione di tale stato di
cose non può che passare tramite la lotta di classe, ed in particolare tramite
la rivoluzione proletaria negli Stati imperialisti, mossa dalle contraddizioni sociali che lo
strato inferiore del proletariato dei Paesi dominanti subisce proprio in
ragione dell’imperialismo, alleata con le lotte di liberazione nazionale nei Paesi
coloniali, cui Lenin attribuisce grande importanza progressista. Da notare che
lo stesso Trotsky raggiunge le stesse conclusioni, appoggiando le lotte di
liberazione nazionali. Dirà infatti Trotsky, nel suo programma transitorio del
1938, che il disarmo non è una priorità del proletariato, così come non lo è la
“difesa della Patria” in termini piccolo borghesi, mentre occorre lottare
contro la guerra come strumento di potere della borghesia, da sostituire con
una lotta contro la propria borghesia nazionale, con la parola d’ordine “la
disfatta dl nostro governo imperialista è il male minore, il nemico principale
si trova dentro il nostro Paese”. Rispetto ai Paesi colonizzati, “è dovere del
proletariato internazionale aiutare i Paesi oppressi nella loro guerra contro
gli oppressori (…) assicura un aiuto all’alleato non imperialista con i suoi
metodi peculiari, cioè i metodi della lotta di classe internazionale
(agitazione a favore dello Stato operaio o del Paese coloniale, non solo contro
i suoi nemici, ma anche contro i suoi perfidi alleati; boicottaggio e scioperi
in certi casi, rinuncia al boicottaggio ed agli scioperi in altri casi)”.
La teoria imperialistica di Trotsky
D’altra parte, la legge
trotskiana dello sviluppo diseguale e combinato (cfr. dispensa nr. 3) sempre secondo Trotsky “determina la politica
del proletariato nei Paesi arretrati: è costretto a combinare la lotta per i
più elementari obiettivi di indipendenza nazionale e di democrazia borghese con
la lotta socialista contro l’imperialismo mondiale. Le rivendicazioni democratiche,
le rivendicazioni transitorie e le rivendicazioni della rivoluzione socialista
non sono divide nella lotta da epoche storiche, ma discendono direttamente le
une dalle altre (concetto di rivoluzione
permanente, cfr. dispensa nr. 3)(…)I problemi centrali dei Paesi coloniali
e semicoloniali sono la rivoluzione agraria, cioè la liquidazione dell’eredità
feudale, e l’indipendenza, cioè il rovesciamento del giogo dell’imperialismo.
Questi due obiettivi sono strettamente connessi”.
Per raggiungere tali obiettivi,
secondo Trotsky, il proletariato dei Paesi coloniali dovrà lottare per una
assemblea costituente, per l’emancipazione nazionale e la riforma agraria. Per
fare ciò, occorre armare gli operai, per usarli in funzione di stimolo dei
contadini. E far nascere i Soviet, con la funzione di ribaltare la democrazia
liberale. Ma la sequenza esatta della lotta e dei suoi obiettivi immediati
dipende dalle particolarità storiche di ciascun Paese.
La teoria leninista dell’autodeterminazione dei popoli ed i suoi avversari
stalinisti e bordighisti
In questo ambito, si è discusso
spesso e lungamente della teoria di Lenin circa il diritto
all’autodeterminazione dei popoli, atteso, soprattutto, che l’Urss era un
coacervo di nazionalità molto diverse fra loro. L’interpretazione più esatta
del pensiero leninista su questo aspetto è fornita da Roberto Massari[4].
Lenin si pronuncia per la prima volta su tale questione nel 1903, e si esprime
per un diritto all’autodeterminazione, purché subordinato a determinate
condizioni politiche. Quando vi ritorna, nel 1913, nelle sue Tesi Sulla
Questione Nazionale, assume una posizione diversa. Si pronuncia:
-
A favore dell’autodeterminazione politica dei
popoli, cioè a favore della libera decisione di costituire uno Stato
indipendente e separato, oppure di scegliere liberamente lo Stato del quale
desiderano fare parte;
-
Tuttavia, i socialdemocratici (cioè i comunisti,
diremmo oggi) si riservano il diritto, ed addirittura il dovere, di una
valutazione autonoma dell’opportunità della separazione statale di questa o
quella nazione, caso per caso.
Secondo l’interpretazione di
Massari, ciò significa che il riconoscimento al diritto assoluto ed
incondizionato all’autodeterminazione è accompagnato da una valutazione di una
prospettiva politica specifica per esercitare tale diritto. Ciò può
significare, ad esempio, un ragionamento di opportunità sull’autonomia, ma non sulla
separazione, o viceversa. Comunque per Lenin il diritto all’autodeterminazione,
fino alla separazione nazionale, è incontestabile ed assoluto (non vale invece
la stessa liberalità nei confronti delle “culture nazionali”, spesso viste come
reazionarie, se non accompagnate da elementi di comunismo delle origini) e lo
ribadisce anche nel 1916 ed in piena rivoluzione russa, nel 1917, affermando
peraltro che quanto più uno Stato riconosce tale diritto assoluto, tanto meno
sarà probabile che esso sia esercitato dalle minoranze etniche e nazionali,
essendo i vantaggi dei grandi Stati incontestabilmente superiori a quelli dei
piccoli Stati. In pratica, Lenin afferma che, pur essendo nell’interesse del
socialismo il mantenimento di un grande Stato, ed anzi la fusione degli Stati
fra loro fino ad averne uno solo, di tipo socialista, tale obiettivo, per
realizzarsi, deve necessariamente passare per la concessione del totale diritto
alla separazione nazionale, anche quando questa conducesse a creare Stati non
socialisti, in uscita dallo Stato socialista.
