AMMINISTRATIVE E REFERENDUM: UN MATCH IN DUE RIPRESE
di
Norberto Fragiacomo
Le
amministrative di giugno sono dietro l'angolo, ma anche ottobre si approssima:
lo sa bene Renzi, che il primo maggio (è uno sberleffo premeditato,
naturalmente) ha dato il via alla campagna per il SI al referendum di riforma
costituzionale. Al netto della gragnola di slogan, gli argomenti sono quelli
cui il golden boy di Rignano ci ha abituato da un pezzo: accuse di
conservatorismo a quanti si azzardano a non pensarla come lui (il mentore
Berlusconi avrebbe detto che "remano contro", ma i "gufi"
con le barche c'entrano poco), inni alla semplificazione che si fermano al
ritornello, spavalde vanterie ben oltre il limite dell'autoincensamento, forse
del ridicolo. Approccio da taverna, ma mediaticamente fruttuoso: il merito
delle questioni viene accantonato, i critici sono additati come livorosi
nostalgici, urlatori senza costrutto e professoroni macchiettistici. Ce l'hanno
con me perché sto finalmente cambiando l'Italia - strilla in sostanza -, prova
ne sia che "ho abolito il Senato!"
Ora, che l'ultima
affermazione sia grossolanamente falsa non lo preoccupa: esigenze di
"semplificazione" consentono di contraffare la realtà a piacimento,
quando si è certi che il pubblico sia di bocca buona. Matteo Renzi ha
individuato il proprio target per esclusione: sa già in anticipo chi
dirà NO alla sua riforma (su alcune criticità della quale mi sono soffermato
mesi addietro). Gli avversari - giudicati irrecuperabili, e perciò non
meritevoli di attenzione - sono una larghissima fetta di quel 32% circa di
italiani che, il 17 aprile, si sono pronunciati sulle trivellazioni in
Adriatico fino alla fine dei tempi. Tentiamo di definirli: sono i cittadini
che, faticando, provano a tenersi aggiornati e poi, magari, la domenica si
accapigliano su Facebook a proposito delle politiche della UE - non sempre
hanno le idee chiare, ma a partecipare ci tengono. Che con costoro
("quelli che sanno solo dire di no", li liquida sprezzante Matteo)
non ci sia alcuna intenzione di ricucire lo strappo lo dimostra indirettamente
il trattamento riservato a Michele Emiliano che, fino a prova contraria, è pur
sempre un Presidente di Regione iscritto al PD - ma anche l'unico rivale
interno di una certa caratura, e una possibile, temuta alternativa di governo:
la virulenza degli attacchi, scomposti e piuttosto volgari, susseguitisi nelle
ultime settimane fa da preludio - direi: da prova generale - a una campagna
referendaria sopratono che sarà condotta a reti unificate e “casa per casa”.
Il premier, insomma, vuole arruolare "gli
altri", quelli che dei referendum storicamente se ne fregano, smaniano
nell'auto bloccata dai cortei del Primo Maggio, snobbano i talk show non perché
faziosi, ma perché ospitano gente che parla "di politica" per una
serata intera (sai che noia! e poi sono "tutti ladri" a
prescindere... ma che ne pensi dell'ultimo acquisto della Juve?) e delle ore
passate a scuola hanno un ricordo vago e appannato. Per restare all'esempio di
prima: quelli che sulla pagina FB pubblicano, ben che vada, la foto virali di
una cucciolata, o copiano da altri utenti pensierini stile Baci Perugina.
Silvio Berlusconi - più
naif ma, in fondo, anche assai più immaginifico del suo successore -
identificava il proprio serbatoio naturale di voti con gli studenti medi meno
dotati, quelli degli ultimi banchi, o con le casalinghe di Voghera e dintorni:
Renzi è conscio che per vincere avrà bisogno dell'appoggio delle stesse masse
disinformate e disattente, ed è convinto di poterselo conquistare senza troppa
fatica. Le elargizioni a pioggia servono allo scopo, e pure i concetti
omogeneizzati, se rafforzano lacerti di opinione ampiamente diffusi: che il
Parlamento - e magari qualche giudice - siano un intralcio alle scelte "di
chi fa", che i politici siano una genia di succhiasangue, ingordi di
privilegi e indennità – tutti in blocco: dal capogruppo al Sindaco di paese -,
che il nuovo sia per definizione da preferire al vecchio. Palazzo Chigi val
bene una messa: la riappacificazione sottotraccia tra i due esponenti della
destra economica - che Matteo Salvini imputa ad un "ricatto"
governativo ai danni di Mediaset - è figlia primogenita dell'esigenza di poter
contare, in autunno, su una quota maggioritaria dell'elettorato storicamente berlusconiano.
