COM'ERI BELLA MARCIA DELLA PACE
di Stefano Macera
Chi conosce Glauco Pellegrini?
Temo che il suo nome – al di fuori della cerchia degli studiosi della settima
arte – sia pressoché ignoto. Eppure non è stato un regista irrilevante. Certo,
le sue incursioni nel cinema di finzione (come la realizzazione, assieme ad
altri autori, del film Amori di mezzo
secolo, nel 1954), non hanno lasciato una traccia profonda. Ma la sua
trentennale attività di documentarista – iniziata nel 1942 con Giotto e la cappella degli Scrovegni e Arquà
Petrarca – si distingue tanto per la varietà dei temi trattati che per la
ricercatezza delle soluzioni espressive adottate.
Ne è una prova La marcia della pace (1962), un documentario
in bianco e nero, dedicato alla prima
marcia Perugia-Assisi, svoltasi il 24 settembre 1961, che in soli 12 minuti
riesce sorprendentemente a restituire un momento e le energie che lo hanno attraversato.
Un piccolo miracolo, dovuto ad uno sforzo produttivo non disprezzabile ed alla
cura minuziosa di ogni aspetto di questo prodotto audiovisivo: dal commento
che, porta l’illustre firma di Gianni Rodari, alle immagini, frutto del lavoro
di tre operatori, fino alla musica, appositamente scritta dal maestro Fausto
Ferri.
Ma procediamo con ordine. Il
commento recitato dalla voce fuori campo fornisce, a ben vedere, non solo
l’intelaiatura narrativa, ma anche quella ideale del documentario. Ciò perché
realizza una interessante dialettica con quello che vediamo. Si pensi a quando, prima della “cronaca” della
giornata, vengono ricordati i versi de La
bambina di Hiroshima del poeta turco Nazim Hikmet (“avevo dei lucenti
capelli, il fuoco li ha strinati, avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha
spenti. Un pugno di cenere, quello sono io, poi venne il vento e ha disperso la
cenere”). Davanti a noi compaiono anzitutto due primi piani di persone assorte,
ma poi vi è una inquadratura della Rocca di Assisi – luogo di arrivo della
marcia – che si allarga sino a comprendere una banda musicale e la gente
assiepata. E’ evidente, da parte del regista, la consapevolezza che altre facce
contrite avrebbero assunto un carattere di sottolineatura retorica.
Nel momento in cui, finalmente,
assistiamo allo sfilare della marcia, la voce fuori campo insiste sulla varietà
di opzioni culturali e politiche che la contrassegnano e ci anticipa, in tal
senso, che poi vedremo un ritratto di Lumumba, qui fiancheggiato da quelli del
Mahatma Gandhi e di Dag Hammarskjold, Segretario generale dell’Onu dal 1953 al
1961. In effetti, l’immagine dell’eroe dell’indipendenza congolese ci appare
qualche minuto dopo: è il segno che il commento è stato pensato nei termini,
non convenzionali, di una sorta di conversazione con lo spettatore.
Quando la marcia arriva ad
Assisi, ingrossandosi di continuo in un cammino deciso ma più lento, e la voce
fuori campo ci porge la domanda “ma dove
giungerebbe, fin dove il corteo dei 26 milioni di morti della seconda guerra
mondiale, quello dei sei milioni di ebrei trucidati nei campi di
concentramento”, si realizza il massimo della (deliberata) divaricazione
fra testo e immagini. Se le parole si
caricano degli accenti più drammatici, noi vediamo invece volti stanchi ma
entusiasti e gli operatori, molto attenti, ci restituiscono – con tre
inquadrature di gente che saluta o che osserva dalle finestre delle case –
l’accoglienza che il paese riserva ai “volontari della pace”.
Del resto, viene da pensare, qui
si esprime un’allegria consapevole, che non vuole essere fuga dai problemi e
dalle tragedie della storia.
Certo, in qualche momento si ha
la sensazione di un eccesso di parlato, cui il dato visivo sta dietro a fatica.