Lenin sostenne coerentemente
questa sua posizione dopo la rivoluzione bolscevica, e fu così che la neonata
Unione Sovietica accetta l’indipendenza, il distacco ed il ritorno al
capitalismo, della Finlandia, degli Stati baltici, della Polonia e della
Georgia (che solo nel 1921, a seguito di una rivoluzione probolscevica, entrerà
a far parte dell’Urss, ma soltanto in qualità di Repubblica Sovietica
indipendente, al pari dell’Ucraina, della Bielorussia, dell’Azerbaidjan,
dell’Armenia, e delle Repubbliche di estremo oriente di Khiva e Buchara).
Tale politica sarà invece
completamente distorta dallo stalinismo, che, a differenza del pensiero di
Lenin, non accetta il principio di autodeterminazione nazionale, quando questa
corrisponda ad un ritorno al capitalismo. Ed è così che Stalin, in qualità di
Commissario alle nazionalità, a partire dal 1922, sfruttando la malattia grave
di Lenin, l’isolamento e la semi-reclusione cui lo costringe, inizia a
riprendersi con la forza le Repubbliche sovietiche indipendenti, cancellando la
loro autonomia con lo strumento coercitivo dei “trattati” (ed esistono i
documentati biglietti che Lenin, dalla sua semi-reclusione, mandava a Stalin ed
a altri dirigenti del partito, per difendere, invano, la causa
dell’autodeterminazione delle Repubbliche indipendentiste). Non contento,
Stalin tenterà poi di riprendersi la Finlandia con una guerra persa, dovendosi
accontentare della sola regione della Carelia, ed in base agli accordi
Molotov-Von Ribbentropp, si riprenderà quasi la metà della Polonia nonché le
Repubbliche baltiche.
Paradossalmente, l’indicazione strategica
leninista in direzione dell’autodeterminazione dei popoli è diversa, oltre che
dallo stalinismo, anche dal bordighismo e dalla sinistra del Pcus incarnata da
Zinoviev, che invece parla di appoggio ai movimenti di liberazione nazionale
nelle colonie solo se i comunisti vi svolgono un ruolo determinante, il che è
ovviamente in contraddizione sia con le posizioni di Lenin che con quelle di
Trotzky.
Per saperne di più: bibliografia/sitografia
Rosa Luxemburg, L’Accumulazione del Capitale, Minuziano,
1946
Vladimir Lenin, A Proposito Dell’opuscolo Di Junius, su www.nuovopci/classic/lenin/junius.htm
Vladimir Lenin, L’imperialismo Fase Suprema Del Capitalismo,
su www.marxists.org/italiano/lenin/1916/imperialismo/index.htm
Lev Trotsky, L’agonia Del Capitalismo Ed I Compiti Della IV Internazionale, su www.marxists.org/italiano/trotsky/1938/6/transiz.htm
Utopia Rossa,
L’autodeterminazione dei Popoli, L’ultima Battaglia di Lenin Ed Il Tibet, di
Roberto Massari, su http://utopiarossa.blogspot.it/2010/05/lautodeterminazione-dei-popoli-lultima.htm
Dispensa nr. 5 – il partito marxista
I lineamenti generali del partito comunista secondo i padri fondatori
del marxismo
I lineamenti generali e le
caratteristiche di massima del partito comunista sono ovviamente delineati nel
“Manifesto” di Marx ed Engels. Il Manifesto venne pubblicato come piattaforma
programmatica della "Lega dei comunisti", associazione di lavoratori
dapprima esclusivamente tedesca, poi internazionale, e - date le condizioni
politiche del Continente prima del 1848 - società inevitabilmente segreta. Nel
corso di un congresso della Lega tenutosi a Londra nel novembre 1847, Marx ed
Engels vennero incaricati di preparare per la pubblicazione un completo
programma teorico e pratico di partito.
Come dice il Manifesto, dunque,
“i comunisti si distinguono dai restanti partiti proletari solo perché, d'un
lato, nelle diverse lotte nazionali dei proletari essi pongono in evidenza e
affermano gli interessi comuni di tutto il proletariato, indipendentemente
dalla nazionalità; dall'altro, perché essi esprimono sempre l'interesse
complessivo del movimento nelle diverse fasi in cui si sviluppa la lotta fra
proletariato e borghesia. I comunisti sono pertanto nella pratica la parte più
decisa e più avanzata dei partiti operai di ogni paese, e dal punto di vista
teorico essi sono anticipatamente consapevoli delle condizioni, del corso e dei
risultati complessivi del movimento proletario”.
Il partito comunista è dunque
l’élite della classe proletaria, il suo elemento culturalmente e politicamente
più avanzato, ed ha innanzitutto il compito di aiutare la classe a costituirsi
in classe “per sé” (cfr. dispensa nr. 3), portandole dunque coscienza dei suoi
problemi ed obiettivi, e poi di guidarla verso la rivoluzione comunista,
l’espropriazione della borghesia e la cancellazione della proprietà privata.
Marx ed Engels, dunque, espongono anche un programma di massima da attuare
nella fase di dittatura dl proletariato, ad opera del partito. Queste misure
saranno naturalmente differenti da paese a paese, ma per i Paesi a capitalismo
sviluppato, esse sono, indicativamente, le seguenti:
1) Espropriazione della proprietà
fondiaria e impiego della proprietà fondiaria per le spese dello Stato.
2) Forte imposta progressiva.
3) Abolizione del diritto di
successione.
4) Confisca della proprietà di
tutti gli emigrati e ribelli.
5) Centralizzazione del credito
nelle mani dello Stato attraverso una banca nazionale dotata di capitale di
Stato e monopolio assoluto.
6) Centralizzazione di ogni mezzo
di trasporto nelle mani dello Stato.
7) Moltiplicazione delle
fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e
miglioramento dei terreni secondo un piano sociale.
8) Uguale obbligo di lavoro per
tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l'agricoltura.