C'è pure un altro motivo: Renzi non ha inizialmente dato troppa importanza alle
consultazioni locali, lasciando il partito in balia di se stesso, per poi realizzare
in extremis che un risultato negativo a giugno potrebbe riflettersi
sugli esiti di un referendum che si terrà - se si considerano i tempi della
politica - l'indomani o quasi. Il suo principale timore è un'avanzata della
destra definita "populista" - cioè ostile alla UE - e soprattutto del
M5Stelle, apertamente schierati per il NO. Ecco allora che l'appoggio a
Marchini - imprenditore prestato alla politica, cioè a se stesso, situabile in
quella zona grigia dove PD ed ex PdL si confondono - diventa conveniente per
entrambe le parti: per Renzi convinto di poter così scongiurare il successo
quasi annunciato della Raggi [1], per Berlusconi che,
smarcatosi dal duo antiUE Salvini-Meloni, si ricandida a oppositore integrato,
a leader di una destra compatibile con lo schema bipolare che, malgrado qualche
scricchiolio locale, nell'universo europeista tiene ancora. Se
"grillini" e leghisti verranno contenuti, le amministrative finiranno
con un ininfluente pareggio - a patto che il Partito (sedicente) Democratico
conquisti almeno due-tre grossi centri. A questo punto, forte della non
belligeranza di Silvio – che consegnerà senza clamori le sue reti ai
propagandisti renziani e, all’ultimo istante, esprimerà un sofferto SI – il
premier potrà scatenare una campagna aggressiva, fatta di parole d’ordine,
blandizie, minacce, promesse e qualche mancia. I dissenzienti saranno oscurati,
le loro ragioni banalizzate e/o travisate ad arte - e Renzi vincerà la partita
decisiva.
Questo pare essere il suo
intendimento, ma non mancano ostacoli sulla via del bramato trionfo. In primo
luogo – l’ho anticipato – le candidature piddine di giugno sono quasi ovunque debolissime:
soltanto Fassino in Piemonte parte favorito, Sala a Milano arranca dietro un
rivale che gli somiglia come una goccia d’acqua (sono intercambiabili). A
Napoli altri saranno protagonisti, Roberto Giachetti – professione di liberismo
sfrenato, ma comunicazione d’antan – al
ballottaggio non dovrebbe proprio arrivarci. L’assenza del “soccorso rosso”
(quello di SeL, finta forza d’opposizione, è rosa pallido) potrebbe pesare
anche in realtà come Trieste, dove tre candidati (PD, destra e 5Stelle) hanno
analoghe chance di vittoria. Certo, meglio per Palazzo Chigi un’affermazione
dei “moderati” (leggi: destra sottomessa alla UE) che quella di forze
“estremiste” – finora a parole -, ma una disfatta piddina su scala nazionale non
mancherebbe di riverberarsi sull’immagine del governo “del fare”.
Inoltre, Renzi non può più
presentarsi come il garante/protettore di tutti, padroni e operai, elite
economica e cittadini comuni: la dogmatica – ma in fondo istintiva – avversione
nei confronti dei sindacati si è tradotta in un’attività di governo ad
esclusivo beneficio del mondo imprenditoriale, con particolare riferimento ai
potentati finanziari (banche e imprese multinazionali) poiché i piccoli sono
sacrificabili. Inutile allungare il brodo con esempi di attualità; la
scelta di campo, ideologica prima ancora che caratteriale, in favore di
Marchionne implica piena adesione al modello europeista, che prevede drastici tagli
alle pensioni, alla sanità e ai servizi pubblici (eseguiti), cancellazione del
diritto del lavoro (Jobs act),
manomissione di Costituzioni troppo “socialiste” per piacere ai finanzieri che
telecomandano Commissione e istituzioni UE (in corso), appoggio indiscusso a
quel trattato transatlantico (Ttip) che sopprimerà di fatto le Corti
costituzionali per assegnare il sindacato sulle leggi a un ristretto gruppo di
avvocati d’affari contigui alle corporazioni transnazionali. Anche gli enti
locali stanno pagando un doloroso scotto: la loro autonomia, garantita dalla
Carta fondamentale, è oramai azzerata, tra associazionismo forzoso,
congelamento delle risorse e normative – vedi il nuovissimo Codice degli
appalti/D. Lgs. 50/16, di ispirazione comunitaria – che subordinano espressamente
diritti dei prestatori di lavoro (cfr.