E’ il caso del passaggio in cui si sintetizzano gli interventi effettuati (al
termine della manifestazione) da tre grandi del novecento italiano: Aldo
Capitini, l’ideatore dell’iniziativa, il pittore Renato Guttuso e lo scrittore
Guido Piovene.
Ma nel complesso, l’uso della
voce fuori campo è ben calibrato. Si può dire altrettanto per il suggestivo
commento musicale di Fausto Ferri? Con i suoi crescendo ed il suo indovinato
tono generale, energico ma non trionfalistico, esso accompagna il documentario
per tutta la sua durata, salvo la manciata di secondi dedicata ai versi di
Hikmet ed una più corposa parte in cui – nel vivo della marcia - è sostituito
dalla nota canzone Dove vola l’avvoltoio di
Italo Calvino. Forse, qualche ulteriore interruzione non avrebbe guastato, ma
in ultima analisi, la colonna sonora funziona perché il suo andamento è
naturalmente in sintonia con le immagini. Le quali, come si accennava, sono il
risultato dello sforzo di tre operatori, che si sono impegnati a raccogliere
tutto quello che poteva suggerire il senso della giornata. Dai numerosi
cartelli, perlopiù scritti a mano (“Evviva i paesi non allineati!”, “Tutto il
bilancio dello Stato per opere di pace”), ai tanti volti che danno l’idea di
un’umanità variegata, fino ai gesti “rubati”, come quello di una signora che si
aggiusta il fazzoletto sul capo.
A questa molteplicità di aspetti
corrisponde una notevole diversificazione dei tipi d’inquadratura. Abbondano i
primi piani, ma la marcia è ripresa dall’alto, in campo lungo e lunghissimo
(come quello che ne riduce i partecipanti a puntini che si muovono sul ponte).
Per non dire dei numerosi dettagli, tra cui spicca quello dei piedi in
movimento. O dei volontari della pace che – giunti in paese – sono brevemente
“ritratti”, quasi di spalle, da sottinsù.
Il montaggio è rapido, talora
serrato, così da raggiungere un preciso effetto: le inquadrature, trattenute
pochi secondi, trasmettono un senso di immediatezza e di spontaneità, quasi non
fossero state costruite.
Ma la ricchezza dello spaccato
offertoci in pochi minuti non sembra essere il solo risultato di accorgimenti
cinematografici, corrispondendo, invece, a un dato reale. L’evento appare
segnato da uno slancio formidabile e non solo perché non aveva precedenti e
beneficiava dell’entusiasmo degli inizi. C’è un’immagine che, in tal senso,
appare rivelatrice. E’ quella di un ragazzino che salendo verso la Rocca, con
altri suoi coetanei, porta con sé un cartello con scritto “Libertà per
l’Algeria”.
In quella fase storica, popoli
già sottoposti alla lunga e feroce colonizzazione occidentale, stavano
riprendendo in mano il proprio destino. La loro spinta era presente anche nella
marcia, in cui la pace è rivendicata come un obiettivo tanto più urgente quanto
più coniugato con quello della giustizia. Lo stesso Capitini, dal palco,
denunciava mali come il razzismo, l’imperialismo e lo sfruttamento economico. E
i diversi modi in cui i volontari della pace esprimevano il rifiuto della
guerra erano accomunati da questo sentire, non più eurocentrico.
Dunque, lode a Pellegrini e ai
suoi tecnici, per le doti “riassuntive” dimostrate. Ma essi hanno lavorato su
qualcosa di vivo, su una manifestazione la cui istanza utopica non era discorso
generico, poggiando invece su un impulso alla trasformazione sociale espresso
da milioni di donne e uomini in ogni angolo del pianeta.
Oggi, la marcia Perugia-Assisi ha
perso molto del suo significato. S’è trasformata in un rito, per giunta segnato
spesso da presenze equivoche, come quei politicanti che pensano che la pace sia
la ricostruzione dopo le guerre, ipocritamente dette “umanitarie”, di cui sono
complici.
Forse, anche il regista più
grande avrebbe difficoltà a trasformarla nel pulsante documento di un’umanità
che afferma una diversa concezione del vivere civile e delle relazioni tra i
popoli.
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