9) Unificazione dell'esercizio
dell'agricoltura e dell'industria, misure volte ad abolire gradualmente la
contrapposizione di città e campagna.
10) Educazione pubblica e
gratuita di tutti i bambini. Abolizione del lavoro dei bambini nelle fabbriche
nella sua forma attuale. Fusione di educazione e produzione materiale, ecc.,
ecc.
Viene anche evidenziato il
rapporto che il partito comunista deve intrattenere nei confronti degli altri
partiti di opposizione, quindi un abbozzo di tattica politica. In linea generale,
Marx ed Engels propongono che “i comunisti sostengano dovunque ogni movimento
rivoluzionario diretto contro le condizioni sociali e politiche esistenti. In
tutti questi movimenti i comunisti mettono in rilievo la questione della
proprietà - qualsiasi forma, più o meno sviluppata, essa abbia preso - come
questione centrale del movimento. Infine, i comunisti lavorano dovunque al
collegamento e al rafforzamento dei partiti democratici di tutti i paesi”. Da
ciò, nella parte finale del Manifesto, derivano diverse prescrizioni rispetto
ai diversi Paesi. Così, in Francia si dovrebbero unire con i socialisti
democratici, in Svizzera con i radicali, senza però trascurare la presenza di
elementi borghesi in tale partito, ed in Germania i comunisti dovrebbero
lottare, ovviamente solo in un primo momento, assieme alla borghesia, per
facilitare la rivoluzione democratico-borghese contro i residui di feudalesimo.
Ne emerge quindi una immagine di
tattica politica non settaria, che privilegia le alleanze, pur nel mantenimento
di una assoluta fedeltà agli interessi del proletariato ed al dogma della
rivoluzione socialista ed anticapitalista. Questa tattica, che rifugge da ogni
isolazionismo settario e purista, che adottai n modo flessibile ed intelligente
anche prospettive di alleanza del tutto momentanea, e puramente strumentale
all’avanzamento della rivoluzione proletaria, con i settori più avanzati della
borghesia, è la vera tattica di un partito comunista. Differisce completamente
dalla visione della sinistra comunista e bordighista, che rifugge da qualsiasi
partecipazione alla tattica politica democratico-borghese, ed alla
partecipazione alle sue istituzioni. Come già espresso nella dispensa nr. 3,
Lenin, traendo spunto dall’originaria visione di Marx ed Engels, nel suo
opuscolo “L’Estremismo Malattia Infantile del Comunismo”, non soltanto predica
la necessità, per i partiti comunisti, di farsi rappresentare nei Parlamenti
borghesi, come forma di maggiore diffusione della loro immagine e del loro
programma presso il proletariato (ovviamente non celando mai lo scopo
rivoluzionario che tali partiti portano avanti) ma anche possibili alleanze
temporanee con partiti borghesi, purché strettamente strumentali
all’avanzamento delle possibilità di rivoluzione proletaria. Egli dice infatti
che “negare “per principio” i compromessi, negare in generale ogni
ammissibilità di compromessi, di qualunque genere essi siano, è una puerilità,
che è perfino difficile prendere sul serio. Un uomo politico, che desideri
essere utile al proletariato rivoluzionario, deve saper distinguere i casi
concreti appunto di quei compromessi che sono inammissibili, nei quali si
esprimono opportunismo e tradimento, e indirizzare tutta la forza della
critica, tutta l’acutezza di uno spietato smascheramento e di una guerra
implacabile contro questi compromessi concreti, e non permettere agli
espertissimi socialisti “affaristi” e ai gesuiti parlamentari di evitare e
sfuggire la responsabilità con disquisizioni sui “compromessi in generale”.
In questo modo, egli confuta le
tesi della sinistra comunista, sia riguardo la
contrapposizione aprioristica fra i “capi” e le “masse” che viene fatta
dai “sinistri”, differenziando il caso delle aristocrazie operaie traditrici, da
condannare, da quello di un normale organizzazione gerarchica di partito, da
difendere come condizione stessa di una lotta efficace del proletariato, sia
riguardo alla partecipazione ai sindacati “reazionari”, negata dalla sinistra
comunista, ma affermata da Lenin come necessità, purché supportata da una lotta
senza quartiere contro i dirigenti sindacali menscevichi, e da altre forme di
contatto con le masse, ovvero le conferenze di operai e contadini ed i Soviet, sia
ancora riguardo alla tesi della “non partecipazione ai Parlamenti borghesi”,
rispetto alla quale Lenin dirà che “la partecipazione alle elezioni
parlamentari e alla lotta dalla tribuna parlamentare è obbligatoria per il
partito del proletariato rivoluzionario, precisamente al fine di educare gli
stati arretrati della propria classe, precisamente al fine di risvegliare e di
illuminare le masse rurali, non evolute, oppresse, ignoranti. Finché voi non
siete in grado di sciogliere il Parlamento borghese e le istituzioni
reazionarie di ogni tipo, voi avete l’obbligo di lavorare nel seno di tali
istituzioni appunto perché là vi sono ancora degli operai ingannati dai preti e
dall’ambiente dei piccoli centri sperduti; altrimenti rischiate di essere
soltanto dei chiacchieroni”. Egli si oppone anche alla tesi secondo cui un
partito comunista non dovrebbe fare alcun compromesso. Occorre intanto, per
Lenin, distinguere fra compromesso buono e cattivo. Il primo “non pregiudica
affatto, negli operai che lo concludono, la devozione rivoluzionaria e la
volontà di continuare la lotta.” Il secondo è invece quello caratterizzato dal
tradimento degli obiettivi rivoluzionari di classe, in cambio di piccole
concessioni riformiste mirate ad estinguere la lotta di classe stessa. Compito
di un partito di avanguardia, che raccoglie gli elementi migliori della classe,
è proprio quello di saper distinguere, di volta in volta e senza regole
generali, i buoni compromessi da quelli cattivi.