l’ipocrita disposizione sulle c.d. clausole sociali, inseribili nel bando di
gara purché non sgradite all’iniziativa privata) e settori come quello sociale
e culturale all’onnipotente concorrenza. Matteo Renzi è – assieme a Mario Monti
– il governante più a destra nella storia della Repubblica: la necessità di
opporsi alle sue politiche è stata ben compresa da svariate centinaia di
sindaci aderenti all’ASMEL che qualche giorno fa, a Napoli, hanno approvato un
Manifesto contro l’accorpamento coatto dei Comuni minori. In questa battaglia un
ruolo centrale spetterebbe di diritto ai primi cittadini delle grandi città,
che però mancano all’appello: di fronte alle prepotenze del loro segretario i
Sindaci di marca PD tacciono, conniventi. La sostanziale ignavia, l’omessa
denuncia sono di per sé una colpa – sanzionabile con un voto contrario ai singoli
responsabili, che indebolirebbe Renzi e il suo sistema di potere. La riscossa
italiana potrebbe partire proprio dalle comunità, concretandosi in un patto fra
cittadini, amministratori e funzionari che riporti l’attività amministrativa
nell’alveo della Costituzione, con conseguente motivata disapplicazione in actis delle norme primarie che
collidono con i suoi principi. Un esempio? Facile: il diritto all’iniziativa
privata, le ragioni della concorrenza sono – nel nostro ordinamento - recessive rispetto alla tutela dei
lavoratori, alla salute e alla sicurezza sociale. Immaginare una guerriglia in
punta di diritto è però da inguaribili ottimisti: mi accontenterei di una debacle
elettorale del PD, che rafforzerebbe i dubbi – già presenti in ampi strati
dell’opinione pubblica di “centro-sinistra” e dintorni, come dimostra la
significativa affluenza al referendum di aprile – sulle reali finalità di
Renzi, sulla possibilità che le sue politiche, pur orientate a destra, migliorino
di rimbalzo anche la sorte delle masse (non solo) giovanili. Il calo della
speranza di vita (“dall’ufficio alla tomba” sarà l’inevitabile motto, se le
cose seguiteranno ad andare così) e l’onnipresenza dei voucher sono solamente
due sintomi della malattia chiamata renzismo, a sua volta una variante locale
del nuovo regime cleptoliberista imposto ai popoli europei: sta ai cittadini
debellarla, votando accortamente a giugno e in autunno.
Assieme a Matteo Renzi non
cadrebbe la dittatura finanziaria, ma ad ottobre potremmo comunque ottenere due
eccellenti risultati. Il primo sarebbe l’eclissi politica di un individuo che
già tanti danni ha inferto al Paese; il secondo la vanificazione di una
controriforma centralista che, attraverso l’intermediazione dell’esecutivo,
affida ogni decisione su presente e futuro alle lobby brussellesi.
Qualche settimana fa, su
Facebook (sempre là torniamo…), una compagna si chiedeva smarrita come dovrebbe
comportarsi un elettore “di sinistra” alle comunali romane. Semplice: voti al
primo turno Fassina, che di Sinistra Italiana è uno dei pochi volti seri e
presentabili (il resto è vendolismo mellifluo e ipocrita), e al secondo la
Raggi, come antipasto della scelta autunnale. Una triplice (o duplice) mossa
finalizzata a chiudere un capitolo che ad ogni nuova pagina ci offre qualche
brutta sorpresa.
[1] Ma non si voleva lasciare la capitale ai 5Stelle, per
poi mettere a nudo la loro incapacità di governare le città? Questa era senz’altro
la pensata iniziale, ottima nella prospettiva di elezioni politiche datate
primavera 2018 o autunno 2017… molto meno in quella di un voto/ordalia fissato
per ottobre 2016: difficile che nei tre mesi estivi – una sorta di periodo sabbatico
per la politica nazionale - la Raggi, spigliata e sorprendentemente telegenica,
riesca a combinare disastri.
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