Lo stesso vale anche per i
compromessi possibili con partiti non comunisti. Dice infatti Lenin “Condurre
la guerra per il rovesciamento della borghesia internazionale, guerra cento
volte più difficile, più lunga e più complicata della più accanita delle guerre
abituali tra gli Stati, e rinunciare in anticipo e destreggiarsi, a sfruttare
gli antagonismi di interessi (sia pure temporanei) tra i propri nemici,
rinunciare agli accordi e ai compromessi con dei possibili alleati (sia pure
temporanei, poco sicuri, esitanti, condizionati), non è cosa infinitamente
ridicola?” ad esempio, dice Lenin, “i socialdemocratici rivoluzionari russi,
fino alla caduta dello zarismo, hanno ripetutamente utilizzato i servizi dei
liberali borghesi, cioè hanno concluso con i liberali un gran numero di
compromessi pratici: e nel 1901-1902, ancor prima del sorgere del bolscevismo,
la vecchia direzione dell’ Iskra (della quale facevano parte Plekhanov,
Axselrod, Zassulic, Martov, Potressov ed io) concluse (non per molto tempo, è
vero) una formale alleanza politica con Struve, capo politico del liberalismo
borghese, pur sapendo condurre in pari tempo, senza interruzione, la lotta
ideologica e politica più spietata contro il liberalismo borghese e contro le
minime manifestazioni della sua influenza in seno al movimento operaio. I
bolscevichi hanno sempre continuato quella politica. Dal 1905 in poi hanno
propugnato sistematicamente l’alleanza della classe operaia con i contadini,
contro la borghesia liberale e lo zarismo, senza mai rinunciare tuttavia ad
appoggiare la borghesia contro lo zarismo (per esempio nelle elezioni di
secondo grado e nei ballottaggi) e senza cessare la lotta ideologica e politica
più intransigente contro il partito contadino rivoluzionario borghese, i
“socialisti/rivoluzionari”, smascherandoli come democratici piccolo/borghesi
che si annoveravano falsamente tra i socialisti” (pur avendo costituito, per
motivi di convenienze, un temporaneo blocco elettorale proprio con i
socialisti/rivoluzionari).
“Tutto sta nel saper impiegare
questa tattica allo scopo di elevare, e non di abbassare il livello generale
della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato
,della sua capacità di lottare e di vincere”, ci dice ancora Lenin. E questo
principio costituisce il principio fondamentale che i partiti comunisti devono
adottare quando si chiedono se fare compromessi con partiti piccolo-borghesi o
riformisti: ciò servirà per elevare la coscienza di classe e rivoluzionaria del
proletariato, o la abbasserà? Non esistono soluzioni valide erga omnes, ci dice
Lenin. Tutto dipende dalla fase, dal momento e dalle condizioni storiche, e
dalla valutazione volta per volta fatta dai dirigenti del partito.
La concezione organizzativa del partito secondo Lenin ed il centralismo
democratico
Lenin è evidentemente la
principale fonte informativa circa l’organizzazione di un partito comunista. Il
partito, formato dalle componenti più avanzate del proletariato, in termini di
coscienza politica e di classe, è l’avanguardia del proletariato stesso, che
gli deve fornire coscienza di classe, portandolo allo stadio di “classe per
sé”, e che deve guidarlo verso la rivoluzione, con le giuste parole d’ordine e
le giuste tattiche (comprensive, come si è visto, di un utilizzo intelligente
dei compromessi e degli strumenti politico/sindacali offerti dalla democrazia
borghese). Infatti, come già abbiamo avuto modo di vedere (cfr. dispensa nr. 3)
per Lenin la classe operaia, spontaneamente, sarebbe arrivata solo ad una
coscienza tradunionista, cioè ad una lotta mirata soltanto su aspetti come i
salari, gli orari di lavoro, la sicurezza del lavoro, tutti aspetti importanti,
ma confinati entro l’ambito del capitalismo, e non in grado, quindi, di
superare il sistema di sfruttamento capitalistico nella sua essenza. Solo un
partito rivoluzionario avrebbe potuto farle assumere un connotato
rivoluzionario, portandola alla consapevolezza di come ogni compromesso
puramente riformista non avrebbe, alla lunga, risposto alle sue esigenze, ed
offrendole lo strumento operativo per avviare la lotta politica verso la
rivoluzione: secondo Lenin la coscienza politica di classe può essere portata
solo "dall'esterno" delle relazioni tradeunionistiche fra lavoratori
e datori di lavoro, da un partito di avanguardie. Infatti, la comprensione
della politica, secondo Lenin, dipende da una più ampia comprensione della
società nel suo insieme, una questione molto più ampia delle ristrette
rivendicazioni salariali e lavorative di tipo tradeunionistico, una questione
che deve abbracciare l’analisi delle interrelazioni fra tutte le classi sociali.
L’ampiezza necessaria che tale analisi deve avere supera quindi il singolo
lavoratore e le sue specifiche rivendicazioni, e deve essere quindi supportata
dall’esterno da una organizzazione più ampia e dotata di sufficiente
“professionalità politica”, ovvero il partito.
Un simile partito deve essere
dunque costituito da militanti di elevato livello politico, alcuni dei quali,
ed in particolare i suoi dirigenti, dediti alla politica a tempo pieno
("rivoluzionari di professione") e quindi deve includere anche
intellettuali provenienti dalle classi dominanti della borghesia (come del
resto erano anche Marx ed Engels).
Ma deve anche essere
caratterizzato da una elevatissima disciplina interna, perché la durezza della
lotta contro la borghesia non consente di avere un partito diviso in frazioni
interne costantemente in lotta fra loro, o in cui alcune componenti della sua
base non obbediscono con la giusta prontezza e fedeltà alle direttive dei
vertici. Esattamente come un esercito in guerra non può permettersi di esitare
in eccessive discussioni, anche un partito che guida una guerra contro la
borghesia deve dotarsi di strumenti che contemperino il dialogo con la
necessaria disciplina in sede esecutiva.
Lo strumento che consente di dare
soluzione al problema è, per Lenin, quello del “centralismo democratico”. Tale
metodo consiste nella libertà dei membri del partito di discutere e dibattere
su politica e direzione, ma una volta che la decisione del partito è scelta dal
voto della maggioranza, tutti i membri si impegnano a sostenere quella
decisione. Quest'ultimo aspetto rappresenta il centralismo. Come lo descriveva
Lenin, il centralismo democratico consiste in "libertà di discussione,
unità d'azione". Gli statuti delle organizzazioni leniniste avevano
definito i seguenti principi-base del centralismo democratico:
1) Carattere elettivo e revocabile di tutti gli
organi di partito dalla base al vertice.
2) Tutte le strutture devono
rendere conto regolarmente del loro operato a chi li ha eletti e agli organi
superiori.
3) Una rigida e responsabile disciplina nel
partito, subordinazione della minoranza alla maggioranza nella fase di
attuazione delle decisioni assunte democraticamente a maggioranza durante il
congresso del partito, ed incontestabilità dei pieni poteri assunti dal vertice
del partito nel periodo fra un congresso e l’altro. Ciò, peraltro, implica la
repressione di ogni frazionismo, ovvero della formazione di gruppi permanenti
in dissenso dalla linea del vertice decisa nel Congresso, poiché sono soltanto
i congressi i momenti in cui il dissenso può manifestarsi, e risolversi tramite
il voto;
5) Le decisioni degli organi superiori sono
vincolanti per gli organi inferiori.
6) Cooperazione collettiva di tutti gli organi
al lavoro e alla direzione, e contemporaneamente responsabilità individuale di
ogni membro del partito sul proprio operato.
L’opera fondamentale in cui Lenin
espone la sua concezione organizzativa del partito, nei termini sopra
descritti, è “Che Fare?” (1902). Va segnalato
che Lars Lih critica questa interpretazione classica del pensiero di Lenin,
segnalando, a suo avviso, che tale cattiva interpretazione sarebbe stata
indotta da una non precisa traduzione di alcuni termini-chiave di “Che Fare?”. In
sostanza, ritraducendo il libro di Lenin, Lih cerca di dimostrare che:
1) Il
“Che Fare?” è stato un testo scritto in circostanze contingenti, e non fu
ritenuto, dal suo autore stesso, un documento programmatico generale da cui si
possa estrarre una conclusione generale sul pensiero di Lenin;
2) Sempre
secondo Lih, Lenin in realtà predicava l’applicazione, alla realtà russa,
dell’organizzazione del partito socialdemocratico tedesco (Spd), e di questo
partito, in particolare, apprezzava la capacità di aprirsi ai movimenti dei lavoratori
dal basso, e di promuovere una fusione fra il partito ed il movimento dei
lavoratori. In questi termini, secondo Lih, Lenin non aveva in mente un partito
di avanguardie autoritario, anche nei confronti dei lavoratori, quanto
piuttosto un partito aperto verso il basso, che si collegasse al movimento
operaio, ed era un entusiasta sostenitore del programma di Erfurt, che, dal
1891, rappresentò la base del programma politico dell’Spd e della proposta
politica di Karl Kautsky: un programma che abbracciava il marxismo e l’idea
della caduta inevitabile del capitalismo, ma al tempo stesso avocava,
nell’immediato, politiche di miglioramento delle condizioni di vita dei
lavoratori di tipo chiaramente riformista, ottenute tramite strade parlamentari
pacifiche, stante, nel medio periodo,
l’inevitabilità della caduta del capitalismo e della trasformazione socialista
della società;
3) Tra
l’altro, Lenin era particolarmente entusiasta circa le lotte spontanee della
classe lavoratrice russa, e la sua paura era che gli intellettuali avrebbero
abbandonato i lavoratori in queste lotte. Pertanto, la teoria secondo cui Lenin
avrebbe avuto disprezzo circa lo spontaneismo delle lotte operaie, e la loro
inevitabile tendenza al tradeunionismo, per cui sarebbe stato necessario l’apporto
delle avanguardie è, secondo la rilettura di Lih, parzialmente erronea;
4) Inoltre,
Lenin aveva in mente una prima fase di rivoluzione di tipo democratico, al fine
di conquistare le libertà politiche tipiche della democrazia borghese,
collocando la vera e propria rivoluzione proletaria in un secondo momento. Per Lenin, dunque, la preliminare conquista
delle libertà democratiche borghesi era, a giudizio di Lih, un prerequisito per
far avanzare successivamente la rivoluzione proletaria vera e propria.
Ad avviso di chi scrive questa
dispensa, però, la revisione di Lih della teoria leninista del partito e della
rivoluzione non è del tutto corretta, intanto perché trascura il fatto che vi
fu un primo Lenin, certamente ammiratore dell’erfurtismo e di Kautsky, ed un
secondo Lenin che polemizzò duramente con Kautsky e con i socialdemocratici
tedeschi, bollandoli di social-traditori. Inoltre perché la concezione del
partito di Lenin traspare anche, in modo piuttosto trasparente, dalla lunga
polemica fra lui e Rosa Luxemburg, proprio sul tema del rapporto fra partito e
classe, e della democrazia interna. Nel suo scritto “Riforma sociale o
rivoluzione?” la Luxemburg punta l’attenzione sulla creatività spontanea delle
masse, che i dirigenti del partito non devono soffocare in nessun modo, temendo
che ciò si traduca in una “camicia di forza burocratica”.
Il partito, quindi, a differenza
di Lenin , per la Luxemburg deve indicare la via in termini generali, ma senza
sostituire all’azione delle masse gli ordini e la disciplina del vertice, anche
a costo di fare errori, che per Rosa sono comunque tappe attraverso le quali le
masse apprendono qualcosa in più. Nella “Rivoluzione Russa” del 1918, la
Luxemburg criticherà poi direttamente le scelte fatte dal partito bolscevico
nei primi mesi della rivoluzione, vedendo nella cancellazione delle libertà
democratiche, del pluralismo, nello scioglimento dell’Assemblea costituente,
nel terrore instaurato a seguito della
guerra civile, i primi segni di una involuzione autoritaria e burocratica del
processo rivoluzionario, sia pur riconoscendo che tali fenomeni sono da
attribuire alle difficoltà oggettive in cui si trovano i bolscevichi, alle
prese con una guerra civile interna, un Paese economicamente arretratissimo, e
circondati da Paesi capitalisti nemici.
Tutte queste oggettive
giustificazioni non tolgono niente al fatto che, secondo la Luxemburg,
l’abolizione delle libertà politiche tipiche della democrazia liberale
rappresentano un ostacolo all’auto-educazione rivoluzionaria delle masse,
consentono ad una burocrazia autoreferenziale di prendere in mano le leve del
potere, e quindi sono passi indietro sulla strada del socialismo, e ciò porterà
anche ad una progressiva sparizione del ruolo rivoluzionario dei Soviet quali
organismi di rappresentanza ed auto organizzazione delle masse.
Tutto ciò porta la Luxembug a
criticare direttamente la concezione leninista di partito, arrivando a dire
che, se la dittatura del proletariato è un concetto senz’altro corretto, ma
“questa dittatura deve essere opera della classe, e non di una piccola
minoranza di dirigenti in nome della classe”, in ciò confermando come la
lettura “classica” dell’organizzazione e del ruolo del partito secondo Lenin
sia più corretta rispetto alla rilettura di Lih, che tutt’al più si fonda sui
primi anni del pensiero politico e teorico del grande leader russo.
La concezione organizzativa del partito del bordighismo: il centralismo
organico
Ad ogni modo, certamente la
concezione di centralismo democratico, come principio ordinatore del partito,
avanzata da Lenin, non è la sola che abbia trovato cittadinanza nel pensiero
politico marxista. La sinistra comunista italiana, ed in particolare Amadeo
Bordiga, formula infatti il principio di “centralismo organico”, come principio
organizzativo contrapposto al centralismo democratico. In base all’approccio
bordighista, che peraltro più che essere una elaborazione teorica complessa
come quella leninista, è una risposta pratica a problemi che affronta il
partito comunista italiano nel periodo della lotta clandestina, particolarmente
difficile, contro il fascismo, e parte dal problema di adattare anche
l’organizzazione interna del partito alle concezioni programmatiche che esso
predica verso l’esterno. Ma anche di adattarne l’organizzazione alla sua
tattica politica. Scrive infatti Bordiga, nel 1924, che “l’azione che il
partito svolge e la tattica che adotta, hanno a loro volta conseguenze sulla
organizzazione e costituzione interna di esso”. L’organizzazione interna del
partito, dunque, secondo Bordiga, si forgia anche nella sua stessa azione nei
confronti della classe, e nella sua lotta politica esterna.
Da questo punto di vista,
sfatando anche certe critiche ingenerose fatte alle concezioni bordighiste, nel
centralismo organico e nel partito concettualizzato da Bordiga tutti, capi e
militanti di base, hanno la stessa funzione, ovvero quella di mantenere il
partito sulla strada rivoluzionaria, anche se con ovvie e notevoli differenze
di ruolo dentro il partito stesso. Infatti, sempre secondo Bordiga, il partito
deve in qualche modo anticipare, nella sua organizzazione, quella che sarà
l’organizzazione della futura società comunista. Così come nel comunismo
l’individualismo sarà cancellato, in nome di una appropriazione collettiva dei mezzi
di produzione ed una distribuzione collettiva ed egualitaria dei prodotti
realizzati, così nel partito occorre replicare forme di comunismo, e dunque l’individuo
va messo in relazione con il tutto, l’Io scompare e si fonde con il partito
stesso nel suo insieme (fino ad esempio ad incoraggiare pratiche quali la
scrittura collettiva di documenti di analisi politica senza firmarli,
prescrizione valida anche per i massimi vertici del partito, in modo da evitare
ogni appropriazione individualistica dell’analisi teorica e della proposta
tattica e strategica del partito).
Di fatto, quindi, proprio per
anticipare quel “cervello sociale” e
l’uomo sociale che, secondo Marx, è caratteristico della fase comunista della
società, le conoscenze “sono mediate dal partito, le azioni anche. Il militante
non ha bisogno di cercare la verità; essa gli è data dal partito.
Inoltre, sempre per avvicinarsi
maggiormente ad una anticipazione della futura società comunista, il partito
deve evitare vizi borghesi, come “l’abuso di formalismi organizzativi senza una
ragione vitale”, per cui nell’approccio bordighista di partito si cerca di
evitare la formazione di una pesante burocrazia intermedia autoreferenziale, e
si facilita il più possibile la circolazione diretta di informazioni fra centro
e periferia in senso bidirezionale. Si nega anche validità allo strumento
formale dello statuto del partito, che viene visto come un formalismo che
spesso non si realizza nella pratica, sostituendolo con le direttive che il
centro (il vertice) emana verso la base.
Le questioni gerarchiche interne
al partito bordighista, ovvero il rapporto fra il vertice (il centro) e la base
(il movimento) sono regolate secondo un principio generale: “mentre per la
direzione ideologica e pratica del movimento e della lotta rivoluzionaria del
proletariato è necessaria la maggior concentrazione possibile, per
l’informazione sul movimento al partito e per la responsabilità dinanzi al
partito è necessaria la maggiore decentralizzazione possibile. Il movimento
deve essere diretto dal minor numero possibile di gruppi quanto più possibile
omogenei di rivoluzionari di professione, resi esperti. Al movimento deve
invece partecipare il maggior numero possibile di gruppi quanto più possibile
multiformi ed eterogenei, comprendenti i vari strati del proletariato. E il centro
del partito deve sempre avere dinanzi a sé i dati precisi sull’attività di
ognuno di essi, e sulla loro composizione. Dobbiamo centralizzare la direzione
del movimento ed anche decentralizzare la responsabilità di ciascun membro
dinanzi al partito, nonché del lavoro di informazione che deve far conoscere al
centro tutti gli ingranaggi, grandi e piccoli, della macchina del partito”.
Tutto ciò serve, per Bordiga, a
realizzare una efficace divisione del lavoro: un ristretto nucleo centrale di
dirigenza elabora la linea ideologica, strategica e le direttive tattiche,
mentre la base, gli organi locali del partito ed i singoli militanti si
specializzano in un lavoro attuativo specifico, rispondendone direttamente al
vertice. In questo modo, quindi, “il partito (ovvero il suo ristretto vertice in maniera esclusiva, e sostanzialmente
senza una particolare consultazione con la base, e senza neanche passare
tramite un voto congressuale, come invece previsto nel centralismo democratico,
NdA) scolpisce i lineamenti della sua
dottrina e della sua azione e della sua tattica con una unicità di metodo al di
sopra dello spazio e del tempo (prescindendo
quindi anche dalle pretese individualistiche del singolo che di volta in volta
vi si trova dentro, ancora una volta quindi forgiando una idea di partito
collettivo, che travalica le singole individualità che in un dato momento
storico lo compongono, NdA)”.
Tale metodo non soltanto reprime la formazione di frazioni minoritarie interne
al partito, come avviene nel centralismo democratico, ma addirittura le
previene, evitando ogni forma di dibattito interno fra centro e base. Ed è così
che l’abbandono del partito diviene l’unica forma di espressione del dissenso
rispetto alle delineazioni ideologiche e politiche imposte dal Centro, per cui,
dice Bordiga, “tutti coloro che dinanzi a tali delineazioni si trovano a
disagio hanno a loro disposizione la ovvia via di abbandonare le fila del
partito”.
A differenza del centralismo
democratico, gli organi del partito (e come si è visto, nemmeno le delineazioni
strategiche e tattiche effettuate da tali vertici) non vengono scelti tramite
il meccanismo democratico, rigettato da Bordiga tanto nel rifiuto di
partecipare ai meccanismi parlamentari borghesi (cfr. dispensa nr. 3, la
polemica di Lenin contro i sinistri) quanto nella designazione degli organi,
che, a differenza del centralismo democratico, non è elettiva, ma avviene per
auto-designazione dei vertici dirigenti del centro, e per nomina e cooptazione
degli organi di secondo livello e periferici. Tutto ciò deriva dalla stessa
matrice comune, che nega validità realmente democratica ai meccanismi elettivi
e di conta. D’altra parte, la concezione bordighista di partito vieta ogni
opportunismo, ogni carrierismo.
Da tutto ciò, deriva il senso
della locuzione “organico” che Bordiga utilizza per definire l’organizzazione
del partito secondo la sua corrente: “organico”, intanto perché si contrappone,
sostituendola, alla locuzione “democratico”, che per Bordiga è un residuo
dell’organizzazione borghese della società. Organico, poi, anche perché il
partito rappresenta l’organo attraverso il quale la classe esprime la sua lotta
e la sua coscienza. Organico, infine, perché al suo interno opera come un
organismo, in cui i singoli organi di specializzano in una funzione, e si
collegano fra loro tramite una rete, fatta anche di scambi di informazioni, e
la rete degli organi specializzati viene comandata e coordinata da un centro
pensante, che per sua stessa natura, e non in base a meccanismi democratici o
elettorali di riconoscimento di un ruolo, è preposto a dirigere in forma
esclusiva l’attività dell’intero organismo.
La concezione del partito in Gramsci
Una originale concezione di
partito è quella espressa da Antonio Gramsci, uno dei padri del marxismo
italiano. Il ragionamento gramsciano, per molti versi, ruota attorno alle
componenti sovrastrutturali del sistema, ed attorno al perno centrale
dell’egemonia politico/culturale che la classe deve imporre alla società, come
condizione di tipo rivoluzionario (cfr. dispensa nr. 1).
L’egemonia avviene, in primis,
nelle strutture produttive reali del capitalismo. Da questo punto di vista,
Gramsci sarà uno dei padri del comunismo dei Consigli. Nell’esperienza pratica,
e purtroppo fallimentare, dei Consigli di Fabbrica istituiti a Torino, nei
principali stabilimenti metalmeccanici, negli anni immediatamente successivi
alla prima guerra mondiale (esperienza chiusasi poi nel 1920) Gramsci vede una
prefigurazione della futura società socialista. Egli dice infatti che “il
Consiglio di Fabbrica è il modello dello Stato proletario”. Tale esperimento è
per Gramsci un esperimento di egemonia, nella misura in cui “il Consiglio è il
più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito
sociale che il proletariato sia riuscito ad esprimere…l’esistenza del
Consiglio…crea la psicologia del produttore, del creatore di storia”. Inoltre il
Consiglio “producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la su
sovranità (la sua egemonia, NdA)”.
Ma la struttura consiliare della
società è, per Gramsci, anche la base della visione del partito. Egli infatti
propugnerà la trasformazione del partito dalla sua struttura territoriale a
quella cellulare, basando cioè la struttura elementare, il mattone primo del
partito, sul Consiglio di Fabbrica. Tale considerazione però non deve trarre in
inganno: per Gramsci, in linea con Lenin, un partito comunista deve anche avere
una forte struttura centrale, ed una rigida disciplina interna.
L’egemonia, poi, per Gramsci, si
situa anche al livello culturale ed intellettuale La coscienza di classe, in
linea con la teorizzazione di Lenin, non viene autoprodotta dentro il
proletariato. Per Gramsci, il proletariato “non ha una chiara coscienza teorica
di questo suo operare…la sua coscienza teorica può anzi essere in contrasto con
il suo operare”. Ed ancora, “il partito comunista è lo strumento e la forma storica
del processo di intime liberazione per cui l’operaio da esecutore diviene
iniziatore, da braccio diviene cervello e volontà”.
In questo senso, dunque, emerge
il ruolo centrale dell’intellettuale, che deve essere intellettuale organico
alla classe, cioè che abbia sposato gli obiettivi e le esigenze della classe.
Rieccheggiando il fondo del pensiero di Lenin, dunque, per Gramsci
“l’innovazione non può diventare di massa, nei suoi primi stadi, se non per il
tramite di una élite”. Il partito è dunque la forma avanzata degli
intellettuali organici. Il partito operaio in Gramsci, come dice Diego Fusaro,
è visto come intellettuale collettivo: “tutti i membri del partito politico
debbono essere considerati come intellettuali (…) importa la funzione che è
direttiva ed organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale”. Ancora una
volta, il ruolo centrale dell’intellettuale organico nel pensiero di Gramsci
non deve trarre in inganno: non vi è alcun elitismo, poiché per Gramsci tutti
gli uomini, in una certa misura, sono intellettuali, “non si può separare
l’homo faber dall’homo sapiens”. Lo stesso intellettuale deve appropriarsi del
lavoro manuale e tecnico, e d’altra parte il suo ruolo deve servire in forma
strumentale, poiché
Il partito viene da Gramsci paragonato alla
versione moderna del Principe di Machiavelli. Il Principe è da Gramsci visto
non come una persona fisica, ma come un organismo politico/partitico :”la prima
cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva”. Perché il
partito esista, per Gramsci devono confluire tre elementi:
1. “un
elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla
disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente
organizzativo (…) essi sono una forza in quanto c’è chi li centralizza,
organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si
sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente” (la base del
partito);
2. “l’elemento
coesivo principale (…) dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche, e
anzi forse per questo, inventiva (…) da solo questo elemento non formerebbe il
partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo elemento considerato. Si parla
di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che
formare dei capitani” (il vertice dirigente del partitoi);
3. “un
elemento medio, che articoli il primo col secondo elemento, che li metta in
contatto, non solo fisico, ma anche morale ed intellettuale” (ecco che
riaffiora il ruolo centrale dell’intellettuale organico dentro il partito, come
elemento di mediazione fra base e vertice).
Bibliografia/sitografia: per saperne di più
Karl Marx, Friedrich Engels, “Il
Manifesto Del Partito Comunista”, su www.marxists.org/italiano/marx-engels/1848/manifesto/index.htm
Vladimir Lenin, “Che Fare?”, su www.marxists.org/italiano/lenin/1902/che-fare/cf-index.htm
Lars Lih, “Lenin Rediscovered:
What Is To Be Done?”, Brill, 2005
Rosa Luxemburg, “La Rivoluzione
Russa”, Opere Nuove, 1959
Rosa Luxemburg, “Replica a Lenin
a proposito di centralismo e democrazia. Questioni di organizzazione della
socialdemocrazia russa”, Ed. Movimento Operaio, 1957
Amadeo Bordiga, “Citazioni Sul
Centralismo Organico”, in www.quinterna.org/lavori/centralismo_organico.htm
Antonio Gramsci, “Il Partito
Comunista”, su www.marxists.org/italiano/gramsci/20/partitocomunista.htm
Antonio Gramsci, “La Costruzione
Del Partito Comunista. 1923-1926”, Einaudi, 1971
Antonio Gramsci, “Lettere Dal
Carcere”, Einaudi, 1947
Antonio Gramsci, “Note Sul
Machiavelli Sulla Politica E Sullo Stato Moderno”, su www.liberliber.it/mediateca/libri/g/gramsci/note_sul_machiavelli/pdf/note_s_p.pdf
Onorato Damen, “Egemonia E
Democrazia”, su www.leftcom.org/it/articles/1975-01-01/egemonia-e-democrazia
[1]
E’ peraltro interessante notare come la stessa scienza borghese ha elaborato
una analisi della non rappresentatività o manipolabilità dei sistemi
elettorali, tramite il “paradosso di Condorcet” oppure il “teorema
dell’impossibilità” di Arrow. Cfr. R. Achilli, “La democrazia secondo Marx ed
Engels”, su http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2011/04/la-democrazia-secondo-marx-ed-engels.html
[2] Frantz
Fanon, “Les Damnés De La Terre”, reperibile (in francese) su http://classiques.uqac.ca/classiques/fanon_franz/damnes_de_la_terre/damnes_de_la_terre.htm
[3]In questo senso, dunque, uno studioso dell’imperialismo come Hosea Jaffe sostiene che la questione dei rapporti di proprietà dei mezzi di produzione
non sia quella essenziale, nella misura in cui l’imperialismo, sempre secondo
Jaffe, fa astrazione dal rapporto di classe, per costruire una nuova relazione
di produzione, ovvero quella fra multinazionale e Paese colonizzato, fra
nazioni, per cui nei Paesi sottoposti a controllo imperialistico, i rapporti di
classe interni sono subordinati ad un rapporti di classe indiretto, fra le
classi dominanti (ivi compresa l’aristocrazia operaia) dei Paesi imperialistici
e le classi proletarie dei Paesi soggiogati.
[4] Cfr.
“L’autodeterminazione Dei Popoli”, su http://isla_negra.zoomblog.com/archivio/2008/04/15/roberto-Massari-Italia-Lautodeterminaz.html
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